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Le “città di transizione” in Giappone puntano a sviluppare un’economia sostenibile

Una rivoluzione pacifica

da Tokyo Cristian Martini Grimaldi

Il termine “città di transizione” si riferisce a dei progetti comunitari che mirano ad aumentare l’autosufficienza locale per ridurre gli effetti negativi del cambiamento climatico e dell’instabilità economica. Ad esempio attraverso la creazione di valute locali che sono un modo molto efficace per mantenere le risorse finanziarie all’interno di una comunità, o anche attraverso la creazione di piccole industrie elettriche.

La prima città ad utilizzare il nome di Transition Town è stata Totnes, situata nel Regno Unito. Da allora le iniziative di “transizione” sono nate in tutto il mondo, anche in Giappone.

Alla luce dell’incidente nucleare di Fukushima, l’idea che è emersa a Fujino, una piccola città della prefettura di Kanagawa, è stata quella di esplorare la possibilità di creare e gestire una propria azienda per la produzione di energia elettrica.

Fujino potrebbe fornire un esempio di come le risposte della comunità al cambiamento climatico possono trasformarsi in nuovi modelli di imprenditorialità sociale creando posti di lavoro e profitti.

Ma ci si potrebbe domandare se le piccole comunità abbiano effettivamente la competenza per gestire una propria struttura energetica e superare gli svantaggi e i costi potenzialmente più elevati per la costruzione di infrastrutture di dimensioni ridotte. Ci sono esempi altrove, sempre in Giappone, che questo sta già succedendo. Con una popolazione di soli 7000 abitanti, Kuzumaki nella prefettura di Iwate ha istituito la società di Green Power Kuzumaki nel 2001. Il progetto ha previsto l’installazione di 12 turbine a vento con una capacità di 1750kw ciascuna.

Molti centri in Giappone, parte di una rete internazionale di città di transizione, mirano a contrastare la crisi ambientale non attraverso la protesta, ma alimentando soluzioni sia a livello domestico che a livello comunitario. «Il nostro obiettivo è quello di passare da una società a base di combustibili fossili e di un’economia globalizzata a quella in cui le comunità si affidano a risorse locali», ha spiegato Jun Omura, un insegnante yoga di 33 anni, che ha preso parte alle iniziative con la propria famiglia.

Il movimento della città di transizione è iniziato a Kinsale, in Irlanda, nel 2005, quando gli studenti che studiavano la permacultura — un sistema di progettazione sostenibile applicabile all’agricoltura e alla pianificazione urbanistica — hanno elaborato un piano d’azione per la decrescita energetica, per far sì che le città non siano più dipendenti dai combustibili fossili. L’idea, nata come risposta alle minacce del cambiamento climatico e del picco dei prezzi del petrolio, ha avuto una grande eco a livello internazionale. Oggi più di 1300 città di transizione in 44 paesi sono registrate con Transition Network, un’organizzazione senza fini di lucro con sede a Totnes, nell’Inghilterra meridionale.

La prima città di transizione giapponese è stata costituita nel 2008 a Fujino. Oggi 48 gruppi sono attivi a livello nazionale e alcuni di questi stanno lavorando congiuntamente con i governi locali per ampliare i propri obiettivi. Fondamentalmente, però, dietro al progetto “la città di transizione” c’è una rete di volontari che escludono l’attivismo politico.

Invece di domandare sussidi a corporazioni o governi, sperimentano da soli. Se non c’è natura in città, la faranno loro, partendo dai piccoli giardini agli angoli delle strade. Se non ci sono abbastanza posti di lavoro, creeranno anche quelli.

In Giappone i concetti come l’autosufficienza locale e l’indipendenza energetica sono molto diffusi a partire proprio dal terremoto del Tohoku 2011, e del disastro nucleare di Fukushima.

A Hamamatsu, una città di quasi un milione di abitanti, il programma di Transition Town ha favorito l’emergere di diverse attività. Con circa 350 membri suddivisi in 13 gruppi di lavoro, si sono creati laboratori di edilizia sostenibile, progetti di energie alternative, lezioni di caccia, fermentazione e produzione di birra, ecc. I membri si riuniscono una volta all’anno per “immaginare”, come dicono loro, ciò che desiderano la loro città assomigli fra 35 anni e quindi compiere i passi necessari per realizzare il “sogno”.

Un progetto molto popolare iniziato lo scorso anno è stato quello di creare una moneta locale. I partecipanti (circa 60) ottengono ognuno un libretto di assegni in cui scrivono i servizi offerti o ricevuti e il loro corrispondente valore teorico — l’idea è di mantenere l’equilibrio a zero scambiando i lavori con gli altri partecipanti. C’è chi ha scambiato di tutto, dal riso alle verdure, dai servizi di progettazione di poster ai passaggi in auto ai libri.

In passato, tali progetti utopici spesso avvenivano in comuni o eco-villaggi isolati dalla società principale. Quello che distingue il movimento delle città di transizione rispetto agli utopismi del passato è la volontà di trasformare le comunità esistenti, ovvero quelle in cui viviamo tutti i giorni, anche quelle solidamente industriali come Hamamatsu appunto, che alcuni definiscono perfino “la Detroit del Giappone”.

(© L'Osservatore Romano, 16-17 giugno 2017)