Una raccolta di saggi critici su don Lorenzo Milani

Il fastidioso ronzio del prete di Barbiana
sulla «precisione di Dio»


di Carlo Carletti

Chi, con occhio non distratto, affacciandosi al balcone della propria abitazione, si fosse "guardato un po' intorno si sarebbe accorto che il mondo è mal messo. Dio l'aveva creato "preciso", aveva fatto gli uomini tutti poveri e tutti ignoranti. Gli uomini invece, non si sa come, si sono accordati per tirar su qualche decina di persone molto ricche molto istruite e lasciar tutti gli altri come Dio li aveva creati" (Lettera ad una giovane sposa - Barbiana 26 aprile 1956); "a me (...) non importa nulla che i poveri ci guadagnino (questo fatto non ha infatti nessun peso per la venuta del Regno), mi importa solo che gli uomini smettano di peccare. E l'ingiustizia sociale non è cattiva (per me prete) perché danneggia i poveri, ma "perché è peccato" cioè "offende Dio" e ritarda il suo Regno. È la ricchezza e non la povertà che è un'offesa a Dio" (Lettere di don Lorenzo Milani. Priore di Barbiana, a cura di Michele Gesualdi, Milano 1988, p. 29).
Questi due passi, fondamentali per comprendere nella sua essenza la personalità spirituale e umana di don Lorenzo Milani Comparetti, si muovono - come è evidente - nell'ambito concettuale teologico:  l'ordine della creazione nella geniale metafora della "precisione di Dio", il patto tra Creatore e creatura, l'irruzione del peccato, l'interruzione dell'avvento del Regno. Il "discorso su Dio" proposto da don Lorenzo si esprime con movenze non convenzionali che, nulla concedendo al tecnicismo speculativo, sono quelle del lessico quotidiano, sapientemente piegato però - con disinvoltura solo apparente - a comunicare e quasi "materializzare" il possesso di una fede allo stato puro:  non una scrittura di getto, ma l'esito ultimo di un percorso di "scarnificazione", che avrebbe potuto intraprendere soltanto chi, fin dall'infanzia, si era potuto nutrire del raffinato patrimonio culturale profondamente radicato nella famiglia Milani-Comparetti.
Era fatale che una personalità così definita ed esclusiva nella radicalità delle sue scelte si proponesse come un vero e proprio "caso" culturale e mass-mediale che si avviò con la pubblicazione del suo primo e più importante scritto:  Esperienze pastorali, edito a Firenze nel 1958, con imprimatur dell'arcivescovo di Firenze Elia Dalla Costa e introduzione dell'arcivescovo di Camerino Giuseppe D'Avack.
Il fenomeno-don Milani diventò nel tempo un fertile terreno di critica, di confronto, di ricerca, che coinvolse filosofi, pedagogisti, sacerdoti, giornalisti, politici di diversissima estrazione culturale e ideologica. Una continuità di interesse ininterrotta ora testimoniata dal "rapporto critico", serio ed esaustivo, curato da Mario Gennari, docente di Pedagogia generale all'Università di Genova:  L'apocalisse di don Milani (Milano, Libri Scheiwiller, 2008, pagine 244, euro 15). Il libro raccoglie trentuno interventi, generalmente di breve estensione, pubblicati dal 1958 al 1992 sulla stampa quotidiana o periodica. Sono preceduti da un'ampia e densa introduzione del curatore:  un saggio vero e proprio, propedeutico alla lettura e alla comprensione ecclesiale e storico-culturale dei singoli contributi.
In questo percorso di comprensione Gennari coglie tre elementi di "tensione" che, ricondotti ad unità, definiscono un'identità umano-sacerdotale quasi disarmante e perciò inquietante nella sua cristallina "semplicità":  "Cercando nel fondo del pensiero di don Lorenzo Milani vi si trova un tono - ossia una modulazione ricorrente o un grado di luminosità - che manifesta una triplice tensione:  apocalittica, profetica e laica insieme. Su quel fondo restano le tracce(...) di una vita al servizio dell'uomo, ma anche il segno di una coscienza umana libera che - in ogni istante concessole dal tempo - testimonia la fede in Dio, l'amore per i poveri, il rigore morale a fondamento del pensiero e dell'agire (p. 11)". L'analisi di Gennari si fonda soprattutto sull'opera maggiore - Esperienze pastorali - e sulle Lettere (oltre 500 quelle finora pubblicate; senza contare quelle a don Raffaele Bensi, sua guida spirituale e confessore, evidentemente segretate o distrutte) e non soltanto - come spesso impropriamente s'è fatto - su i due suoi scritti più conosciuti:  Lettera a una professoressa (Firenze 1967) e L'obbedienza non è più una virtù (Firenze 1965), che pure nella cultura del tempo, e ancora oggi, hanno indubbiamente inquietato più di qualche coscienza - e fors'anche le Istituzioni - andando a toccare nervature ipersensibili e scoperte della nostra società.
