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Il nodo dell’obiezione

di coscienza

 

di Ferdinando Cancelli

Il 20 aprile scorso è stato approvato dalla Camera dei deputati con 326 voti favorevoli il disegno di legge riguardante le «Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento» trasmesso quindi al Senato. Il testo unico approvato dalla commissione affari sociali è stato emendato in alcune sue parti ma non pare cambiato nella sostanza. Alcuni punti in particolare hanno sollevato un vivace dibattito nei giorni immediatamente seguenti l’approvazione ma spesso si è avvertita la sensazione di assistere al manifestarsi di prese di posizione ideologiche più che di commenti al testo vero e proprio.

Può essere utile, in attesa del voto definitivo del Senato, soffermarsi su alcuni punti. «La nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale — si legge al comma 4 dell’articolo 1 sul consenso informato — sono considerati trattamenti sanitari» e quindi, nello spirito del disegno di legge, oggetto di consenso da parte del paziente. Che cosa succede già oggi nella pratica clinica quotidiana? Come medico non mi permetterei mai di alimentare o di idratare un paziente «capace di agire» senza spiegargli prima il senso di ciò che gli propongo e senza aver ascoltato che cosa ne pensa. In caso di rifiuto, cosa che per altro ricordo essere successa pochissime volte nella mia carriera, cerco di spiegare nel modo più comprensibile possibile al paziente e, se questi è d’accordo, ai suoi familiari «le conseguenze di una tale decisione» se da questa deriva un abbreviamento della vita. Dal momento che nessuno può essere forzato ad un trattamento sanitario (sia esso definito mezzo di sostegno vitale o terapia poco importa in tal caso) senza «consenso libero e informato» l’eventuale rifiuto sarà rispettato. In altre parole il disegno di legge ratifica quanto normalmente dovrebbe già avvenire.

Senza dubbio più problematico, e questo pare un nodo fondamentale che non potrà essere trascurato, è quello dell’obiezione di coscienza, mai citata espressamente nel testo. Il comma 6 dell’articolo 1 pare decisamente confuso e lacunoso a questo proposito: «Il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo (...)»  si legge in una prima parte. Proseguendo nel testo si aggiunge che «il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali» e che, di fronte a tali richieste, il medico «non ha obblighi professionali». Questa seconda parte, da alcuni interpretata come un velato riferimento all’obiezione di coscienza, non lo è affatto e ancora una volta rappresenta un ribadire quanto già oggi avviene nella pratica professionale quotidiana. Se un paziente richiede ad esempio un trattamento chemioterapico di provata inefficacia per la sua situazione di malattia non sussiste già oggi alcun «obbligo professionale» per il medico di prescrivergliela. È d’altra parte la prima metà del comma 6 ad essere vincolante per il sanitario e in tal caso senza ombra di dubbio: se la legge dovesse essere approvata così com’è e un paziente ventilato artificialmente dovesse chiedermi di sospendere la ventilazione che lo tiene in vita mi vedrei costretto a farlo a meno di infrangere la legge. Chiunque abbia fatto l’esperienza di che cosa significhi nella realtà spegnere un ventilatore meccanico sa che questa è un’azione che non si può richiedere a nessuno di fare per obbligo. È utile ricordare ancora una volta che anche la legge sul fine vita vigente nel Regno Unito prevede in tali casi l’obiezione di coscienza. Pur nel rispetto di una decisione legittima da parte del paziente, sarebbe una violenza vera e propria obbligare un medico ad agire contro la propria coscienza in un frangente così delicato. La libertà e l’autonomia non possono essere a senso unico a meno di non tradire quell’alleanza sulla quale si fonda la «relazione di cura e di fiducia» tra tra paziente e medico.

(© L'Osservatore Romano, 26 aprile 2017)