San Paolo, il cristianesimo e l'Europa moderna

L'insospettabile vantaggio di essere in pochi


Il Centro Culturale di Milano ha ospitato il 6 maggio una conferenza intitolata:  "Dalla terra alle Genti:  san Paolo fondatore del cristianesimo o apostolo di Gesù?". Ne pubblichiamo un estratto.

di Rainer Riesner
Università di Dortmund (Germania)

Il Nuovo Testamento è caratterizzato dalla presenza di due grandi teologi, Giovanni e Paolo. Il pensiero teologico di Giovanni è meditativo, e ha influenzato profondamente fino a oggi le Chiese orientali. Paolo ha posto al servizio della fede anche un acuto conflitto di natura logica, ispirando lo stesso Agostino, in qualità di uno dei maggiori pensatori dell'antichità cristiana.
Paolo ricevette la propria formazione teologica presso la scuola del famoso rabbino Gamaliele il Vecchio (Atti, 22, 3). Nel i secolo i letterati ebrei prendevano parte apertamente ai dibattiti intellettuali del loro tempo. All'epoca del figlio di Gamaliele si dissertava non solo dell'Antico Testamento ma anche della "saggezza greca" (Talmud babilonese, Sota 49b; Baba Kama 83a).
Paolo, nella sua veste di cristiano, non dimenticò quanto aveva appreso da Gamaliele. Nelle sue lettere, l'apostolo si serviva delle tecniche logiche e retoriche all'epoca riconosciute e comunemente utilizzate.
I grandi teologi corrono sempre il rischio di soccombere al fascino del proprio pensiero o di un sistema di pensiero altrui. Il più grande studioso della Bibbia nell'ambito della chiesa antica, al contempo eminente filosofo, era Origene. Anche egli era soggetto al rischio, e in alcuni punti è effettivamente caduto in questa trappola, di privilegiare il proprio pensiero teologico rispetto alla tradizione della fede generalmente riconosciuta. Anche Paolo è stato spesso dipinto come un pensatore solitario, isolato dal cristianesimo originario, anche se il giudizio a tal proposito non è stato affatto unanime. Per alcuni, egli è il precursore dell'indipendenza del pensiero teologico nei confronti della tradizione ecclesiastica. Secondo l'opinione di altri, con la sua complicata teologia Paolo avrebbe invece deturpato il semplice insegnamento di Gesù, trasformandolo in un cristianesimo dogmatico. Anche oggi Gesù e Paolo vengono spesso contrapposti. Ma Paolo non credette solo a Gesù crocifisso e risorto. L'apostolo sapeva anche molte cose sulla predicazione di Gesù, e le espone in vari punti delle proprie lettere. E ciò lo si nota solo sapendo come gli scribi ebrei solitamente citano i testi sacri. Li conoscono perfettamente a memoria, e spesso è loro sufficiente una sola parola chiave per ricordarli. Quando Paolo parlava di "fede" che "muove le montagne" (1 Corinzi, 13, 2), si riferiva naturalmente alle parole pronunciate da Gesù (Matteo, 17, 20).
Ma per Paolo era anche estremamente importante essere in accordo con la tradizione di fede tramandata dalla comunità originaria di Gerusalemme. Quando alcuni nella comunità di Corinto palesarono pensieri errati in merito alla risurrezione dei morti, l'apostolo ricordò la formula di professione della fede che aveva insegnato loro. Questa formula non era frutto del suo pensiero, bensì della tradizione (1 Corinzi, 15, 1-5).
Risale con molta probabilità alla comunità originaria che si era raccolta intorno all'apostolo Pietro a Gerusalemme (cfr. 1 Corinzi, 15, 5-11). Da quando, sulla via per Damasco, Gesù risorto era apparso a Paolo nella sua magnificenza divina, all'apostolo parve chiaro che non si poteva più parlare di Gesù come di un semplice essere umano (2 Corinzi, 4, 1-6). Ma anche in questo caso, per Paolo era essenziale non propugnare da solo questa sostanziale convinzione cristologica. Nella lettera ai Filippesi citò un brano (Filippesi, 2, 6-11) la cui forma linguistica indica che originariamente era formulato in una lingua semitica. In questo punto si parla chiaramente della divinità di Gesù (Filippesi, 2, 6). Secondo fonti affidabili del patriarca Girolamo, i genitori di Paolo erano originari di Giscala (De viris illustribus, 5), una roccaforte degli zeloti nell'Alta Galilea (Giuseppe Flavio, Bellum Judaicum, ii, 585 e seguenti). Se un fariseo come Paolo e altri devoti ebrei palestinesi riconobbero in Gesù il vero Dio, questo fatto non può essere spiegato con l'antico sincretismo, ma solo con la realtà della risurrezione di Gesù.
Ai cristiani di Corinto, fin troppo affascinati dai doni carismatici, Paolo dovette ricordare il fondamento della tradizione di fede e l'importanza della ragione (1 Corinzi, 14, 19). Ma Paolo non riduce la fede cristiana alla ragione e alla tradizione. Proprio nei confronti dei Corinzi, Paolo lascia intravedere la propria esperienza spirituale, nella quale non mancavano né la preghiera in lingue straniere infusa dallo Spirito Santo (1 Corinzi, 14, 18), né le visioni celestiali (2 Corinzi, 12, 1-4). Paolo ha anche parlato apertamente del suo miracoloso dono apostolico (2 Corinzi, 12, 12). La storia intellettuale europea degli ultimi due secoli è caratterizzata da grandi mutazioni. In alcuni momenti le tradizioni erano prive di valore, mentre in altri rappresentavano tutto. A epoche caratterizzate dal razionalismo hanno fatto seguito epoche dominate da una grande irrazionalità. Il nostro tempo è segnato dal fatto che viviamo tutto contemporaneamente, e anche i cristiani e le Chiese non ne sono immuni. Paolo può insegnarci il giusto equilibrio fra tradizione di fede, pensiero razionale ed esperienza spirituale personale.