Gli interventi selezionati da Gennari offrono un'esemplificazione esaustiva della ormai cinquantennale storiografia milaniana, proponendo interventi mediamente di notevole livello, nei quali generalmente si coglie un approccio rispettoso, talvolta quasi timoroso e di sorpresa - di volta in volta "lieta" o "sconcertante" - di fronte ad una esperienza, irripetibile e per alcuni versi storicamente segnata - non foss'altro perché almeno finora non sembra potersi scorgere all'orizzonte un altro don Lorenzo - che tuttavia continua ancora a proporre a credenti e non credenti l'eco ancora non troppo lontana del suo "fastidioso ronzio".
Un elemento che trasversalmente emerge in molti contributi è quello della esplicita denuncia delle molte strumentalizzazioni - e manipolazioni - subite dal priore di Barbiana, di volta in volta indicato come ribelle, rivoluzionario, populista, sovversivo, disfattista, classista. E così, tra gli altri, particolarmente significativo appare l'intervento di Tullio De Mauro che, apertis verbis, dichiara:  "sono sbagliate e da rifiutare le equivoche qualifiche che hanno gettato un'ombra sulla nitida figura mentale e morale di questo prete. Il primo equivoco, il più diffuso tra gli sprovveduti, è che don Milani fosse un prete filo-comunista(...) l'altro equivoco:  don Milani confuso con i contestatori all'italiana o, più nobilmente e seriamente, con generici anarchici". In questa stessa direzione muovono Pietro Ingrao quando chiarisce che il suo apprezzamento per l'azione di don Lorenzo non nasconde alcun tentativo di "annessione politica(...) che sarebbe ridicola", perché lui (don Lorenzo) "giudicava muovendo da una gerarchia di valori diversa dalla mia, che è mondana e non altro"; e Geno Pampaloni che, nel denunciare il duplice equivoco di chi voleva ridurlo al silenzio" e di chi da un altro versante tentava di strumentalizzarlo "tirandogli la tonaca", estrae l'immagine - più vera - di una figura indenne da qualsiasi "traccia di eresia, di modernismo, di tentazioni scismatiche, di dubbio dottrinario. Era un contestatore pastorale, socratico, un contestatore "positivo"".
Sul versante laico-liberale la testimonianza - ché tale sembra il suo scritto - di Indro Montanelli sintetizza perfettamente l'atteggiamento di chi, a fronte di un libro controcorrente come Esperienze pastorali, si ritrova in un vicolo apparentemente senz'uscita, bloccato dal conflitto tra un immanente sconcerto e una misteriosa malcelata fascinazione:  le enunciazioni "forti" di don Milani, al primo impatto, sono per Montanelli "baggianate, che non vale neanche la pena di confutare", ma ciò - aggiunge - non è motivo di conforto "perché, a rallegrarsi sono stati i miei sentimenti meno nobili:  la prudenza, la pigrizia, l'amore del quieto vivere che il libro di don Milani aveva messo in allarme"; ma in ultima analisi - conclude - "voglio soltanto dire che su di me il libro ha sortito l'effetto che forse si proponeva:  quello di spingermi a salire in un giorno dell'anno, in un'ora insolita del giorno, in una chiesa dove pochi salgono per dire a don Milani che io non condivido le sue certezze, ma ch'esse hanno gettato in me molti dubbi".
