Nei carmi di Damaso la celebrazione dei martiri Proto e Giacinto di cui l'11 settembre ricorre la memoria liturgica

Due fratelli campioni
degni di elogio


di Carlo Carletti

La ricerca archeologica può riservare realtà inattese, imprevedibili, talvolta clamorose. Fece epoca nel 1578 la scoperta lungo la via Salaria nova della catacomba cosiddetta anonima della via Anapo e ancor più - quattro secoli dopo - nel 1955, suscitò sorpresa e universale interesse l'improvviso rinvenimento sulla via Latina di un ipogeo di piccole dimensioni che si rivelò in senso assoluto il più ricco di pitture ad affresco (circa 150) tanto da meritarsi nella vulgata del tempo la definizione di "pinacoteca del IV secolo".
Rimase invece - ed è tuttora rimasta - nell'ambito degli specialisti la scoperta certamente inattesa, che riportò alla luce la prima, e finora unica, tomba di martire non violata e integra in tutte le sue parti:  il contesto di rinvenimento era il primo piano del vasto cimitero di Sant'Ermete o di Bassilla sulla via Salaria vetus - attuale via Bertoloni nel quartiere Parioli. Le fasi delle indagini, promosse dalla Custodia delle Reliquie del Vicariato di Roma (non c'era ancora la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra), si seguono in dettaglio nella relazione dello scopritore, il gesuita Giuseppe Marchi, che così riferisce quanto avvenne il 21 marzo 1845:  "(il fossore Giovanni Zinobili) vedendo che le tre pareti al di là dell'arco l (quelle cioè della cripta), sulle quali si solleva il lucernajo, erano tutte intorno ostruite da un muricciolo a guisa di scalino, quivi si fece a menare i primi colpi di piccone (...) Dopo poco gli si scoprì la sommità delle lettere della prima riga dp iii idvs septebr:  ai secondi colpi vide l'yacinthvs e quindi il martyr (...) In tale stato erano le cose allorché io entrai nella cripta, dove il giubilo mi si accrebbe in osservare, come la calce che il Zinobili aveva col ferro distaccata dalla pietra riteneva mirabilmente la impronta in rilievo dell'epitaffio intagliato in cavo sulla pietra stessa" (Monumenti delle arti cristiane primitive, Roma 1845, p. 239). L'iscrizione venuta alla luce non era quella di "un comune mortale" ma quella di san Giacinto, vittima, insieme a Proto - di cui però non v'è più traccia archeologica se non l'elogium damasiano e un frammento di epistilio del V secolo - della persecuzione di Diocleziano (303-304). Non diversamente dalla prassi epigrafica del tempo l'epitaffio presenta una struttura minimale:  d(e)p(ositus) III idus septe(m)br(es) | Yacinthus | martyr, "Giacinto martire, sepolto l'11 settembre" (Inscriptiones christianae urbis Romae, X, 26668). Il testo dell'iscrizione fu integralmente ripreso nel più antico santorale della chiesa romana - la depositio martyrum (anteriore al 354) - per fissare nel calendario liturgico le coordinate fondamentali indispensabili per la celebrazione del giorno anniversario:  iii idus sept(embres) (dies natalis) Proti et Iacinti in (coemeterio) Basillae.
