I codici ebraici vaticani fonte insostituibile per lo studio della cabala anche cristiana

Quando Abraham Abulafia voleva convertire il Papa


Presso la Biblioteca nazionale di Israele si è tenuta la presentazione del volume Hebrew Manuscript in the Vatican Library Catalogue realizzato dall'Institute of Microfilmed Hebrew Manuscripts e dalla Jewish National and University Library (a cura di Benjamin Richler, Malachi Beit-Arié e Nurit Pasternak, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 2008 [Studi e testi, 438], pagine XXIX + 681 + 66*, 16 tavole fuori testo, euro 120). All'incontro hanno partecipato Carl Posy, direttore scientifico della biblioteca, Menachem Ben-Sasson, presidente della Hebrew University, Sarah Japhet, presidente della World Union of Jewish Studies e i curatori del volume, Malachi Beit-Airé e Benjamin Richler. Per la Biblioteca Apostolica Vaticana erano presenti il cardinale Raffaele Farina, archivista e bibliotecario di Santa Romana Chiesa, il prefetto monsignor Cesare Pasini e Claudia Montuschi, del Dipartimento manoscritti. Pubblichiamo integralmente la relazione conclusiva tenuta da uno dei docenti della Hebrew University, tra i massimi studiosi della cabala e della mistica ebraica.

di Moshe Idel

Nell'estate del 1280, il cabalista Abraham Abulafia (1240-1291 circa), corifeo della cosiddetta Qabbalah "profetica", orientata all'avventura estatica, tentò di incontrare Papa Niccolò III a Roma. Quel singolare intento era l'esito di una rivelazione ricevuta dieci anni prima a Barcellona, rivelazione nella quale gli si ingiungeva di recarsi a Roma per il Capodanno ebraico per una missione che avrebbe riecheggiato l'incontro di Mosè col Faraone, ovvero per discutere il tema della redenzione.
Dalle scarse informazioni in nostro possesso, sembra che Abulafia, ancorché non si peritasse di commisurarsi a Mosè, fosse maggiormente interessato a discettare col Pontefice intorno alla vera natura del giudaismo piuttosto che a riscattare gli ebrei dall'oppressione cristiana, o che fosse addirittura convinto di poter convertire il Papa, come taluni hanno sostenuto.
Egli credeva in un giudaismo intriso di misticismo religioso, basato sull'onomatomania quale mezzo per raggiungere l'esaltazione estatica, intesa come esperienza spirituale salvifica. Riteneva che tale giudaismo spirituale, sorta di conoscenza interiore attingibile per il tramite di appropriate tecniche mistiche, fosse una forma di religiosità superiore rispetto alle tre religioni monoteistiche.
Niccolò iii era piuttosto riluttante a incontrare Abulafia, e si ritirò nel castello di Soriano nel Cimino, da lui fatto erigere nel 1278. Ma il pervicace cabbalista, benché consapevole del rischio di essere mandato al rogo qualora avesse persistito nel suo intento di seguire il Pontefice, nondimeno raggiunse il castello, ove apprese che il 22 agosto il Papa era spirato per un colpo apoplettico.
Il mancato incontro fra il cabalista ansioso di incontrare il Papa, e quel Pontefice, peraltro fortemente incline alla spiritualità francescana d'impronta minorita, non conclude la nostra storia. Dopo aver trascorso due settimane agli arresti presso la casa dei minori in Roma, fu rilasciato e si diresse alla volta di Messina, allora parte del  regno  d'Aragona.  Ivi  rimase attivo per più di un decennio, scrivendo svariati opuscoli cabbalistici e insegnando la sua cabala a molti intellettuali ebrei, e probabilmente anche cristiani.
Questa apertura, da parte di un cabalista che ignorò deliberatamente l'interdizione a rivelare la cabala ai non iniziati, ancorché ebrei, è un importante sviluppo, da prendersi molto sul serio nel discutere di esoterismo giudaico.
La corrente profetica del cabalismo fu parte integrante della letteratura giudaica mistica in Italia, e una componente significativa della nascente cabala cristiana sullo scorcio del tardo Quattrocento fiorentino.
La traduzione di alcuni scritti di Abulafia, dall'ebraico al latino, da parte di Flavio Mitridate, fu uno dei più importanti fattori di impatto della cabala estatica sul rinascimento italiano. Mithridates, altrimenti noto come Guglielmo Raimondo Moncada, era un converso che giunse a tenere una conferenza al cospetto di Sisto IV.
