Index   Back Top Print


logo

La donna indigena latinoamericana e le versioni bibliche

Trasmettere è tradurre

 

di Marcelo Figueroa

Da alcuni decenni, in quasi tutto il mondo, ma specialmente in America latina, la scienza della traduzione biblica ha imboccato cammini inclusivi, culturali, linguistici e interpretativi tanto importanti quanto irreversibili. La necessità che le traduzioni rispecchino visioni esegetiche ecumeniche è un contribuito che arricchisce la diversità cristiana esistente in questa immensa parte del mondo. L’enfasi posta sul fatto che i principali traduttori nelle lingue indigene siano gli stessi aborigeni è il modo più autentico per far sì che le versioni includano gli apporti della loro visione del mondo. Le discipline sociolinguistiche offrono alle traduzioni bibliche nelle lingue delle molteplici etnie americane le componenti culturali imprescindibili perché la versione sia realmente frutto di ogni popolo e incarnata nel suo cuore.

Tuttavia l’aspetto fondamentale per l’analisi, lo sviluppo, l’inculturazione e il futuro di una tradizione biblica autoctona è il ruolo attivo delle donne aborigene. In queste culture la loro partecipazione attiva è imprescindibile, dato che nella maggior parte dei casi sono le donne le vere custodi della lingua. A differenza degli uomini, hanno minori contatti e pertanto maggiore resistenza di fronte all’avanzata delle culture e delle lingue dominanti, come lo spagnolo e il portoghese. Sono loro a prendersi cura dei bambini e a trasmettere loro la cultura, i costumi, la fede e la lingua. Sono le donne a sostenere la vitalità, la ricchezza e la purezza della lingua aborigena. Non si può quindi pensare a équipe di traduttori nelle lingue originali che non includano donne, e in alcune regioni vi sono stati addirittura casi in cui i membri del comitato di traduzione della Bibbia erano tutte donne aborigene.

Il caso paradigmatico è quello della donna guaranì. Dopo le guerre del Chaco tra Bolivia e Paraguay, che decimarono la popolazione maschile, la lingua corse seriamente il rischio di scomparire. Furono le donne paraguaiane a prendersene cura, a trasmetterla, a proteggerla con la propria vita, al punto che oggi il Paraguay ha una lingua aborigena ufficiale, al pari dello spagnolo.

Un altro esempio può essere preso dalla lingua quechua. Nel vangelo di Luca il testo dice che «quando Elisabetta udì il saluto di Maria, la creatura le si mosse in grembo» (1, 41). Alcune donne di quell’etnia si misero a ridere nell’ascoltare le proposte di traduzione realizzata dagli uomini. Suggerirono una parola onomatopeica per comunicare la sensazione del movimento repentino sperimentata da Elisabetta. Tale ricchezza nella trasmissione linguistica sensoriale poteva essere pensata solo da una donna che aveva portato in grembo un figlio. In tal modo la traduzione quechua ha acquisito per sempre un’esperienza unica del mistero dell’incontro tra le madri di Giovanni Battista e di Gesù, aspetto sensoriale che probabilmente abbiamo perso nelle traduzioni in uso nelle lingue principali.

L’ecumenismo è un ambito ampio e non deve includere solo l’aspetto confessionale ma anche, e soprattutto, quello culturale di ogni denominazione religiosa. E in questo ecumenismo culturale integrale, che riflette l’antropologia della fede latinoamericana, il posto delle donne native non è soltanto importante ma addirittura fondamentale. Poiché la Chiesa è donna e i testi dei vangeli devono incarnarsi nelle diverse lingue, senza la partecipazione attiva di queste donne native le traduzioni utilizzate oggi dalle Chiese indigene in America latina perderebbero le loro maggiori ricchezze distintive.

(© L'Osservatore Romano, 11 marzo 2018)