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La fine

della vita terrena

 

di Ferdinando Cancelli

Le domande che riguardano la fine della vita terrena «hanno sempre interpellato l’umanità, ma oggi assumono forme nuove per l’evoluzione delle conoscenze e degli strumenti tecnici». Il filo conduttore del messaggio con il quale Papa Francesco si è rivolto il 16 novembre ai partecipanti all’incontro regionale europeo della World Medical Association dedicato ai temi etici di fine vita è fondato sull’insegnamento morale della Chiesa eppure è portatore di un soffio nuovo.

Oggi, ha scritto il Pontefice, è «possibile protrarre la vita in condizioni che in passato non si potevano nemmeno immaginare», ammettendo però che gli interventi medici, tecnicamente sempre più efficaci, «non sono sempre risolutivi», e che sostenere o sostituire funzioni biologiche può non equivalere «a promuovere la salute», il bene integrale della persona. Occorre — afferma Papa Francesco — «un supplemento di saggezza».

Leggo questo discorso in un pomeriggio nel quale anche noi medici palliativisti italiani siamo riuniti in congresso e la circostanza rende le parole del Pontefice ancora più efficaci. Il magistero lo aveva affermato già sessant’anni fa con le chiare espressioni di Pio XII: «Non c’è l’obbligo di impiegare sempre tutti i mezzi terapeutici potenzialmente disponibili e, in casi ben determinati, è lecito astenersene». Detto con le parole di Francesco riprese dalla dichiarazione del 1980 Iura et bona della Congregazione per la dottrina della fede, è lecito rinunciare all’applicazione di mezzi terapeutici, o sospenderli se non vi è «proporzionalità delle cure», se cioè le cure non potendo più raggiungere il loro obiettivo si trasformano in «accanimento terapeutico».

È una scelta — precisa ancora il Pontefice — «che assume responsabilmente il limite della condizione umana mortale nel momento in cui prende atto di non poterlo più contrastare». Riprendendo il Catechismo della Chiesa cattolica il Pontefice afferma che in situazioni di malattia in fase avanzata o terminale «non si vuole provocare la morte» ma si può accettare «di non poterla impedire». Questa prospettiva, perfettamente coincidente con la filosofia di cura della medicina palliativa, «restituisce umanità all’accompagnamento del morire senza aprire giustificazioni alla soppressione del vivere»: evitare infatti mezzi sproporzionati o sospenderne l’uso equivale a evitare l’accanimento terapeutico e rappresenta «un’azione con significato etico completamente diverso dall’eutanasia».

A questo punto si innesta la freschezza del messaggio di Francesco: come si capisce se un intervento è proporzionato o no? Occorre — afferma il Papa — un «attento discernimento» che consideri tre fattori: l’oggetto morale, le circostanze e le intenzioni dei soggetti coinvolti nella relazione di cura. Forse mai prima d’ora con questa chiarezza un Pontefice aveva affermato quanto oggi abbiamo udito: la persona malata riveste un ruolo principale e, se competente e capace, «valuta i trattamenti che gli vengono proposti e giudica sulla loro effettiva proporzionalità nella situazione concreta». Spingendosi ancora oltre Francesco dice chiaramente che la rinuncia a un trattamento «è doverosa se tale proporzionalità dovesse mancare».

In altre parole il giudizio di fattibilità di un trattamento al quale il paziente si deve sottoporre non si deve basare soltanto sull’analisi oggettiva di proporzionalità fatta dal medico ma anche su quella soggettiva di ordinarietà espressa dal paziente che terrà conto di circostanze, di sensibilità e di vissuti strettamente personali. Per fare un esempio concreto: se un paziente affetto da sclerosi laterale amiotrofica deciderà, una volta scrupolosamente informato delle conseguenze, di non accettare la tracheostomia in caso di crisi respiratoria, tale rifiuto non dovrà essere interpretato come un’eutanasia ma come una rinuncia a un trattamento da lui vissuto come straordinario e quindi come accanimento terapeutico.

Papa Francesco, facendosi davvero vicino ai pazienti e ai medici che li seguono, termina ricordando «il comandamento supremo della prossimità responsabile» e l’imperativo di non abbandonare mai il malato sottraendosi alla relazione di cura ma sempre accompagnandolo sino alla fine. Soltanto insieme, sembra suggerire, si troverà la strada migliore, solo in una vera relazione l’umile accettazione di un limite avrà la forza di superare ogni tentazione di abbreviare la vita per aprirsi insieme alla vera speranza.

(©L'Osservatore Romano, 18 novembre 2017)