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La vicenda della diciassettenne Noa Pothoven

Lo scandalo intollerabile del dolore

di Francesco D’Agostino

In Olanda la tragica vicenda della diciassettenne Noa Pothoven non ha suscitato particolari dibattiti. Anche se ancora non è del tutto accertato se la sua morte sia dipesa da una vera e propria eutanasia o se non ci troviamo piuttosto davanti a un “suicidio assistito”, è evidente che la vicenda va ricondotta e giudicata in base alla legge olandese sul fine vita, in vigore dal 2002, e di fatto ampiamente accettata dall’opinione pubblica del paese, anche nelle sue disposizioni più conturbanti, come quella che prevede che si possa applicare ai minori (per quelli che hanno compiuto sedici anni non si esige nemmeno il consenso dei genitori) e più in generale ai pazienti psichiatrici. Vittima, tra gli undici e i quattordici anni, di violenze sessuali, Noa non era mai riuscita a dominare il dolore psichico che l’aveva da allora tormentata e che l’aveva lentamente fatta sprofondare nell’anoressia. Aveva cercato di superare le sue sofferenze scrivendo un’autobiografia, con cui aveva ottenuto anche un premio letterario. Aveva utilizzato la rete per entrare in contatto con i suoi coetanei, cercando di coinvolgerli raccontando loro la sua amarissima vicenda e conquistando circa ottomila followers. Ma la triste conclusione della sua vita — e la rassegnazione con cui la notizia è stata divulgata in Olanda — dimostrano quanto sia ormai vincente la rassegnazione nei confronti delle forme più estreme del dolore, sia fisico che psichico: la medicina (e in particolare la psichiatria) non sa fronteggiarlo, la società si illude di poterlo gestire con norme eutanasiche, apparentemente rispettose dell’autodeterminazione delle persone, ma che proprio nel caso dei malati psichiatrici (come la povera Noa) rivelano tutta la loro paradossale rozzezza, dato che, quasi per definizione, ciò che per prima cosa si incrina in un malato psichiatrico è la sua capacità di autodeterminarsi.

È lecito sperare che la vicenda di Noa possa riattivare l’impegno a combattere contro il consolidarsi delle legislazioni eutanasiche, e non solo in Olanda? Sperarlo è più che lecito, ma è probabilmente illusorio pensare di poter facilmente tradurre queste speranze in nuovi assetti normativi, volti a sancire una rigorosa difesa della vita. Dobbiamo capire che il cuore del problema non è più costituito dalla difesa della vita, un tempo rigorosamente preservata dalla legge, come radice e fonte di ogni valore. Non è più la vita, ma è il tema del dolore quello che occupa ormai la scena: il dolore che è considerato, nel tempo in cui viviamo, uno scandalo intollerabile, un inaccettabile attentato alla dignità umana e che pertanto non solo a livello individuale, ma anche e soprattutto sociale, va edulcorato, assorbito, trasfigurato, giustificato e comunque, in ultima istanza, soppresso.

Che la lotta contro il dolore sia sacrosanta, non c’è bisogno di ribadirlo, come non c’è alcun bisogno di ricordare come l’insegnamento spirituale di Gesù sia sempre stato accompagnato, e in un certo senso avvalorato, dai suoi miracoli. Il dramma della modernità non consiste nel suo voler ostinatamente dire di no al dolore, ma nel dirlo male, non prendendolo sul serio, cercando affannosamente di sostituire al dolore forme ingenue, e perfino infantili, di piacere, che oggi arrivano fino al punto di ipotizzare che la stessa morte (l’ultimo nemico, secondo la forte espressione di san Paolo nella prima lettera ai Corinzi) possa essere scelta e sperimentata come “dolce” (cioè come “eu-tanasia”!). Un patetico esempio di quanto sto dicendo proviene dalla stessa povera Noa Pothoven, che prima di lasciarsi morire, ha messo in rete un elenco di quindici desideri da realizzare: tra questi, farsi un tatuaggio, guidare uno scooter, fumare una sigaretta, mangiare cioccolata (l’unico vero desiderio proibito, perché la cioccolata “fa ingrassare”). Desideri tenerissimi, propri di un’adolescente quale essa era, ma anche così sproporzionati rispetto alla sua decisione eutanasica, da lasciarci sconvolti: abbiamo costruito una società che non sa più trovare una mediazione tra dolore e piacere e che si illude, con la legalizzazione dell’eutanasia, di aver individuato una soluzione razionale del problema. Ma quella dell’eutanasia non è questione giuridica, ma antropologica: solo se saremo in grado di impostarla in questo modo, potremo forse affrontarla adeguatamente.

(© L'Osservatore Romano, 6 giugno 2019)