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L’Europa e la questione dei migranti

La solidarietà conviene a tutti

di Giuseppe Fiorentino

«Senza una via condivisa rischiamo di fare cadere l’edificio europeo». Con questo appello alla solidarietà e al multilateralismo il presidente del consiglio italiano, Giuseppe Conte, ha concluso ieri, lunedi 14, il vertice di Roma con il commissario dell’Ue alle migrazioni, Dimitris Avramopulos, e il ministro degli Interni, Matteo Salvini. Non è la prima volta che esponenti del governo italiano si appellano alla comune responsabilità dei paesi europei per affrontare la questione delle migrazioni. Ma le richieste sono puntualmente cadute nel vuoto e l’Italia è stata praticamente lasciata da sola ad affrontare una vera emergenza, a partire dai salvataggi in mare.

Ora le condizioni sono cambiate e con le nuove politiche gli arrivi di migranti sono drasticamente diminuiti. Ma ciò nonostante l’Europa continua ad essere divisa soprattutto sui ricollocamenti. Ne è stata una lampante dimostrazione l’odissea di cui sono stati involontari protagonisti i migranti raccolti al largo della Libia dalla Sea Watch 3 e dalla Sea Eye. Quarantanove persone, tra le quali due bambini piccoli, sono stati costretti a restare per molti giorni in balìa delle onde prima che un faticoso negoziato consentisse di individuare i paesi disposti alla loro accoglienza e permettesse quindi lo sbarco a Malta. Quarantanove migranti sono così riusciti, loro malgrado, a evidenziare tutta la fragilità della coesione europea.

Intervistato prima di mettere piede sulla terraferma, un ragazzo sudanese soccorso dalla Sea Watch 3 ha detto: «Gli europei sono venuti da noi per prendere tutto quello che volevano. Noi siamo costretti ad affidarci ai trafficanti di esseri umani per poi essere lasciati in mare». Sono parole drammatiche che, al di là di ogni altra considerazione, potrebbero aiutare a mettere meglio a fuoco quel concetto di solidarietà a cui spesso i leader europei si appellano.

L’idea di solidarietà che attualmente va per la maggiore in Europa, e più in generale in occidente, è probabilmente frutto di una visione distorta. Una visione che tende ad avere come riferimento se stessi e non gli altri. Sicuramente a questo contribuiscono valutazioni meramente elettorali. Quale formazione politica, in una stagione come quella che si sta vivendo in Europa, può fare dell’apertura e dell’accoglienza i suoi cavalli di battaglia? Eppure puntare sulla chiusura può avere, oltre al tornaconto elettorale, pericolose conseguenze.

«Il carattere ambiguo e pericoloso dei discorsi populisti — ha recentemente sottolineato il segretario del Dicastero per lo sviluppo umano integrale, monsignor Bruno-Marie Duffé — dipendono dal fatto che essi si appropriano della paura e requisiscono le aspirazioni popolari a vantaggio di un potere che cerca il controllo sociale e rifiuta le iniziative concrete di solidarietà». Il rischio per l’Unione europea, nata proprio dall’ideale di solidarietà per sanare le ferite della guerra e che in nome della solidarietà aveva deciso di guardare ad est dopo la caduta del muro di Berlino, è quindi quello di perdere cognizione delle sue radici e in fondo della sua stessa ragion d’essere. Anche perché i discorsi e le scelte politiche che ignorano la solidarietà in nome del populismo alimentano la divisione e la polarizzazione, innescando spesso episodi di violenza contro chi è percepito come diverso o semplicemente contro chi non la pensa allo stesso modo.

L’assassinio del sindaco di Danzica, l’europeista Paveł Adamowicz, non è che l’ultimo di una serie di attacchi a politici, tra i quali vanno annoverate l’aggressione avvenuta nei giorni scorsi a Frank Magnitz, esponente del partito di estrema destra Alternative für Deutschland (anche se i contorni della vicenda non sono del tutto chiari), e, andando indietro negli anni, l’uccisione di Joe Cox, la deputata laburista accoltellata a morte nelle roventi settimane che hanno preceduto il referendum sulla Brexit.

Puntare sulla solidarietà e sul multilateralismo — come indicato da Papa Francesco nel recente discorso al corpo diplomatico — non significa quindi lasciarsi andare al vagheggiamento di vuoti ideali, ma operare concretamente, anche se a lungo termine, per una società più coesa al suo interno oltre che più accogliente verso l’esterno. Dove ognuno possa sentirsi cittadino a pieno titolo.

(©L'Osservatore Romano, 16 gennaio 2019)