L'eco della grande stagione dell'arte ellenistica
nella pittura della Roma imperiale e nell'intera cultura occidentale

Come il Rinascimento (e forse più grande)


di Antonio Paolucci

Proviamo a immaginare per un attimo che un cataclisma globale avvenuto in secoli lontani abbia cancellato dalla faccia della Terra i capolavori della grande pittura d'Occidente di età gotica, rinascimentale e moderna. Non ci sono più Giotto e Van Eyck, Masaccio e Botticelli, non ci sono più la Sistina di Michelangelo e il Raffaello delle Stanze, spariti per sempre Caravaggio e Rembrandt, Goya e Monet, Rubens e Velasquez. Immaginate che di quegli autori e di quelle opere siano rimasti soltanto frammenti di letteratura encomiastica e, da parte di artisti vissuti secoli dopo, citazioni parziali, copie di qualità più o meno alta, revival stilistici, antologie di soggetti iconografici e di repertori tecnici.
Questo scenario fantascientifico si adatta bene al destino della grande pittura ellenistica di Polignoto e di Zeusi, di Parrasio e di Apelle. Quella che è stata con ogni probabilità la stagione pittorica più straordinaria che mai sia apparsa sotto il cielo, degna di pareggiare e forse anche di sopravanzare i capolavori del nostro Rinascimento, è andata del tutto perduta. È sopravvissuta una frazione minima della statuaria greca dei grandi secoli - i rilievi del Partenone di Fidia, per esempio - ma nulla, assolutamente nulla, dei capolavori pittorici su tavola che affascinarono Plinio.
Eppure il mondo greco delle figure e dei colori - Atlantide sommersa e non più recuperabile se non come ombra dell'ombra di uno splendore dissolto - non ha mai interrotto del tutto una qualche forma di relazione con la nostra civiltà figurativa medievale e moderna. È persino possibile (L'O di Giotto di Serena Romano, Electa, 2008) che i murali con storie francescane nella Basilica Superiore di Assisi - là dove nella scoperta del vero e nella certezza dello spazio misurabile, prende forma la moderna lingua figurativa degli italiani - accusino qualche debito (nella mise en page, nella scelta dei colori e di certi repertori decorativi) nei confronti della pittura antica.
E come dimenticare la stagione delle "grottesche"? Quando a Roma alla fine del Quattrocento e in modo del tutto casuale, si scoprono le stanze interrate e fino ad allora incognite della Domus Aurea, della Reggia di Nerone. Percorrendo pericolosi cunicoli, al lume delle torce, nell'odore di umidità e di terra smossa apparvero a giovani artisti provenienti da ogni parte d'Italia e improvvisatisi archeologi, prodigi plastici e pittorici mai visti prima. Sono candelabri, cornucopie, sfingi e mostri intrecciati, panoplie e composizioni floreali, sono stucchi in rilievo e colori di oro, di rosso, di verde, di azzurro, freschissimi come dipinti ieri perché protetti per secoli dalla luce. Si chiamano "grottesche" perché bisognava scendere nelle grotte di Roma imperiale per incontrarle. Furono subito moda, febbre, mania e furono stile destinato a dilagare nelle chiese e nei palazzi. Financo nelle Stanze di Papa Alessandro vi Borgia, dove il Pinturicchio evoca, nei suoi affreschi smaglianti e ipercolorati, il sontuoso paradiso cromatico degli imperatori romani.
Tutto questo per dire che la grande pittura greca, perduta negli originali, elaborata tuttavia e reinterpretata dalle botteghe romane di primo secolo, nei laboratori dei mitici Studius e Fabellus, divulgata in tutto l'ecumene mediterraneo da artisti e artigiani delle più varie culture e provenienze, non ha mai cessato di essere presente, magari soltanto per intuizione e premonizione, alla storia artistica d'Occidente.
Ed ecco allora la mostra dedicata alla Pittura Romana antica che si inaugura il 23 settembre alle Scuderie del Quirinale. Come scrive Eugenio La Rocca, questa non vuole essere una antologia dei tesori di Pompei e di Ercolano. Né vuole riproporre lo studio della casa romana così come ci è stata consegnata "in originale" nell'area archeologica vesuviana e come la conosciamo, in letteratura, dalle pagine di Petronio e di Apuleio.
Altro è lo scopo che i curatori si sono proposti. È uno scopo che può essere riassunto in queste parole:  "esaminare analiticamente singoli frammenti di affreschi, pitture su legno o su vetro, cercando di misurarne, in base alle tecniche artistiche, alle composizioni, ai soggetti, il livello formale cui era giunta la pittura nel mondo romano, dal i secolo prima dell'era cristiana alle soglie del tardo-antico e dell'età bizantina".
Una mostra di impianto strettamente filologico quindi, che si propone il raggiungimento di obiettivi saldamente storici. Ciò che interessa di più è la persistenza della memoria dell'antico (dai ritratti del Fayyum alle prime icone cristiane del Sinai e si veda in proposito il saggio in catalogo di Jas Elsner "Verso il medioevo"); è lo studio delle tendenze e delle varianti che attraversano l'universo pittorico romano, dalla repubblica al tardo impero; è l'analisi dei procedimenti, delle tecniche, delle tradizioni di bottega, spiegate da Barbara Bianchi.
La casa affrescata romana come fulcro principale degli scambi sociali, come "consumo esibito" (Andrew Wallace-Hadrill); la domus come teatro in atto, come "spazio concluso" (Serena Ensoli); lo "sguardo interiore" nella ritrattistica funeraria dell'Egitto romano (Barbara Borg); il minuzioso umile naturalismo presente nei soggetti di genere della pittura romana, così importante per la storia moderna della natura morta (Stefano De Caro); la rappresentazione dei miti (Paul Zanker, Massimiliano Papini) e quella dei temi feriali e popolari (Stefano Tortorella).
Semplicemente elencando i temi dei saggi in catalogo, mi accorgo che  raramente una esposizione di arte antica è riuscita a raccogliere un parterre altrettanto cospicuo di illustri studiosi toccando una così sfaccettata pluralità di profili specialistici.
Mostre come questa regalano emozione e stupore e contribuiscono, allo stesso tempo, alla crescita degli studi e dunque alla migliore conoscenza, valorizzazione e tutela del patrimonio.



(©L'Osservatore Romano 23 settembre 2009)
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