Da quando fu scoperta nel 1908 l'epigrafe
è stata oggetto, inutilmente, di migliaia di tentativi di decifrazione

Il mistero del disco di Festo


di Louis Godart

Nel giugno del 1884 Federico Halbherr sbarcava nell'isola di Creta. Domenico Comparetti, il grande epigrafista fiorentino, aveva mandato il giovane, che aveva allora ventisette anni, alla ricerca di epigrafi greche. Le ricerche di Halbherr ebbero subito esito eccezionale. Recandosi nella pianura della Messarà il discepolo di Comparetti ebbe la fortuna di scoprire la più importante di tutte le iscrizioni greche mai venute alla luce:  la grande iscrizione di Gortina sistemata sulle pareti dell'odeion della città. Questa straordinaria scoperta riempì di entusiasmo i cretesi e in particolare i membri dell'intellighenzia locale, che in quelli anni stavano lottando per affrancare la loro terra dal giogo turco.
Rapidamente  la  personalità  di Halbherr s'impose sullo scenario cretese e la pianura della Messarà, dove principalmente lavorava, divenne il suo terreno di predilezione. Per affermare il  primato  dell'Italia  nella zona occorreva travalicare i confini della Grecia ellenistico-romana e occuparsi anche del mondo minoico-miceneo che, dopo le scoperte di Heinrich Schliemann a Troia e a Micene negli anni Settanta dell'Ottocento, appariva come una delle province archeologicamente più ricche di promesse della protostoria greca ed egea.
Nella pianura della Messarà vi erano tracce vistose di insediamenti che risalivano ai periodi dell'età del bronzo, tra cui l'insediamento di Festo. Gettare le basi per condurre una ricerca archeologica a Festo appariva come un'operazione politica e scientifica alla quale Halbherr non poteva rimanere insensibile. Il sito di Festo tra l'altro era ricordato nell'Iliade (ii, 648) e nell'Odissea (iii, 296) nonché presso numerosi autori antichi tra cui Diodoro e Strabone.
Fondata nel 1899 una missione italiana permanente a Creta, il progetto da lungo tempo accarezzato di condurre veri e propri scavi a Festo fu avviato non appena si ottenne dall'alto commissariato dell'isola che l'esplorazione della Messarà fosse affidata agli italiani. Gli scavi iniziarono nel 1900, poco dopo quelli avviati da Arthur Evans a Cnosso.
Il  3  settembre  1900,  in  una lettera inviata a Domenico Comparetti, Halbherr scriveva:  "Il più e il meglio si è trovato a Festo, dove abbiamo scoperto il palazzo miceneo; un edificio di enormi proporzioni, che domanderà almeno due o tre campagne per essere completamente scavato. Il dr. Pernier che ho lasciato colà a continuare i lavori, vi resterà fino alla metà di settembre. Essendo il luogo malarico, si dovrà allora sospendere lo scavo e riprenderlo nell'inverno. Il palazzo di Festo di cui un terzo e più è adesso messo in luce, ha dato vasi micenei bellissimi, idoli in terracotta del tipo di quelli di Troia, figurine di animali, due splendide tavole di libagione con decorazioni di spirali a rilievo come nella stele di Micene, frammenti d'intonaco dipinti, bronzi, ecc. Mancano però sino a oggi le tavolette iscritte, ma non manca la speranza di trovarne più in là".
Quest'ultima previsione di Federico Halbherr avrebbe trovato la più sensazionale delle conferme qualche anno dopo:  la terra di Festo avrebbe restituito la più celebre di tutte le epigrafi della Grecia e dell'Egeo dell'età del bronzo.
Il 3 luglio del 1908, in un piccolo vano rettangolare nella zona nord-orientale del palazzo, circa cinquanta centimetri sopra il fondo roccioso, in mezzo a terra scura commista a cenere, carbone e frammenti ceramici, venne alla luce il famoso disco di Festo. Pochi centimetri più a sud-est, nel vano stesso, quasi alla medesima profondità, giaceva una tavoletta in scrittura lineare a, la scrittura usata dalle popolazioni minoiche di Creta.
Il disco poggiava sul suolo; era in posizione obliqua e mostrava la faccia che reca nel centro una rosetta. Lo scopritore del disco, Luigi Pernier, sottolineò la presenza in mezzo al vasellame minoico che accompagnava il disco, di altro materiale del periodo ellenistico. La presenza di ceramiche di vari periodi nel vano in questione significa in modo inoppugnabile che la zona dalla quale proviene il disco era stata manomessa nel corso della storia e che sulla base dei dati stratigrafici disponibili qualsiasi certezza sulla datazione precisa dell'oggetto è impossibile da raggiungere.
Entrambe le facce del disco sono coperte di linee graffite e di caratteri impressi a stampa quando l'argilla era ancora molto fresca e molle. Le linee sono tracciate a mano libera con una punta dura e sottile, una specie di stilo abbastanza simile a quelli usati per realizzare le altre scritture scoperte a Creta del secondo millennio prima dell'era cristiana:  la scrittura geroglifica, la scrittura lineare a, ambedue espressioni della civiltà minoica, e la scrittura lineare b, usata dai Greci micenei all'indomani del tracollo dei centri palaziali minoici.
Su ciascuno dei due lati del disco questa linea si avvolge a spirale ed è incisa dalla periferia verso il centro. Nella zona compresa tra i giri della spirale sono stati impressi i diversi segni che compongono l'iscrizione del disco. Questi segni sono raccolti in gruppi, separati l'uno dall'altro da un trattino che collega tra loro i giri della spirale. Il trattino posto al punto d'origine delle spirali - tanto della faccia a che della faccia b - consiste in una linea incisa verticalmente nella quale la punta dello stilo ha incavato cinque puntini. Sulle due facce del documento si susseguono sessantuno gruppi di segni - trentuno per la faccia a, trenta per la faccia b - per un totale di duecentoquarantadue segni; questi sessantuno gruppi di segni sono suddivisi in diciassette sequenze, divise da un trattino posto a sinistra dell'ultimo segno di ognuna.
