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Per l’ex presidente Lula potrebbero aprirsi le porte del carcere

Un Brasile fortemente polarizzato

di Giuseppe Fiorentino

Un Brasile sempre più polarizzato accoglie la sentenza con cui, il 4 aprile, il Supremo tribunale federale (Stf) ha respinto, con un solo voto di scarto, l’istanza dell’ex presidente Luiz Inácio Lula da Silva, condannato in secondo grado a dodici anni di reclusione per corruzione passiva e riciclaggio, che sostanzialmente ha chiesto di non essere arrestato fino a quando non saranno espletati tutti i gradi di giudizio.

Per il fondatore e leader indiscusso del Partito del lavoratori potrebbero ora aprirsi le porte del carcere, anche se formalmente Lula può giocare un’altra carta: un ricorso al tribunale federale della iv regione, lo stesso che lo ha condannato, su alcuni aspetti giuridici legati alla motivazione della sentenza. Ma al di là dei cavilli, il verdetto emesso a Brasília segna, come accennato, un’ulteriore e più profonda frattura all’interno della società brasiliana.

In attesa della decisione dell’Stf migliaia di persone hanno manifestato a favore e contro l’ex presidente in tutto il Brasile. I dimostranti sono scesi in piazza in 16 dei 27 stati del paese e nella capitale federale è stato approntato un dispositivo di sicurezza con quattromila agenti che hanno impedito l’accesso all’area della corte suprema. Oggi Lula — condannato per la compravendita di un attico sul litorale di San Paolo che, secondo i giudici, era la tangente offerta da una società di costruzioni per l’assegnazione di una serie di appalti da parte della Petrobras — è probabilmente l’uomo più inviso e al tempo stesso più amato in Brasile.

Un terzo della popolazione, in un recente sondaggio, ha manifestato l’intenzione di votarlo se riuscisse a candidarsi per le presidenziali del prossimo ottobre. Un’ipotesi questa tecnicamente ancora possibile, ma che avrebbe l’inevitabile effetto di esasperare ulteriormente gli animi. Per comprendere il clima che si respira nel paese può essere utile riportare un tweet in particolare, tra le decine di migliaia lanciati ieri in attesa della sentenza di Brasília: in un breve messaggio Eduardo Villa Bôas «condivide il desiderio dei cittadini onesti di ripudiare l’impunità». La peculiarità di questo tweet sta nel fatto che il suo autore non è un semplice cittadino, ma il comandante generale dell’esercito che parla a nome dell’arma, della quale peraltro assicura la fedeltà alle istituzioni democratiche. Un situazione a dir poco complicata, quindi, che ncerto non aiuta il paese, tuttora alle prese con enormi e sostanziali sfide.

Dopo anni di pesante recessione (meno 3,6 per cento nel 2016) il Brasile fa segnare quest’anno una previsione di crescita del 2,7 per cento. Ma oltre i dati statistici resta la realtà di una povertà diffusa in amplissimi strati della popolazione, quella stessa porzione di brasiliani che le politiche sociali avviate da Lula hanno contribuito a riscattare dalla miseria e che con ogni probabilità lo voterebbe ancora.

C’è poi la questione della sicurezza, nelle grandi metropoli come nei piccoli centri. Una questione che il recente assassinio di Marielle Franco a Rio de Janeiro ha portato alla ribalta internazionale. L’omicidio di Franco ha avuto risonanza soprattutto perché si è voluto colpire una donna nera giustamente impegnata a favore degli abitanti delle favelas. Ma la sua tragica morte è una goccia in mezzo al mare. Ogni anno sono infatti decine di migliaia le vittime di crimini violenti. Sessantamila secondo alcune stime. E peggio di così c’è forse solo la tragedia siriana.

(©L'Osservatore Romano, 6 aprile 2018)