CONGREGAZIONE PER IL CULTO DIVINO E LA DISCIPLINA DEI SACRAMENTI "NOTITIAE" 2015/2 Per riscoprire il «Rito della Penitenza» L’interesse suscitato dal Giubileo della Misericordia ha trovato espressione in molteplici modi. Anche la rivista Notitiae ha inteso contribuire con una serie di articoli volti a far risaltare nelle azioni liturgiche la portata della misericordia di Dio annunciata, celebrata, vissuta. Se tutta l’economia sacramentale è pervasa di misericordia divina, a cominciare dal battesimo «per la remissione dei peccati», l’opera riconciliatrice di Dio è in particolare elargita e manifestata continuamente nel sacramento della Penitenza[1]. Perciò, nella Bolla di indizione del Giubileo Misericordiae vultus, il Papa ha chiesto di porre al centro con convinzione «il sacramento della Riconciliazione, perché permette di toccare con mano la grandezza della misericordia» (MV 17). Celebrare la misericordia di Dio aiuta l’uomo a porsi con onestà di fronte alla propria coscienza e a riconoscersi bisognoso di essere riconciliato con il Padre, che con pazienza sa attendere il peccatore per un abbraccio che lo reintegra nella sua dignità. Riconoscere i propri peccati e pentirsi non è un’umiliazione. Al contrario è riscoprire il vero volto di Dio, abbandonandosi con fiducia al suo disegno di amore, e al tempo stesso riscoprire il vero volto dell’uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio. Riscoprire Colui che è origine e fine della propria vita è il frutto più bello della misericordia che si sperimenta nel sacramento della Penitenza. In questo spirito, si desidera qui offrire delle riflessioni sull’Ordo Paenitentiae, sostando anzitutto su alcuni aspetti teologico-liturgici e, quindi più ampiamente, sulla dinamica celebrativa del Rito stesso. È assai educativo riprendere in mano questo libro liturgico, rileggerne i Praenotanda, accostarne testi e gesti, assimilare gli atteggiamenti suggeriti, comprendere in breve come la Chiesa dispensa, attraverso riti e preghiere, la Misericordia di Dio. 1. CONTRIZIONE E CONVERSIONE DEL CUORE Il 2 dicembre 1973 venne promulgato l’Ordo Paenitentiae, che in ossequio al mandato conciliare ha rivisto rito e formule «in modo che esprimano più chiaramente la natura e l’effetto del sacramento» (SC 72). A distanza di alcuni decenni si deve però constatare che spesso sono ignorati, forse perché giudicati inopportuni o troppo gravosi, alcuni suggerimenti celebrativi, che pur non essenziali alla validità del sacramento, costituiscono una ricchezza per una celebrazione nella quale si attua quella piena, consapevole e attiva partecipazione di ministro e fedeli, alla quale «va dedicata una specialissima cura nel quadro della riforma e della promozione della liturgia» (SC 14). Perdita del senso del peccato In ogni parte del mondo, come confermato in occasione delle Visite ad limina, molti vescovi denunciano con preoccupazione una perdurante disaffezione di fedeli e sacerdoti al sacramento della Riconciliazione. Alla radice vi è senza ombra di dubbio un disorientamento, al di là di un generico riconoscersi peccatori, nell’individuare la natura del peccato e quindi nel confessarlo invocando il perdono di Dio. Già più di cinquant’anni fa, il beato Paolo VI osservava in una sua omelia: «Voi non troverete più nel linguaggio della gente perbene di oggi, nei libri, nelle cose che parlano degli uomini, la tremenda parola che, invece, è tanto frequente nel mondo religioso, nel nostro, segnatamente in quello vicino a Dio: la parola peccato. Gli uomini, nei giudizi odierni, non sono più ritenuti peccatori. Vengono catalogati come sani, malati, bravi, buoni, forti, deboli, ricchi, poveri, sapienti, ignoranti; ma la parola peccato non si incontra mai. E non torna perché, distaccato l’intelletto umano dalla sapienza divina, si è perduto il concetto del peccato. Una delle parole più penetranti e gravi del Sommo Pontefice Pio XII di v. m., risulta questa: “il mondo moderno ha perduto il senso del