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Partita impegnativa posta alta

La rifondazione dell’Istituto Giovanni Paolo II

di Pierangelo Sequeri

L’amore coniugale cristiano non è soltanto il luogo dell’intimità della coppia. È un luogo dell’intimità della Chiesa, che le dà forza. Indietro, non si torna più.

Quando i padri del concilio Vaticano II accesero i riflettori su questo intreccio, l’occhio dell’ecclesiastico e quello del laico restarono entrambi spalancati per un po’, prima di riprendersi. Del matrimonio, d’altra parte, non c’era una gran teologia. La lunga consuetudine di una lettura schematica dei sacri testi, poi, dirottava facilmente le metafore nuziali sulla spiritualità della condizione monastica, oltrepassando la condizione familiare. E in ogni caso, il profondo rapporto della comunità familiare con la forma della Chiesa, che aveva fatto miracoli nei secoli delle conversioni e dei martiri, non ispirava i pastori da molto tempo.

I padri conciliari, indicando il matrimonio e la famiglia come il primo dei temi sui quali si decidono i rapporti fra Vangelo e società, fecero una mossa di portata storica. Anzi due.

La prima è il pieno riscatto dell’intimità coniugale, che la concepisce come dono gioioso del Creatore e la iscrive a pieno titolo nel dinamismo dell’amore sigillato dal sacramento cristiano. La seconda è la riabilitazione dell’esperienza dalle prime comunità cristiane, che toccarono con mano la straordinaria potenza evangelica della famiglia come realtà e figura di Chiesa, «santuario domestico della Chiesa», secondo la bella espressione di Apostolicam actuositatem (n. 11). «Lo spirito famigliare» è come «una carta costituzionale per la Chiesa» ha tradotto Papa Francesco nell’udienza generale del 7 ottobre 2015.

Da allora, la barca di Pietro ha risolutamente impostato la sua rotta su queste coordinate del punto nave, senza più abbandonarle.

La teologia del corpo, introdotta nel magistero da Giovanni Paolo II, ha fissato il punto di non ritorno, offrendo alla sapienza e alla riflessione teologica le ragioni propriamente cristiane dell’intreccio di famiglia e Chiesa (anche se questa teologia del corpo, ora considerata presidio dell’intelligenza della fede, durò qualche fatica a essere accolta nei suoi giusti termini). Da questa nuova visione, messa a punto in occasione del sinodo del 1980, è scaturita anche la decisione di istituzionalizzare la centralità del nuovo sguardo della Chiesa. Nacque così l’Istituto Giovanni Paolo II per studi sul matrimonio e la famiglia, come accademia di riferimento al servizio del Papa e dell’orientamento ecclesiale.

La realtà, nondimeno, si muove. Nel momento presente, l’amore coniugale, i legami generativi, la comunità familiare non sono più un riferimento univoco e non vanno più da sé. Inoltre, la cultura delle tecnocrazie economiche considera la famiglia un handicap, e la politica dei diritti umani appare largamente colonizzata da un individualismo mortifero, che si prende tutte le libertà possibili (e anche quelle degli altri). Il recente e duplice appuntamento sinodale ha lucidamente preso atto di questo scenario. L’atteggiamento fondamentale che si è fatto strada nella Chiesa, a fronte di questo passaggio difficile, è semplice e commovente: sono figli e figlie che Dio ci affida, non ci rassegneremo a perderli. Non faremo pagare a loro le colpe di una élite irresponsabile e di una tecnocrazia insaziabile, che confondono la loro mente e prendono in ostaggio i loro desideri. E insegneremo di nuovo agli ecclesiastici e ai laici la lingua materna che edifica la Chiesa come una grande famiglia.

La realtà va frequentata, e per così dire patita, dalla Chiesa, per essere compresa e indirizzata. La partita è impegnativa, la posta è alta. Ma anche entusiasmante. Se l’uomo e la donna incominciano a parlarsi, a volersi bene, a prendere in mano le redini della storia e ad appassionarsi per il bene della comunità, alle generazioni nuove si riaprirà di nuovo il mondo, che la guerra dei sessi (e del sesso) sta chiudendo.

L’esortazione apostolica Amoris laetitia conferma la lungimiranza di questo atteggiamento della fede. E chiede con vigore, ai pastori e alla Chiesa, di abitare evangelicamente, anzitutto, la realtà che deve essere interpretata teologicamente, secondo il mistero di Dio. Gesù proprio questo fece, per lunghi anni, a Nazareth. E così, quando incominciò ad annunciare le urgenze della parola di Dio, i suoi imperfetti interlocutori — discepoli e folle, uomini e donne, chiunque fossero — semplicemente capivano che lui, comunque, li capiva. È su questa lezione di metodo che Papa Francesco ci chiede di investire il talento ricevuto. Ed è con questa visione che il nuovo Istituto teologico Giovanni Paolo II per le scienze del matrimonio e della famiglia si appresta a onorare la fiducia che gli è nuovamente accordata. E basta con i lamenti. La grande famiglia di Dio deve comunicare le gioie della sua intimità con lui a chi la incontra. Da far desiderare a tutti di farne parte, per avere una buona parola che sostiene la fragilità dei padri, delle madri, delle creature. E scaccia i fantasmi della paura, nei nostri passaggi fra le ombre.

(©L'Osservatore Romano, 22 settembre 2017)