I gruppi di segni sono stati realizzati con la stampa di quarantacinque caratteri diversi. Si tratta del primo caso nella storia di un documento stampato con l'utilizzo di caratteri mobili. Possiamo dire che l'anonimo autore del disco di Festo ha anticipato di vari millenni l'invenzione dell'olandese Laurens Coster, vissuto alla fine del Trecento, al quale si attribuisce la scoperta dei caratteri mobili riutilizzabili a varie riprese per la redazione di un testo.
Da quando fu scoperto, il disco di Festo è stato oggetto di migliaia di tentativi di decifrazione, nessuna delle quali convincente. Personalmente, occupandomi da oltre quarantacinque anni delle antiche scritture egee, ho ricevuto più di trecento proposte di interpretazione dell'iscrizione.
Poniamoci quindi una domanda fondamentale:  è possibile giungere a una decifrazione del disco di Festo?
Nella sua prefazione alla ristampa della famosa Lettre à M. Dacier (1822) con la quale Jean-François Champollion annunciava la decifrazione della scrittura geroglifica egiziana, Henri Sottas elenca le tre condizioni principali necessarie a ogni decifrazione. Prima di tutto occorre avere un'idea più o meno chiara del contenuto del testo; in secondo luogo è necessario avere un'idea precisa del sistema di scrittura utilizzato; infine occorre disporre di un elemento in grado di suggerire un'ipotesi di partenza (per il geroglifico egiziano Champollion ipotizzò la parentela con la lingua copta; per la decifrazione della scrittura micenea lineare b Michael Ventris ipotizzò quella con il cipriota classico). A queste tre condizioni evidenziate da Sotas, mi sento di doverne aggiungere una quarta, fondamentale:  occorre disporre di un numero di segni e di gruppi di segni abbastanza elevato da consentire di valutare e sperimentare le ipotesi di decifrazione proposte.
Nel caso del disco di Festo dobbiamo riconoscere che non abbiamo alcuna idea del contenuto del testo. Il fatto di non trovare mai segni ideografici o numerici - contrariamente a quanto avviene nei documenti d'archivio in geroglifico cretese, in lineare a o in lineare b - potrebbe indicare che ci troviamo di fronte a un testo di carattere non economico.
È più facile invece determinare il tipo di scrittura con il quale abbiamo a che fare. Tre sistemi grafici si ritrovano nelle scritture attestate nel mondo.
Il primo consiste nel disegnare l'oggetto che si desidera nominare. Tale scrittura è chiamata ideografica e ogni segno viene definito ideogramma o logogramma.
Teoricamente una simile scrittura dovrebbe essere semplice da interpretare poiché ogni logogramma rappresenta in modo più o meno esplicito una realtà con la quale il lettore si confronta nella vita quotidiana. In realtà le cose sono molto più complesse perché ogni scrittura ideografica ha bisogno di un numero estremamente elevato di segni per esprimere le azioni o i concetti astratti. La scrittura cinese è ideografica e ogni cinese istruito deve essere capace di leggere e quindi di scrivere svariate migliaia di caratteri per esprimere il proprio pensiero. "Occhio" in cinese è rappresentato dall'ideogramma dell'occhio ma "vedere" è reso dall'ideogramma dell'occhio al quale sono aggiunti due piedini, e così via. In questo modo il numero dei segni cresce a dismisura, ed esistono vocabolari cinesi che hanno cinquantamila caratteri differenti.
Gli altri due sistemi grafici, quello sillabico e quello alfabetico, sono entrambi costituiti da segni che traducono il suono della parola pronunciata. La differenza risiede nel fatto che l'elemento fonico rappresentato da ogni segno può essere una sillaba intera per il sistema sillabico e una sola lettera per il sistema alfabetico. Il sistema sillabico, ad esempio quello giapponese, usa un capitale di oltre cinque decine di segni mentre il sistema alfabetico, più semplice, utilizza un numero esiguo di segni:  l'italiano ha ventuno lettere, il francese ventisei, l'alfabeto più complesso, quello russo, non supera le trentadue lettere.
I segni diversi stampati sul disco di Festo sono in tutto quarantacinque. Possiamo quindi senza ombra di dubbio affermare che la scrittura utilizzata era sillabica.
I segni del disco sono totalmente diversi da quelli usati nelle tre scritture egee e più in generale nelle altre scritture conosciute. Non abbiamo quindi alcun elemento a disposizione per associare la scrittura e la lingua del disco con una scrittura conosciuta e decifrata. Il disco rimane un'epigrafe isolata. Aggiungiamo a questo isolamento il fatto che la cifra di duecentoquarantadue segni stampati nell'iscrizione è troppo bassa per consentire di avanzare ipotesi credibili di decifrazione, a fortiori quando non si sa nulla del contenuto del testo.
A meno che vengano alla luce in numero cospicuo iscrizioni simili, assieme al suo fascino il disco è condannato a serbare gelosamente il suo mistero.



(©L'Osservatore Romano 7 agosto 2009)
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