peccato”; che cosa sia, cioè, la rottura dei rapporti con Dio, causata appunto dal peccato»[2]. L’Anno giubilare della Misericordia può essere un tempo propizio per ricuperare il vero senso del peccato alla luce del sacramento del perdono, avendo presente che esso si inscrive nel quadro della dialettica tra il mistero del peccato dell’uomo e il mistero della infinita misericordia di Dio che pervade tutta la storia biblica. Conversione del cuore Per riscoprire il pieno valore del Rito della Penitenza[3] occorrerebbe rivalutare, tra l’altro, alcuni elementi del retroterra teologico del sacramento così come possono essere letti nei Praenotanda al rito stesso. «Il peccato è offesa fatta a Dio e rottura dell’amicizia con lui; scopo quindi della penitenza è essenzialmente quello di riaccendere in noi l’amore di Dio e di riportarci pienamente a lui» (RP 5). D’altra parte, il peccato di uno solo reca danno a tutti, «e così la penitenza ha sempre come effetto la riconciliazione anche con i fratelli» (RP 5). Non si può dimenticare, poi, che l’esperienza sacramentale esige anzitutto l’accoglienza dell’invito preciso con cui Gesù ha aperto il suo ministero: «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo» (Mc 1,15). Il concilio di Trento enumera quattro atti della penitenza: tre atti del penitente (contrizione, confessione, soddisfazione) e l’assoluzione data dal ministro e considera quest’ultima la parte più importante del sacramento[4]. Il Rito della Penitenza riprende la dottrina di Trento mettendo in particolare evidenza gli atti del penitente, tra i quali il primo e più rilevante è la contrizione o «l’intima conversione del cuore» (RP 6). Ne è modello il figliol prodigo, che con cuore contrito e pentito decide di ritornare alla casa di suo padre. Il sacramento viene spiegato in diretta continuità con l’opera di Cristo, dato che egli annunciava la metanoia come condizione per accedere al Regno. In assenza della conversione/metanoia, vengono meno per il penitente i frutti del sacramento, poiché: «dipende da questa contrizione del cuore la verità della penitenza» (RP 6). Si noti che i Praenotanda, pur citando il testo tridentino che intende la contrizione come dolore dell’animo e riprovazione del peccato commesso, interpreta la contrizione nel senso più ricco e biblico di conversione del cuore: «La conversione infatti deve coinvolgere l’uomo nel suo intimo, così da rischiarare sempre più il suo spirito e renderlo ogni giorno più conforme al Cristo» (RP 6). Nell’antropologia globale e concreta della Bibbia, il cuore dell’uomo è la fonte stessa della sua personalità cosciente, intelligente e libera, il centro delle sue opzioni decisive e dell’azione misteriosa di Dio. Il giusto cammina con «cuore innocente» (Sal 101,2), ma «dal cuore degli uomini escono i propositi di male» (Mc 7,21). Perciò Dio non disprezza «un cuore contrito e affranto» (Sal 51,19). Il cuore è il luogo in cui l’uomo incontra Dio. Il cuore nel linguaggio biblico indica la totalità della persona umana, a differenza delle singole facoltà e dei singoli atti della persona stessa; il suo essere intimo e irrepetibile; il centro dell’esistenza umana, la confluenza di ragione, volontà, temperamento e sensibilità, in cui la persona trova la sua unità e il suo orientamento interiore, della mente e del cuore, della volontà e dell’affettività. Come afferma il Catechismo della Chiesa Cattolica, «la tradizione spirituale della Chiesa insiste anche sul cuore nel senso biblico di ‘profondità dell’essere’, dove la persona si decide o no per Dio» (n. 368). Il cuore è quindi l’animo indiviso con cui amiamo Dio e i fratelli. La conversione del cuore non è solo l’elemento principale, è anche quello che unifica tra loro tutti gli atti del penitente costitutivi del sacramento, dato che ogni singolo elemento è definito in ordine alla conversione del cuore: «Questa intima conversione del cuore, che comprende la contrizione del peccato e il proposito di una vita nuova, il