Risparmiata, quasi miracolosamente (perché non visibile), dalle traslazioni dell'VIII-IX secolo, la tomba di Giacinto dovette però cedere, dopo quindici secoli, alla cupidigia dei "cercatori di corpi santi" (secoli XVII-XIX), i quali, nel rispetto formale delle norme canoniche del tempo, procedettero alla ricognizione, ma anche, sconsideratamente, alla traslazione delle reliquie oltre che alla rimozione della iscrizione, come rogato dal notaio Monti il 19 aprile 1845. In questa circostanza il "giubilo" del padre Marchi meglio avrebbe potuto volgersi verso l'unica soluzione praticabile, quella della conservazione in situ. Ma si decise altrimenti e il "corpo santo" fu prima recapitato in "gradito omaggio" al Collegio Urbaniano e, dopo una sequela di vicende che sconfinarono nella irriverenza se non addirittura nella profanazione, trasferito nella cappella "privata" del Collegio de Propaganda fide e, successivamente, nella nuova sede del Collegium al Gianicolo. Veniva nei fatti sconfessata una tradizione secolare che, a partire da Costantino, aveva sempre osservato un rigorosissimo e sacro rispetto per l'intangibilità delle tombe venerate. In questa area sacra del cimitero della via Salaria vetus, come in molte altre del suburbio romano, è rimasta l'impronta tangibile e inconfondibile di Papa Damaso (366-384) che qui intervenne per riportare alla luce il tumulus dei santi Proto e Giacinto, ormai non più visibile né accessibile in seguito a smottamenti del terreno e conseguenti infiltrazioni di acque. Ne rimane memoria epigrafica nell'elogium ss. Proti et Hyachinti, di cui si conserva la metà sinistra (ora nella basilica dei Santi Quattro Coronati), perfettamente integrabile con una copia del codice Vaticano Palatino 833 (secoli IX-X), che riporta una raccolta epigrafica (Sylloge) redatta nel VII-VIII secolo:  / "La tomba era rimasta nascosta sotto la frana della collina:  / Damaso la riporta in luce perché conserva corpi di martiri. La reggia più degna, quella del cielo, tiene con sé Proto; / tu, Giacinto, lo segui, giustificato dal sangue purpureo. / Furono fratelli, ambedue magnanimi. / Questo, vincitore, conquistò la palma, quello per primo la corona".
La composizione si apre con un riferimento all'intervento di risanamento, cui segue la celebrazione del meritum dei due martiri, espressa in termini sostanzialmente generici, poiché Damaso relativamente alla identità dei due santi e alla vicenda che li aveva condotti alla morte, non aveva altre informazioni se non quelle minimali - ma storicamente fondamentali - veicolate nella iscrizione ritrovata nel 1854. Di qui l'impiego di figure e tòpoi sostanzialmente generici, ma espressivi:  l'aldilà presentato come regia caeli che cattura e trattiene a sé il martire; l'accostamento - attraverso un gioco di parole onomastico (anfibologia) - tra il sanguis purpureus versato da Giacinto e, appunto, il significato del suo nome (hyacinthus), la pianta dal colore violaceo-purpureo (sanguine purpureo sequeris); infine, nel verso conclusivo, il martirio trasfigurato nella vittoria sulla morte con i termini agonistici corona e palma che, come qualificativi dell'eroe della fede, a partire da Damaso, ebbero fortuna secolare nella iconografia martiriale:  hic victor meruit palmam prior ille coronam, laddove prior, come attributo di Protus, si propone come termine rivelatore anche qui di un "gioco di parole" onomastico, funzionale a rimarcare la circostanza che il martire si chiamava Protus e per "primo" - al dire di Damaso - aveva subito il martirio.
Con espressione asseverativa che non lascia spazio a dubbi - hunc Damasus(...) monstrat - Damaso attribuisce a sé la realizzazione di un'impresa, che - seppure da lui commissionata - fu in realtà predisposta e condotta a termine dal presbitero Theodorus al tempo di Papa Siricio (384-399).
Della dedica di Teodoro rimane soltanto la parte destra, perfettamente integrabile, anche in questo caso, attraverso una copia trasmessa dal codice Vaticano Palatino 833 (secolo IX-X): 
"Guarda la scala, ti apparirà una cosa straordinaria:  / potrai infatti vedere le memorie dei santi nei loro stessi sepolcri. / Qui si trova il sepolcro di Proto e di Giacinto, / che da tempo una massa di terra e l'oscurità tenevano nascosto. / Questo lavoro sollecitamente realizzò il presbitero Teodoro, / affinché strutture più ampie potessero accogliere il popolo di Dio".
