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Immigrati irregolari negli Stati Uniti

La piccola storia

di Guadalupe

 

di Giuseppe Fiorentino

Guadalupe García de Rayos ha vissuto ventidue anni in Arizona dove è arrivata appena adolescente. Madre di due cittadini statunitensi, la donna ha avuto più di un problema con l’Immigration and Customs Enforcement (Ice, l’autorita che vigila sulle procedure di immigrazone) per aver usato, nel 2009, un numero di previdenza falsificato allo scopo di entrare nel mercato del lavoro. Nonostante l’infrazione e dopo un breve periodo di detenzione, a Guadalupe è stato concesso di restare negli Stati Uniti, a condizione di una revisione annuale della sua posizione. Il 9 febbraio, durante l’ultimo di questi appuntamenti,  gli uomini dell’Ice hanno notificato l’ordine di espulsione. E, dopo essere  stata caricata su un furgone, la donna è stata  avviata alla deportazione verso il Messico.

Dal 25 gennaio, data in cui il presidente Trump ha varato l’ordine esecutivo contro l’immigrazione illegale,  Guadalupe è considerata una clandestina colpevole di un reato federale — avere appunto falsificato il numero di previdenza sociale  — e per questo non le è consentito risiedere in territorio statunitense

Giri di vite nei confronti degli immigrati irregolari non sono in realtà del tutto inediti. Ben pochi sanno che nel marzo 2015, in piena amministrazione Obama, gli agenti dell’Ice avevano effettuato un’operazione che aveva portato all’arresto di oltre duemila clandestini con precedenti penali. Ma mentre prima i casi come quelli di Guadalupe venivano considerati non pericolosi per la sicurezza nazionale e ai trasgressori era consentita una permanenza condizionata, il dispositivo del presidente Trump allarga a dismisura il raggio dei reati passibili di deportazione.

In base ai dati forniti dall’amministrazione, il 75 per cento dei 680 immigrati irregolari arrestati dopo il nuovo l’ordine esecutivo ha precedenti penali. Resta però da vedere quanti di questi si sono macchiati di piccole infrazioni, come Guadalupe, o sono invece trafficanti di droga o membri di pericolose bande criminali,  “categorie” che  il presidente sostiene di volere colpire attraverso la sua iniziativa. Che, come già era accaduto per il blocco degli ingressi da sette Paesi a maggioranza musulmana, ha suscitato numerose critiche e  non solo negli Stati Uniti.

In Messico ha avuto luogo una gigantesca manifestazione di protesta. Mentre il governo del presidente Peña Nieto ha stanziato quarantasei  milioni di euro per i consolati in territorio statunitense, che presumibilmente dovranno per primi affrontare la nuova emergenza. E anche altre nazioni americane, come l’Argentina e il Brasile, hanno per il momento abbandonato le tradizionali rivalità, convenendo sull’esigenza di rafforzare la cooperazione, non solo economica, di fronte alle politiche di chiusura prospettate da Trump. Il quale, incontrando il premier canadese Justin Trudeau, non ha esitato sottolineare che a rendere inadeguato il Nafta (il trattato di libero commercio dell’America settentrionale) non sono certo le relazioni con  vicini del nord, ma quelle con i messicani.

È forse troppo presto per  concludere che le nuove politiche statunitensi condurranno a una più marcata polarizzazione nel continente. Ed è anche vero, come ha fatto notare il «Wall Street Journal», che le prime tre settimane  di presidenza Trump (che continua a mantenere il sostegno del suo elettorato) sono state caratterizzate da molto clamore, da alcune battute d’arresto e da qualche parziale marcia indietro. Ma ad oggi il rischio di una divisione più ampia tre le Americhe sembra abbastanza concreto.

E a farne le spese sono  le persone come Guadalupe, le cui piccole storie non interessano nessuno. Come a quasi nessuno sembra interessare il destino dei profughi siriani, relegati in un limbo dopo gli accordi che li tengono lontani dall’Europa. Perché la tentazione della chiusura non è certo un’esclusiva statunitense. Per combatterla bisognerebbe proporre un modello culturale alternativo, improntato a un  confronto onesto e non arrendevole. Un compito che spetterebbe prima di tutto alla politica, ma dal quale molti, per calcolo, si sottraggono.

(L'Osservatore Romano, 15 febbraio 2017)