peccatore la esprime mediante la confessione fatta alla Chiesa, la debita soddisfazione, e l’emendamento della vita» (RP 6). La conversione del cuore non è quindi da intendersi come un singolo atto, a sé stante, compiuto una volta per tutte, ma come un risoluto distacco dal peccato per un cammino progressivo e continuo di adesione a Cristo e di amicizia con lui. Le sequenze del Rito della Penitenza sono per così dire l’espressione dei vari momenti o tappe di un cammino che non si esaurisce nel momento della celebrazione del sacramento, ma informa tutta la vita del penitente. In questo contesto, sono da valorizzare le celebrazioni penitenziali non sacramentali. Infatti, se alla base del sacramento della Penitenza sta la conversione del cuore, è necessario dare il massimo rilievo a tali celebrazioni che, come leggiamo nei Praenotanda, «sono riunioni del popolo di Dio, allo scopo di ascoltare la proclamazione della parola di Dio, che invita alla conversione e al rinnovamento della vita, e annuncia la nostra liberazione dal peccato, per mezzo della morte e risurrezione di Cristo» (RP 36). Queste celebrazioni non sacramentali si pongono quindi a monte e a valle della celebrazione del sacramento della Penitenza, poiché la conversione del cuore presuppone la conoscenza di ciò che è peccato e quindi dei peccati commessi. Ricordiamo il ruolo che la parola di Dio ha avuto nella conversione di sant’Agostino: «… Domine, amo te. Percussisti cor meum verbo tuo, et amavi te»[5]. All’amore misericordioso di Dio si risponde con l’amore. Il ministro del Sacramento È importante anche considerare il ruolo del ministro del sacramento che, secondo la Bolla Misericordiae vultus, dovrebbe essere «vero segno della misericordia del Padre» (MV 17). Anch’egli, essendo peccatore, non dimentica di farsi penitente sperimentando nel sacramento la gioia del perdono. La tradizione cattolica ha individuato quattro figure per esprimere il compito proprio del sacerdote confessore. Egli è dottore e giudice – per indicare la oggettività della legge –, ma è anche padre e medico – per richiamare la carità pastorale verso il penitente. Diverse epoche storiche e diverse tendenze teologiche hanno sottolineato ora l’una ora l’altra di queste figure. Il concilio di Trento afferma che i sacerdoti esercitano la funzione di rimettere i peccati «come ministri di Cristo», compiendo questo loro compito «a guisa di un atto giudiziario» (ad instar actus iudicialis)[6]. Anche il Rito della Penitenza parla del confessore come giudice e medico, quando dice: «Per svolgere bene e fedelmente il suo ministero, il confessore deve saper distinguere le malattie dell’anima per apportarvi i rimedi adatti, ed esercitare con saggezza il suo compito di giudice» (RP 10). Più avanti si sottolinea poi che il «confessore svolge un compito paterno, perché rivela agli uomini il cuore del Padre, e impersona l’immagine di Cristo, buon Pastore» (RP 10). Il confessore è testimone della misericordia di Dio verso il peccatore pentito[7]. Nell’Antico Testamento, la misericordia è il sentimento compassionevole e anche materno di Dio per le sue creature nonostante le loro infedeltà (cf. Es 34,6; Sal 51,3; Sal 131; Ger 12,15; 30,18). Nel Nuovo Testamento, Gesù è presentato come il «sommo sacerdote misericordioso e degno di fede nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo» (Eb 2,17). Il Catechismo della Chiesa Cattolica riassume molto bene tutti questi compiti del confessore quando afferma: «Celebrando il sacramento della Penitenza, il sacerdote compie il ministero del Buon Pastore che cerca la pecora perduta, quello del Buon Samaritano che medica le ferite, del Padre che attende il figlio prodigo e lo accoglie al suo ritorno, del giusto Giudice che non fa distinzione di persona e il cui giudizio è ad un tempo giusto e misericordioso. Insomma, il sacerdote è il segno e lo strumento dell’amore misericordioso di Dio verso il peccatore» (n. 1465). Le formule e i gesti rituali della