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Non solo un simbolo

di Monica Mondo

Non è un simbolo e basta. Non è la Tour Eiffel. Notre-Dame de Paris è il cuore dell’Europa, ed è l’Europa che brucia. La chiesa che svetta nell’Ile de la Cité, culla della capitale. La chiesa che ha resistito alla Rivoluzione, che staccava le teste delle mirabili statue dei santi e dei profeti, per gettarle nelle acque della Senna. Ci fu persino un filosofo che voleva acquistare la cattedrale per distruggerla, solo per vederla in rovina. Forse il suo spirito aleggia ancora, forse gli idoli del tempio pagano su cui sorse «La» cattedrale, che con Chartres rappresenta la cattolicità, la fede cristiana. Piange la Signora che protegge la città, piange sainte Geneviève, patrona di Parigi. Piange la Senna, e accarezza impotente le sue fondamenta. La Senna, che si è aperta, si è piegata alla pietra e ha custodito per secoli in una mandorla le sue possenti torri, le carene dei contrafforti. Nel coro, il canto del Te Deum non si alzerà più, gli stalli intarsiati e le transenne lignee con le storie della Passione svanite, come rami secchi. Quasimodo piange, il campanaro storpio a guardia delle guglie, come i loro gargoyles, che Victor Hugo rese immortale nel romanzo omonimo, Notre-Dame de Paris. Ma all’ombra della sua mole imponente scrisse Balzac, si ispirarono i poeti maudits della Rive Gauche, i pittori e i compositori che proprio in quella chiesa inventarono nuove polifonie. La sua foresta di colonne non custodirà la folla di fedeli, non si rischiareranno alla luce delle candele questa notte di Pasqua.

Non è un simbolo di Parigi. Era un simbolo di un continente che dei simboli non ha più bisogno, o crede di smarcarsi, di acquistare libertà dimenticando i loro significati. Un simbolo unisce, è relazione tra il sensibile e l’ultrasensibile, il simbolo evoca, spalanca la ragione, fa pensare, eleva l’animo. Dove guardano i francesi, gli Europei del nostro tempo? Riescono camminando freneticamente sui quais del fiume, ad alzare la testa e ricordare? La smemoratezza non solo storica, ma di un’appartenenza che sradicata dal nostro immaginario ci impoverisce, ci lascia più inquieti e più soli. Ci sarà modo di comprendere l’assurdità di una catastrofe imprevista; di una lentezza nei soccorsi che è memento alla nostra arroganza, che svela tutta la sua impotenza. Si capirà cos’è successo, le mancanze, l’incuria, la trascuratezza. E ci si chiederà perché, perché a noi, oggi, è dato vedere il fuoco che brucia l’anima di una città.

Piange anche un po’ il nostro cuore, smarrito, perché alcuni eventi sono segno: e Dio voglia che i segni urlino, agitino coscienze finalmente irrequiete. Certo non c’è bisogno di templi, benché sublimi, per adorare Dio, ce l’ha detto lui. Ma tutti i Salmi ci insegnano a ripetere “Signore, amo la casa dove dimori, il luogo dove abita la Tua gloria”.

Le cattedrali d’Europa sono slancio degli uomini, di comunità per mostrarsi al cielo. Non con la vanagloria di Babele, per scalarlo, ma per alzare le braccia, per implorare il suo sguardo. Si raccoglievano anche gli spiccioli dei merciai, non solo i tesori dei principi, per chiamare a raccolta le migliori maestranze, gli artigiani più esperti.

Abbiamo ancora la stessa passione, la stessa dedizione? Quaerere deum non sembra una priorità. Forse le fiamme sono un sinistro monito, per ritornare. Sarà un triste compleanno per Joseph Ratzinger, che ha dedicato all’Europa cristiana e ai suoi simboli riflessioni struggenti. Poi, se resteremo uomini, ricostruiremo con mattoni nuovi, come spronava Eliot. Se resteremo uomini, non penseremo solo all’estetica, ai turisti, all’orgoglio nazionale. Ma alle ginocchia che si sono piegate su quelle pietre, alle migliaia di preghiere con gli occhi alle vetrate e ai rosoni. Non rifaremo in 3d una chiesa perfetta, uguale a prima, non rifaremo un museo. Se resteremo uomini.

 

(© L'Osservatore Romano, 17 aprile 2019)