Quanto all'ambiente cattolico, che si espresse con valutazioni di diversissimo segno, non passano inosservate la lettura di Sergio Quinzio che vede don Milani come "prete sempre in tonaca", la cui incrollabile fedeltà alla Chiesa poggiava anche "sull'incombere nel segreto più intimo della sua anima della tentazione della colpa, del rimorso"; l'icastica conclusione di monsignor Gianfranco Ravasi, che riconosce a don Milani di avere "insegnato a tutti che è meglio essere uomini che eroi"; la coraggiosa lettura laicamente "storica" di Ignazio Silone quando osserva che "nella Chiesa si è trovato un umile parroco che, senza oltrepassare la sfera dell'ortodossia dogmatica, e stigmatizzando lo sfacelo del costume, ha osato dire la verità; mentre nel Pci non si è udito ancora nessuno" - da che parte stava la "doppia morale"? Infine, l'empatetica "comprensione" di Carlo Bo:  "Milani si capisce soltanto con la sua vocazione, diciamo pure con la sua improvvisa e oscura conversione", della quale parlò - non lui - ma l'aneddotica con riferimento ad episodi - in sé estemporanei e forse anche insignificanti - come quello del suo primo casuale approccio ad un messale, letto il quale avrebbe esclamato "ma sai che è più interessante di Sei personaggi in cerca di autore?" o l'altro della visita alla salma del giovanissimo don Dario Rossi di fronte alla quale - riferì don Bensi - avrebbe detto "prenderò il suo posto" (Neera Fallaci, Vita del prete don Milani, 1993). L'antologia di Gennari - come giusto - non trascura interventi di diverso segno, come quelli del 1992 di Gianni Baget Bozzo e Sebastiano Vassalli (Don Milani:  che mascalzone!) che vedono ancora in don Milani un nemico da combattere, un pericoloso eversore, un militante rivoluzionario, uno dei principali precursori e ispiratori del Sessantotto, un mito destinato a dissolversi nel tempo:  i due autori finiscono col domandarsi in che senso gli scritti di don Milani - e quindi il suo pensiero e la sua azione - "siano un documento cristiano" e come possano "ancora suscitare umori e amori".
Accoglienza sincera e incondizionata - forse perché più meditata nel tempo - a don Milani arrivò anche da parte de "La Civiltà Cattolica". In occasione del quarantesimo anniversario della morte la figura che esce dalla penna del padre Piersandro Vanzan (Don Lorenzo Milani:  un prete "schierato" con il Vangelo, "La Civiltà Cattolica", 159, 2007, iv, pp. 33-45) è quella di "un prete schierato con il Vangelo", la cui eredità è "sostanzialmente incentrata nell'amore per gli ultimi, che lo aveva trasformato in uno di loro, ma soprattutto in quella fede che gli aveva permesso di restare sempre e comunque, addirittura faziosamente, dalla parte del Vangelo". Un giudizio in parte già anticipato nel 1990 da padre Giuseppe De Rosa (Un profeta del nostro tempo? Don Lorenzo Milani dalla sue "Lettere", in "La Civiltà Cattolica" (121, 1970, iv, pp. 370-376) che riconosceva a don Milani di "essere stato a suo modo, ma con sincerità e una coerenza che sarebbe ingiusto negare, un uomo che ha profondamente amato e servito Dio, la Chiesa e i poveri. Era l'archiviazione definitiva, la retractatio, della dura stroncatura riservata all'appena uscito Esperienze pastorali, che si concludeva con l'invito ad una profonda "metanoia", "anche come riparazione del gran male che la sua opera certamente farà a tante anime irrequiete e poco formate", alla quale doveva seguire, come penitenza, un nuovo modo di "scrivere", quello cioè condito col "miele", comodo e non compromettente, di una malintesa pia edificazione (Angelo Perego, Le "Esperienze pastorali" di don Lorenzo Milani, "La Civiltà Cattolica", 109, 1958, III, pp. 627-640).
Il miele e l'aceto:  un "classico" della polemica antimilaniana che, non a caso, riapparve in un autorevole "biglietto" del 25 gennaio 1966 (Lettere cit., pp. 248-250) recapitato - con tempismo perfetto - all'Ospedale fiorentino di Careggi dove don Lorenzo era stato ricoverato per un irreversibile aggravamento del suo male che di lì a pochi mesi lo avrebbe riportato nel grembo del suo "Dio preciso" (26 giugno 1967).



(©L'Osservatore Romano 6 febbraio 2009)
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