celebrazione del sacramento fanno trasparire la presenza misericordiosa del Padre, il dono oblativo del Figlio, l’amore purificante e risanante dello Spirito Santo. Il confessore deve diventare l’espressione e il mezzo umano di questo amore, che attraverso di lui si effonde sul penitente e lo conduce nuovamente alla vita, alla speranza, alla gioia. Le riflessioni fin qui esposte trovano la loro concreta attuazione nella celebrazione stessa del sacramento, che per ritus et preces conduce per mano penitenti e ministri nell’esperienza della misericordia di Dio. Infatti, ogni celebrazione del sacramento è un “Giubileo della Misericordia”. Vi sono altri ambiti di carattere spirituale, disciplinare, pastorale connessi alla celebrazione del sacramento, non considerati in queste riflessioni ma meritevoli di attenzione. Si pensi ad es. alla cura da prestare alla formazione permanente del clero, come a quella iniziale nei seminari e negli istituti di formazione. Come altresì all’osservanza della disciplina circa le assoluzioni collettive (cf. CIC can. 961-963), e al porre attenzione ai rischi riguardo alla discrezione e al riserbo, alla protezione dell’anonimato e della segretezza, minacciati oggi dalla facile e sacrilega intercettazione, registrazione e diffusione del contenuto della confessione (cf. CIC can 983). 2. PER UNA MISTAGOGIA DELL'ORDO PAENITENTIAE Nel fermare la nostra attenzione sulla lettura mistagogica del «Rito per la riconciliazione dei singoli penitenti» (cap. I) si deve tener presente la dimensione ecclesiale del sacramento, messa maggiormente in luce nel capitolo II: «Rito per la riconciliazione di più penitenti con la confessione e l’assoluzione individuale». La natura profondamente personale del sacramento della Penitenza si associa strettamente a quella ecclesiale, essendo un atto che riconcilia con Dio e con la Chiesa (cf. CCC 1468-1469). In questa prospettiva i Praenotanda affermano che «la celebrazione comune manifesta più chiaramente la natura ecclesiale della penitenza» (RP 22). Secondo il dettato conciliare, infatti, «le azioni liturgiche non sono azioni private, ma celebrazione della Chiesa […]. Perciò appartengono all’intero Corpo della Chiesa, lo manifestano e lo implicano» (SC 26). L’Anno giubilare della Misericordia rappresenta una significativa opportunità, per le comunità diocesane e parrocchiali, di riscoprire il «Rito per la riconciliazione di più penitenti con la confessione e l’assoluzione individuale»[8]. Le sequenze rituali che troviamo in questo secondo capitolo del Rito della Penitenza aiutano a mettere in luce due importanti aspetti della natura ecclesiale della sua celebrazione. Innanzitutto l’ascolto della parola di Dio, che assume la struttura di una Liturgia della Parola, quindi di un vero e proprio atto di culto (cf. SC 56). Qui l’annuncio evangelico della misericordia e il richiamo alla conversione risuonano in una assemblea nella quale «i fedeli ascoltano tutti insieme la parola di Dio, che proclama la sua misericordia e li invita alla conversione, confrontando la loro vita con la parola stessa, e si aiutano a vicenda con la preghiera» (RP 22). L’apostolo Giacomo infatti invita: «Confessate perciò i vostri peccati gli uni gli altri e pregate gli uni per gli altri per essere guariti» (Gc 5,16). Se sono importanti l’ascolto della Parola che “folgora il cuore” e il reciproco sostegno nella preghiera, non lo sono meno la lode e il rendimento di grazie con i quali si conclude il rito (cf. RP 29). Infatti «dopo che ognuno ha confessato i suoi peccati e ha ricevuto l’assoluzione, tutti insieme lodano Dio per le meraviglie da lui compiute a favore del popolo, che egli si è acquistato con il sangue del Figlio suo» (RP 22). Questi sintetici accenni al capitolo II del Rito della Penitenza mettono in luce la dinamica sociale nonché personale del peccato come della conversione. La dimensione ecclesiale e personale si fondono, in modo molto particolare, in questo sacramento, evidenziando