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Alla radice spirituale della crisi

 

di Lucetta Scaraffia

«Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme»: partendo da san Paolo, il Papa scrive una «lettera al popolo di Dio» drammatica e senza precedenti. In questo modo estende a tutta la Chiesa una profonda riflessione sulla tragedia degli abusi, perché, sostiene,  «l’unico modo che abbiamo per rispondere a questo male che si è preso tante vite è viverlo come un compito che ci coinvolge e ci riguarda tutti come Popolo di Dio».

È evidente che in questa drammatica situazione non bastano denunce e punizioni, anche se sono indispensabili. E non basta circoscrivere la responsabilità all’interno del clero: bisogna approfondire l’analisi, per cogliere l’origine di questo male profondo ed estirparlo. Per questo devono essere coinvolti,  come indica papa Francesco, tutti i credenti.  Che in molti casi sono stati vittime, ma in altri, in qualche modo e in varia misura, sono stati anche complici.

Le modalità degli abusi rivelano colpe molto gravi: il sacerdozio scambiato per un ruolo di potere da esercitare sugli altri, la copertura ipocrita come normale prassi di comportamento per il “bene della Chiesa”. Praticamente, un atteggiamento che nega ogni parola detta da Gesù, come denuncia il Pontefice citando il Magnificat.

Ma con questa lettera Bergoglio  vuole allargare lo sguardo anche ai laici che hanno sopportato e taciuto per tanto tempo. E molti si domandano: perché i fedeli hanno accettato di tacere anche quando erano a conoscenza? Perché hanno continuato a chiudere gli occhi senza difendere le vittime? Sono domande che per esempio si è posta Isabelle de Gaulmyn in un libro sugli abusi a Lione, dei quali lei stessa, giovane scout, era stata testimone e per i quali, in un certo senso, si sente un po’ complice. Anche i laici infatti preferivano accettare queste situazioni in un contesto dal quale potevano ricavare favori e aiuti mondani, piuttosto che correre il rischio di una battaglia che li poteva vedere perdenti davanti a strutture di potere  percepite come minacciose.

In questi casi  infatti anche alcuni fedeli non hanno creduto nel Vangelo e hanno preferito una molle acquiescenza invece di aiutare la loro Chiesa, quella comunità della quale,  in virtù del sacerdozio battesimale,  fanno parte esattamente come il clero. Anche alcuni fedeli si sono così addormentati e hanno chiuso gli occhi, come se questa situazione non fosse affare loro, confermando con questo atteggiamento il peggiore clericalismo.

Perché clericalismo, afferma il Papa nella sua lettera, è proprio questo: pensare che la Chiesa sia solo rappresentata dai sacerdoti, costituiti in una gerarchia di potere, e non sia una comunità solidale di credenti testimoni del Vangelo. Invece, dice il Pontefice, «tale solidarietà ci chiede, a sua volta, di denunciare tutto ciò che possa mettere in pericolo l’integrità di qualsiasi persona»,  perché «è necessario che ciascun battezzato si senta coinvolto nella trasformazione ecclesiale e sociale di cui tanto abbiamo bisogno». Proprio per questo, ricorda Papa Francesco e non per la prima volta, «dire no all’abuso significa dire con forza no a qualsiasi forma di clericalismo».

In questo testo, che va alla radice spirituale della crisi, il Pontefice chiede a noi tutti, in quanto corpo unico e ferito della Chiesa, di fare penitenza e di pregare,  arrivando a  proporre un «digiuno che ci procuri fame e sete di giustizia e ci spinga a camminare nella verità appoggiando tutte le mediazioni giudiziarie che siano necessarie. Un digiuno che ci scuota e ci porti a impegnarci nella verità e nella carità con tutti gli uomini di buona volontà e con la società in generale per lottare contro qualsiasi tipo di abuso sessuale, di potere e di coscienza». È insomma impossibile immaginare una vera conversione nella Chiesa, dice il Papa,  «senza la partecipazione attiva di tutte le componenti del Popolo di Dio».

(©L'Osservatore Romano, 20 agosto 2018)