È verosimile che Flavio Mitridate, di origini siciliane e figlio di un ebreo siriano di nome Nissim Abu-l-Faraj, abbia potuto studiare i testi cabbalistici di Abulafia già in gioventù. La sua abilità nel penetrare gli astrusi trattati cabbalistici ebraici, da lui magistralmente volti in latino, lo portò a privilegiare la cabala più ermetica, quella estatico-profetica. Il suo interesse per essa emerse tuttavia tardivamente intorno al 1486; anni dopo il suo soggiorno romano e la visita al soglio di Pietro. Le sue traduzioni sono all'origine delle novecento Conclusiones philosophicae, cabalisticae et theologicae di Giovanni Pico della Mirandola, massima espressione della cabala cristiana, opera profondamente intrisa di dottrina cabbalistica. Le Conclusiones valsero a Pico l'immediata condanna papale e l'esilio, dal quale ritornò a Firenze solo con l'avvento di Alessandro VI.
A distanza di più di due secoli, i manoscritti latini di mano del Mitridate, scaturigine della cabala cristiana, e dunque anche l'Abulafia latino - vagamente cristianizzato - confluirono nel fondo dei manoscritti Vaticani ebraici (Vaticano ebraico 189-190). Uno di essi è peraltro giunto in Vaticana per vie traverse (Chigi A.vi. 190). Si tratta di manoscritti unici, autografi di Flavio Mitridate. La sua sofisticata tecnica di traduzione fu messa talvolta al servizio di travisamenti e interpolazioni, allo scopo di rendere l'originale ebraico più consono alla dottrina cristiana.
Quei codici, dopo più di quattro secoli, sono stati approfonditamente studiati e analizzati da Chaim Wirszubski dell'Hebrew University di Jerusalem, al fine di evidenziarne l'influsso sul pensiero di Pico (Pico della Mirandola's Encounter with Jewish Mysticis, Cambridge, Harvard University Press, 1989). Ma il contributo di Wirszubski non si limita all'ambito della cabala cristiana. L'Abulafia latino che egli fa emergere dalle versioni di Mitridate integra e completa la nostra conoscenza relativa agli originali ebraici, spesso sfigurati da una tradizione frammentaria. E tuttavia, accanto alle versioni latine di Flavio Mitridate, le collezioni vaticane ci preservano l'originale ebraico di numerosi trattati cabbalistici di Abulafia (Sefer 'Or ha-Sekhel, Sefer ha-'Ot, Sefer Hayyei ha-'Olam ha-Ba'). Ancora più importante è il manoscritto testimone di un lungo frammento dal Sefer Mafteah ha-Re'ayon (Vaticano ebraico 291). L'opera in questione non è altrimenti nota, almeno in questa forma. Quel testo fu originalmente scritto nel 1273, ed è fondamentale per la comprensione della fase più antica del pensiero del cabbalista estatico. In tal senso fa il paio con la versione latina di un'altra opera di Abulafia, scritta nel medesimo anno.
Per completare il quadro dei testimoni vaticani di Abulafia, occorre segnalare la presenza di sue opere profetiche - alcune venate di spiritualismo apocalittico - fra i codici della Biblioteca Angelica di Roma che ovviamente non sono  compresi  nel  catalogo di cui stiamo trattando.
Il recente progetto di edizione critica delle summenzionate versioni latine di Abulafia, intrapreso fra gli altri da Giulio Busi e Saverio Campanini, getterà nuova luce sulle prime origini della cabala cristiana.
La Biblioteca Vaticana custodisce un importante manoscritto compilato approssimativamente nel XIV secolo e copiato da mano spagnola. Questo manoscritto contiene materiale cabalistico di diverse scuole:  provenzali, catalane e castigliane Molte di queste tradizioni sono legate alle origini di alcune fasi storiche della cabala - soprattutto dei primi decenni del XIII secolo - e furono i "mattoni" utilizzati da Gershom Scholem, il pioniere dello studio della cabala, per edificare il magnifico edificio delle Origini della cabala. In questo manoscritto Scholem, all'inizio della sua carriera, scoprì un'epistola che costituì il più importante documento per la ricostruzione delle relazioni tra la scuola provenzale rappresentata da rabbi Isaac Sagi-Nahor, il "padre della cabala", e due importanti rabbini più giovani, attivi nella città catalana di Gerona, rabbi Moses ben Nahman (Nahmanides) e suo cugino Jonah Gerondi. Gli scambi tra questi rabbini riguardano la divulgazione di questioni cabalistiche da parte di altri cabalisti; e i pochi dati trovati nell'epistola sono elementi indispensabili per descrivere la diffusione della cabala dalla Provenza alla Catalogna e da qui in Castiglia. L'epistola è tramandata da un unico manoscritto; dalla pubblicazione che Scholem ne fece negli anni Trenta e poi dalle sue analisi più approfondite degli anni Quaranta e Sessanta - soprattutto nella sua opera Origins of the Kabbalah (Princeton University Press, 1989) - non è stato identificato nessun altro manoscritto simile contenente questa epistola. Come per le origini della cabala cristiana, anche per la conoscenza delle origini di quella ebraica dobbiamo molto ai manoscritti vaticani.