che «la penitenza non può essere intesa come puramente interiore e privata. Per il fatto di essere (e non: benché sia) un atto personale, essa assume pure una dimensione sociale. Si tratta d’un punto di vista che ha la sua importanza per la giustificazione dell’aspetto tanto ecclesiale quanto sacramentale della Penitenza»[9]. Percorriamo ora le sequenze rituali del capitolo I: «Rito per la riconciliazione dei singoli penitenti» al fine di favorire non solo una rinnovata comprensione del sacramento, ma soprattutto una sua più autentica celebrazione, consapevoli che negli atti del penitente e del sacerdote, nei gesti e nelle parole, viene comunicata la grazia del perdono. Proprio perché mens concordet voci è necessaria una degna celebrazione, nella convinzione dell’importanza della forma rituale, perché nella liturgia la parola precede l’ascolto, l’azione plasma la vita[10]. Accoglienza del penitente La rubrica n. 41 del Rito indica come il penitente debba essere accolto: «Quando il penitente si presenta per fare la sua confessione, il sacerdote lo accoglie con bontà e lo saluta con parole affabili e cordiali». Questa è la soglia che introduce nell’azione rituale. Il Rito della Penitenza si preoccupa che il ministro del sacramento, rappresentante di Cristo, faccia in modo che questo momento iniziale sia vissuto dal penitente nel modo più facile e fiducioso possibile. Tutti sappiamo quanto può essere difficile accostarsi alla confessione. Quando però si riesce a compiere il primo passo, la grazia è già all’opera. Per questo il sacerdote è chiamato a ricevere chi si presenta con lo stesso atteggiamento del padre del figliol prodigo, che corre incontro al figlio pentito appena lo vede da lontano. I sacerdoti devono prepararsi a svolgere questo ministero consapevoli di rappresentare Cristo che, in questa parabola, svela a noi il volto del Padre celeste che fa festa e si rallegra per chi ritorna a lui (cf. Lc 15,11-32). L’esordio del Rito della Penitenza ci aiuta a capire che Dio Padre celebra un “Giubileo” ogni volta che un peccatore si presenta per questo sacramento: «Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione» (Lc 15, 7). Dopo essere stato accolto, il penitente si fa il segno della croce, dicendo: «Nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo» (RP 42). E’ un atto di fede distintivo del cristiano[11]. Questa apertura è importante per una ragione sia pratica che teologica. Tale familiare segno rituale, unito alle parole, sottolinea il momento in cui la liturgia ha davvero inizio. Anche nel suo coronamento mediante l’assoluzione sacramentale, sarà presente il segno della croce. La formula trinitaria mentre fa memoria del Battesimo, in cui siamo rinati alla vita divina, ci orienta alla celebrazione dell’Eucaristia, che conserva, accresce e rinnova in noi la vita di grazia. Questo momento rituale apre progressivamente a ciò che segue. Il sacerdote non deve semplicemente dire al penitente: “Ora dimmi i tuoi peccati”. Le sue parole di accoglienza dovrebbero invece stabilire subito un’atmosfera di profonda serietà, e al tempo stesso suscitare la fiducia in Dio. Il sacerdote dice: «Il Signore, che illumina con la fede i nostri cuori, ti dia una vera conoscenza dei tuoi peccati e della sua misericordia» (RP 42). Quanto forti e dolci risuoneranno tali parole nel cuore del penitente se il sacerdote le pronuncia con convinzione e dal profondo del cuore, cosciente del ministero che l’ordinazione lo ha abilitato a compiere! Il paragrafo 42 contiene anche formule alternative per l’inizio rituale, tutte molto ricche di risonanze bibliche e teologicamente pregnanti. A tali formule, che in modo diverso ravvivano la fiducia nella misericordia di Dio offerta nel sacramento, ci si potrebbe ispirare nella predicazione e nella catechesi per invitare a celebrarlo con gioia, serietà e serenità. Pensiamo, ad esempio, all’impatto che ha sul penitente il sentirsi rivolgere dal sacerdote le parole del profeta