Quando Paolo giunse ad Atene si arrabbiò per l'antico sincretismo, dominato da un mondo di idoli imperscrutabili (Atti, 17, 16). Ma non inneggiò all'assalto dei templi pagani e nemmeno invitò a boicottarli. Piuttosto, propugnò la fede nell'unico Dio, rivelatosi in Gesù Cristo, servendosi esclusivamente della forza di convincimento delle parole, nella sinagoga, nelle discussioni con i filosofi e durante l'interrogatorio del consigliere ateniese Areopago (Atti, 17, 17). Si auspicherebbe che i cristiani seguissero sempre questo esempio dell'apostolo, invece di cedere alla tentazione di sostituire il convincimento con la coercizione. È anche evidente l'elevato valore attribuito da Paolo alla coscienza umana, pur se debole e ingannevole (Romani, 14; 1 Corinzi, 8-10).
Del resto, anche prima dell'illuminismo, singoli cristiani avevano fatto proprio l'impulso alla libertà di fede e di coscienza proclamata da Paolo. Nel 1610 il cristiano evangelico Thomas Helwys pubblicò uno scritto che non solo si faceva paladino della tolleranza nei confronti dei protestanti, ma che sostanzialmente richiedeva quanto segue:  "Il re non deve ergersi a giudice fra Dio e l'uomo. Che si tratti di eretici, turchi, ebrei o altro, non spetta al potere temporale comminare seppur minime pene per tale ragione" (A Short Declaration of the Mystery of Iniquity, ristampa 1998). Pensieri di questo genere vennero portati in America dai profughi religiosi, contribuendo a far sì che la Costituzione degli Stati Uniti del 1787, quindi ancora prima della rivoluzione francese, proclamasse la libertà di fede e di coscienza. Uno dei nostri scopi precipui nell'Europa moderna consiste proprio nel difendere entrambi questi ideali, e nel far ciò dovremo tenere presente sempre più che la libertà di fede e di coscienza vale anche per i cristiani.
La nostra epoca presenta delle similitudini con quella dell'apostolo Paolo, nel senso che non è più considerato ovvio essere un cristiano. La fede cristiana viene percepita come una delle tante offerte proposte nel mercato delle religioni. Inoltre, notiamo una sempre maggiore ostilità nei confronti del cristianesimo. La rivendicazione della verità religiosa viene considerata arrogante e molti precetti etici sono ritenuti oppressivi. Tuttavia, il fatto che essere cristiani non sia più scontato, presenta anche dei vantaggi. I cristiani devono nuovamente concentrarsi sulla particolarità e unicità della loro fede. Pertanto, fra i cristiani appartenenti a Chiese molto diverse, che non vogliono semplicemente adeguarsi allo spirito del tempo, cresce la consapevolezza di condividere elementi in comune. Una tale comunanza di intenti, che fortunatamente viene continuamente sottolineata anche da Papa Benedetto, si fonda sulla consapevolezza che l'Europa necessita di una nuova evangelizzazione! L'apostolo Paolo può fungere da esempio in tal senso? Paolo è riuscito a ispirarci con la sua fede e il suo coraggio. La sfida che ha affrontato era estremamente più grande di quella che sta di fronte a noi. Cos'era una manciata di cristiani in confronto al potente impero romano e all'affascinante cultura pagana dell'ellenismo? Dal punto di vista umano, niente! Ma Paolo ha contrapposto a tale punto di vista la propria convinzione:  "Tutto posso in colui che mi dà la forza" (Filippesi, 4, 13). Questa frase non è stata scritta da Paolo in un momento qualsiasi, ma durante la sua prigionia. L'apostolo sperimentò allora la stessa situazione condivisa oggi dai cristiani in molti Paesi del mondo:  si può imprigionare chi annuncia il Vangelo, ma non il Vangelo (Filippesi, 1, 12-14).
Paolo si è affidato alla potenza di Dio e dello Spirito Santo, ma questo non gli ha impedito di operare nella sua missione in modo strategico e metodico. Solo due indicazioni a tale proposito. Paolo si è concentrato sulle città di provincia come Salonicco, Corinto ed Efeso. Credeva, a ragione, che in seguito alla costituzione di comunità in questi punti nevralgici per le comunicazioni il Vangelo potesse diffondersi nelle regioni limitrofe. Tuttavia, queste regioni erano molto distanti dal punto di vista geografico, cosicché sussisteva il rischio di uno sviluppo non omogeneo. L'apostolo lo scongiurò recandosi in visita in questi luoghi, inviando lettere e collaboratori. L'organizzazione di un collegamento fra così tanti collaboratori e gruppi era per l'epoca un enorme impegno dal punto di vista logistico. Uno studioso inglese definisce questo fenomeno come The Holy Internet (M. A. Thompson, in:  R. Bauckham, The Gospels for All Christians, 1998, 49-70). Questo ci fornisce un'importante indicazione. Non si tratta solo di emulare i metodi missionari di Paolo. Grazie alla radio, alla televisione e in particolare a internet, abbiamo a disposizione delle opportunità di comunicazione con le quali possiamo raggiungere anche le persone che vivono nei paesi più remoti. Paolo si complimenterebbe di cuore con noi per questa modernità, se concordiamo con lui su di un punto:  esiste solo "un Vangelo di Gesù Cristo" (Galati, 1, 8) ed "è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del Giudeo e poi del Greco" (Romani, 1, 16). Anche oggi non sussiste alcun motivo per vergognarsi di questo Vangelo.



(©L'Osservatore Romano 8 maggio 2009)
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