I più importanti documenti della letteratura cabalistica sono indubbiamente costituiti dalla letteratura zoharica. Scritta tra la fine degli anni Settanta del XIII secolo e i primi decenni del XIV secolo in Castiglia, per la maggior parte in aramaico, la letteratura zoharica fu immediatamente canonizzata e diventò la pietra angolare per molte scuole cabalistiche, specialmente a metà del XVI secolo a Safed. Il processo che portò al sorgere e al successivo consolidarsi di questa letteratura, nonché alle varie modalità di ricezione, deve essere ancora studiato in modo approfondito. I manoscritti ebraici della Biblioteca Vaticana possono contribuire a illuminare alcuni aspetti di tali processi. Fornisco di seguito un esempio più ampio in questa direzione. Due manoscritti vaticani anonimi - i Vaticani ebraici 62 e 168 - contengono una traduzione ebraica di alcune parti aramaiche dei commenti zoharici del Pentateuco. Sebbene per molti aspetti simili, ciascuno dei due manoscritti ha carattere di unicità. L'analisi dello stile della traduzione e il confronto con parti di altre traduzioni ebraiche di passi zoharici degli scritti ebraici di rabbi David ben Yehudah he-Hasid mi hanno portato a identificare l'anonimo traduttore con questo cabalista. Un cabalista del tardo xiii o dell'inizio del XIV secolo, rabbi David, potrebbe essere non solo uno dei primi commentatori di questo libro, ma molto probabilmente il suo primo traduttore in assoluto. Ciò significa che questi due codici possono aiutarci a fare ipotesi sulle versioni aramaiche soggiacenti a traduzione. Qui abbiamo dunque le prime ampie testimonianze della natura del testo del libro, il terzo dell'ebraismo in ordine di importanza. Inoltre, in alcuni casi in questi due manoscritti la versione della traduzione ebraica è accompagnata da lunghi passaggi in aramaico, che potrebbero costituire i primi ampi brani di letteratura zoharica che ci siano giunti in lingua originale. Alcune brevi citazioni di questa traduzione ebraica si trovano nei cabalisti del XVI secolo, ma è solo nei due manoscritti sopra menzionati che si trovano dozzine di pagine.
Comunque, mi preme segnalare che ci sono anche altri codici nella raccolta vaticana che possono rivelarsi una miniera di importanti informazioni concernenti la storia del testo dello Zohar. Due esempi sono la traduzione anonima dello Zohar nel Vaticano ebraico 226 e i testi che si trovano nella prima parte del Vaticano ebraico 203. Entrambi meritano particolare attenzione da parte degli studiosi.
Si è già accennato ai maggiori codici cabalistici fra quelli della Biblioteca Vaticana che illustrano lo sviluppo di questa letteratura in Sicilia, in Italia e in Europa occidentale. Tuttavia la Vaticana possiede anche alcuni manoscritti importanti che potranno contribuire in futuro allo studio della storia di un altro centro spesso trascurato di letteratura cabalistica:  quello bizantino. Rispetto ai centri della Provenza e della Spagna, quello nell'impero bizantino emerge in epoca relativamente recente; dalla metà del Trecento vi si sviluppa una cabala con carattere particolare, il cui profilo concettuale si elabora lentamente, insieme ai trattati che vi si producono, man mano che avanza l'erudizione cabalistica. La ricerca degli ultimi decenni ha reso sempre più plausibile l'ipotesi dell'origine bizantina per alcuni trattati cabalistici, origine che era stata precedentemente localizzata dagli studiosi in Spagna o in Italia. È questo il caso di alcuni testi classici della cabala come il Sefer ha-Temunah, il Sefer ha-Peliyah o il Sefer ha-Qanah, ma anche di una pletora di trattati minori. La Vaticana possiede alcuni manoscritti importanti che potranno servire da punto di partenza fecondo per uno studio di questo centro cabalistico. I Vaticani ebraici 188, 194, 195, 218, 220 e 223 sono esempi notevoli della ricezione in Italia della cabala bizantina e del suo impatto sulla natura della cabala italiana alla fine del Quattrocento nonché sulla cabala cristiana dall'inizio del Cinquecento.