Ezechiele: «Accostati con fiducia a Dio Padre: egli non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva» (cf. 33,11). Qui il sacerdote parla con l’autorità della parola di Dio e non semplicemente con sue parole di circostanza. Lettura della Parola di Dio Anche se la sacra Scrittura risuona già nelle differenti formule di invito alla confessione dei peccati, il rito continua con l’ascolto della parola di Dio. Benché nel Rituale ciò sia “ad libitum”, l’ometterlo dovrebbe avvenire solo in caso di vero impedimento. Nell’economia del Rito della Penitenza, la proclamazione della parola di Dio appare come un momento importante della celebrazione (cf. RP 17). I passi scritturistici offerti sono infatti caratterizzati da espressioni che annunciano la misericordia di Dio ed invitano alla conversione (cf. RP 43). Il Rituale suggerisce dodici passi biblici (cf. RP 43) e ancora letture alternative (cf. RP 67-167), ma si può ricorrere anche ad altri testi della sacra Scrittura che il sacerdote o il penitente ritengono adatti. Nella forma rituale, la precedenza data all’ascolto della parola di Dio richiama il fatto che quanto viene proclamato si compie, qui e ora, nella celebrazione. Quanto viene annunciato è sperimentato dal penitente con assoluta novità e freschezza, perché la Parola risuona arricchita di nuovo significato, grazie al momento sacramentale che egli vive con fede. Il Giubileo della Misericordia è occasione propizia affinché sacerdoti e fedeli valorizzino davvero il ricorso alla parola di Dio. Nei singoli brani biblici proposti dal Rituale i sacerdoti potranno riscoprire la grandezza del ministero loro affidato e i penitenti scorgere con stupore la luce che li guida all’incontro con Cristo nel sacramento. Ad esempio, la scelta del brano di Ezechiele 11,19-20 (cf. RP 43), permette al penitente di sentire che proprio a lui è rivolto l’oracolo divino: «Darò loro un cuore nuovo e uno spirito nuovo metterò dentro di loro; toglierò dal loro petto il cuore di pietra e darò loro un cuore di carne…». Quando il penitente si rende conto che tale promessa è fatta proprio a lui, in questo momento, il suo cuore può aprirsi alla consolazione e alla fiducia e confessare i suoi peccati. Se è invece adottato il passo di Marco 1,14-15 (cf. RP 43), sia il sacerdote che il penitente, sperimentano che Cristo stesso è presente, qui e ora, per annunciare con forza a chi si confessa: «Il regno di Dio è vicino; convertiti e credi al vangelo». La risposta alla presenza di Cristo e alle sue parole sarà la confessione dei peccati. Oppure, con la scelta del passo di Luca 15,1-7 (cf. RP 43), il penitente dovrebbe comprendere che anche per lui Gesù si difende dalle accuse di mangiare con i peccatori. Infatti, nella celebrazione, Gesù sta accanto al penitente — un peccatore — e dichiara di voler ristabilire la comunione con lui, di ricercarlo come fa il pastore con la pecora smarrita. La parola di Dio non sta forse qui annunciando un Giubileo della Misericordia, dandoci il coraggio di confessare i nostri peccati con speranza e fiducia? Confessione dei peccati e accettazione della soddisfazione Il momento rituale successivo è una parte essenziale della celebrazione sacramentale: la confessione dei peccati da parte del penitente e l’accettazione di un atto di soddisfazione propostogli dal sacerdote (cf. RP 44). Meritano di essere sottolineati alcuni aspetti circa la valenza rituale della confessione e la forma che assume. Diversamente da altri momenti, qui non vengono indicati testi o parole da proferire, ma il penitente è chiamato a confessare i propri peccati. Ciò che ha ritualmente preceduto, soprattutto la proclamazione della parola di Dio, mostra che la confessione dei peccati non trae origine solo dall’iniziativa del penitente. In verità, si radica nella grazia di aver ascoltato la parola di Dio, col risultato di sentirsi mossi al pentimento e alla contrizione. Anche se a questo momento non sono prescritti testi specifici, sono tuttavia