Le informazioni riportate nelle due iscrizioni - di Damaso e di Teodoro - consentono con buona approssimazione di ricostruire la sequenza degli interventi. Obiettivo prioritario era quello di offrire alla plebs dei uno spazio cultuale agevolmente accessibile e il più possibile capiente:  ut Domini plebem opera maiora tenerent. Si intervenne in prima istanza all'interno della cripta - invasa da acque e depositi franosi - dove si provvide a un rialzamento del pavimento, che se, come pare, consentì la collocazione della lastra marmorea con l'elogio di Damaso, dovette però occultare almeno in parte il sepolcro di Giacinto. La sovrastante sepoltura di Proto rimase presumibilmente visibile, ma allo stato attuale ne rimane soltanto un mutilo epistilio marmoreo non più conservato in situ, perché, come era fatale che accadesse, fu anch'esso sradicato dal suo contesto originario e consegnato al sagrista pontificio di Gregorio XVI che a sua volta lo "smistò" al Collegio Urbaniano.
Gli interventi più propriamente strutturali riguardarono l'intera area sacra con la costruzione di una scala che conduceva direttamente dal sopratterra alla cripta e la realizzazione di un lucernario che portava luce a un luogo rimasto immerso nella tenebra (caligo) per oltre un cinquantennio, cioè dagli anni dell'ultima persecuzione (303-304) fino all'età damasiana. Il richiamo iniziale alla scala di accesso - aspice descensum cernes mirabile factum / sanctorum monumenta vides patefacta sepulcris - concentra l'attenzione su una caratteristica tutta propria di questo insediamento cultuale. Richiamato dal triplice appello aspice cernes vides, il visitatore che si apprestava a scendere nella cripta, una volta giunto al pianerottolo, poteva "meravigliarsi" per la vista di un "fatto straordinario" - appunto il mirabile factum - che consisteva nella possibilità di scorgere i sepolcri dei due martiri prima ancora di giungere all'interno della cripta:  una "pre-visione" resa possibile da una apertura ricavata nella strombatura del lucernario (di cui tuttora resta traccia) che rischiarava il santuario.
Nel corso dell'ultimo decennio del IV secolo si registra un ulteriore intervento, che - si può dire - "rifinisce" quello voluto e realizzato da Damaso e Teodoro. La testimonianza è ancora un'iscrizione (ne restano due soli frammenti, ma l'intero testo è noto per tradizione indiretta), commissionata dal presbitero Leopardo, dell'entourage di Papa Siricio (384-399). Un culto ai due germani fratres si localizzò poi, all'inizio del VI secolo, anche presso la basilica Vaticana, probabilmente per la presenza di reliquie ex contactu, cioè di palliola, brandea, sanctuaria che avvicinate alle tombe o alle reliquie reali si riteneva rimanessero impregnate di santità. È quanto tramanda una iscrizione di Papa Simmaco (498-514) espressamente dedicata ai due martiri - invocati come patroni - le cui spoglie simboliche, qui definite secondo l'uso del tempo con la metafora pia corpora, furono di nuovo (rursus) deposte al di sotto di un altare, perché ai due santi si perpetuasse per sempre una lode perenne. La memoria - materialmente documentata - della solerte e rispettosa cura che la chiesa romana, nel corso di un cinquantennio, aveva riservato alla memoria del martire della via Salaria vetus, non aveva però impedito - nel 1845 - ai responsabili della Custodia delle Reliquie di procedere al doloroso "espianto". Eppure quella di Giacinto si proponeva come l'unica tomba di un eroe della fede rimasta totalmente integra tra le moltissime depredate o, comunque manomesse, nelle catacombe della città. Nella caliginosa atmosfera di un devozionismo, che finiva per negare la storia e sollecitare la deriva leggendaria, s'era anche dissolta la voce di Damaso - il cultor martyrum per eccellenza - che così aveva concluso il celeberrimo elogium posto nella "cripta dei Papi" del cimitero di Callisto:  "Qui - lo confesso - io, Damaso, avrei voluto seppellire le mie spoglie, ma ho temuto di profanare le sacre reliquie dei martiri".



(©L'Osservatore Romano 11 settembre 2009)
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