In questo contesto occorre accennare ad altri due manoscritti cabalistici, i quali si inseriscono nel dibattito sulla metempsicosi che si è svolto a Candia, a Creta, nella seconda metà del XV secolo. Due grandi codici, i Vaticano ebraico 105 e 254, contengono documenti che elencano argomenti pro e contra, riflettendo rispettivamente gli insegnamenti di rabbi Michael ha-Kohen Balbo e di rabbi Moshe Ashkenazi.
La maggior parte degli argomenti di questa aspra controversia non si trova in nessun altro manoscritto:  si può quindi supporre che la ricostruzione dei vari dibattiti su questo importante tipo di credenza cabalistica sarà possibile grazie ai "soli" manoscritti della Vaticana. Questa ricostruzione è stata avviata a Gerusalemme da un terzo autorevole studioso della Hebrew University, Ephraim Gottlieb, ed è stata successivamente continuata dalla tesi di dottorato di Brian Ogren, sempre  nella  nostra  università.
Possiamo insomma concludere che la varietà dei diversi manoscritti presenti nelle collezioni vaticane riflette la varietà della letteratura cabalistica dagli inizi fino al suo culmine alla metà del Cinquecento.
Gli esempi precedenti mostrano quanto i manoscritti cabalistici vaticani abbiano contribuito alla nostra conoscenza della storia della cabala. Il nuovo catalogo - un ottimo esempio di quello che dovrebbe essere un catalogo di manoscritti ebraici - sicuramente faciliterà lo studio di altri manoscritti e arricchirà la nostra conoscenza dello sviluppo delle varie forme di questa vasta letteratura. È lecito sperare che, in un'epoca in cui gli studi filologici suscitano meno interesse rispetto al passato, la tradizione di lettura seria e attenta di manoscritti che ha sempre fatto parte della cultura della Hebrew University rimanga una componente essenziale degli studi futuri sulla cabala; e che i codici vaticani continuino a essere fonti di nuove scoperte per una migliore conoscenza di un aspetto essenziale del giudaismo medievale.
Infine desidero accennare a un altro aspetto della raccolta vaticana, relativo non ai contenuti dei manoscritti, ma alla politica di accesso ai manoscritti ebraici di questa biblioteca. Quando fu fondato, all'interno della Jewish National and University Library di Gerusalemme, l'Institute of Hebrew Manuscripts, cui appartengono gli autori principali del nuovo catalogo, molte biblioteche del mondo hanno dato il loro consenso per la microfilmatura e per la consultazione gratuiti dei codici da parte degli studiosi. Tuttavia, nella maggior parte delle istituzioni, il requisito per il consenso per la riproduzione e la stampa era la presentazione di una richiesta scritta. Solo tre fra le decine di biblioteche coinvolte - la Biblioteca Vaticana a Roma, quella dell'Escorial in Spagna e la Cambridge University Library in Inghilterra - sono state disposte a dare agli studiosi un permesso gratuito e automatico per la microfilmatura, la fotocopia e la pubblicazione dei manoscritti. Per persone che conoscono bene le traversie che spesso accompagnano i tentativi di corrispondenza con le biblioteche - ivi comprese, senz'altro, quelle italiane - in generale, questo tipo di permesso ha costituito un incitamento a impegnarsi nello studio di questi codici. La rinuncia ai propri legittimi diritti da parte delle biblioteche menzionate ha notevolmente facilitato l'accesso ai manoscritti cabalistici, un fatto gradito particolarmente a quei collaboratori che - come chi scrive - all'inizio del loro studio dei manoscritti cabalistici non abitavano a Gerusalemme. Per questo motivo mi è capitato, talvolta, di basare l'analisi su un codice vaticano anche quando il trattato cabalistico in questione si trova in altri manoscritti - per esempio il trattato maggiore di Abulafia, il Sefer 'Or ha-Shekel, che si trova nel Vaticano ebraico 233. Colgo quindi questa occasione per ringraziare, anche se con un cospicuo ritardo, la Biblioteca Vaticana per la generosità, che ha favorito non solo il mio piccolo contributo agli studi cabalistici, ma anche quelli di tanti altri studiosi.



(©L'Osservatore Romano 26 luglio 2009)
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