le rubriche, redatte con cura, ad esprimerne il profondo significato teologico. Non si tratta semplicemente, da parte del penitente, di dire a voce alta un elenco di peccati che cade nel vuoto, come se non fosse presente nessuno. Ci si confessa davanti al sacerdote. Da parte sua, il sacerdote è esortato a entrare in profonda relazione con chi si confessa: «Il sacerdote aiuta, se necessario, il penitente a fare una confessione integra, gli rivolge consigli adatti» (RP 44). Questo passaggio continuo dal penitente al sacerdote, non è altro che la forma rituale che opera l’incontro del penitente con Cristo attraverso il sacerdote. Perciò il confessore viene invitato ad aiutare il penitente a cogliere il senso profondo di questo incontro: «Egli [il sacerdote] lo esorta [il penitente] alla contrizione dei suoi peccati, ricordandogli che per mezzo del sacramento della Penitenza il cristiano muore e risorge con Cristo, e viene così rinnovato nel mistero pasquale» (RP 44). è un elemento teologico essenziale per comprendere correttamente il sacramento. Tutto ciò che in esso avviene si radica nel mistero pasquale. Il penitente viene rinnovato secondo l’originale modello del battesimo, dove muore con Cristo al peccato e risorge con lui a vita nuova. è auspicabile che, aiutati dall’Anno giubilare, sia i sacerdoti che i penitenti possano celebrare questo sacramento con maggiore consapevolezza di quanto sia profondo questo incontro. Ricordiamo le forti parole di san Giovanni Paolo II nella sua prima enciclica Redemptor hominis: «La Chiesa, osservando fedelmente la plurisecolare prassi del sacramento della Penitenza - la pratica della confessione individuale, unita all'atto personale di dolore e al proposito di correggersi e di soddisfare - difende il diritto particolare dell’anima umana. È il diritto ad un più personale incontro dell’uomo con Cristo crocifisso che perdona, con Cristo che dice, per mezzo del ministro del sacramento della Riconciliazione: “Ti sono rimessi i tuoi peccati”; “Va’, e d’ora in poi non peccare più”» (n. 20). è inusuale e molto incisivo che il Papa definisca un “diritto” umano l’incontro tra penitente e sacerdote. Con questo si riferisce a qualcosa che sta nel profondo del cuore ferito dell’umanità peccatrice. Parlando del Redentore dell’uomo afferma che ogni persona desidera un incontro intenso, personale con Cristo, «con Cristo crocifisso che perdona». La struttura liturgica del sacramento intende dare forma a questo desiderio e soddisfarlo. Dopo che il penitente ha confessato i propri peccati, «il sacerdote gli propone un esercizio penitenziale e il penitente l’accetta in soddisfazione dei suoi peccati e per l’emendamento della sua vita» (RP 44). In questo modo la rubrica sottolinea di nuovo il significato dell’intenso incontro e scambio tra sacerdote e penitente. In tutto ciò che fa’, il sacerdote è spinto ad «adattarsi in tutto, sia nelle parole che nei consigli, alla condizione del penitente» (RP 44). Qui e ora, il penitente si incontra «con Cristo crocifisso che perdona», e che indica anche la strada per l’emendamento e un nuovo stile di vita. Preghiera del penitente Il sacerdote continua il dialogo con il penitente invitandolo«a manifestare la sua contrizione» con una preghiera (RP 45). Ciò porta nuovamente in primo piano la dimensione liturgica del sacramento. Il rito richiede di manifestare chiaramente la contrizione in forma di preghiera, offrendo una vasta possibilità di formule. Sono infatti offerte dal Rituale dieci possibili preghiere (cf. RP 45). Anche se, come per le pericopi bibliche, in ogni celebrazione ne viene adottata soltanto una, il meditare tutti i singoli testi proposti potrà aiutare a scorgere le molte facce della pietra preziosa incastonata in questo momento del sacramento. La meditazione aiuterà le persone a prepararsi alla confessione e a pronunciare, con tutto il cuore, tali parole durante la celebrazione sacramentale. La prima formula offerta da RP 45 è una tradizionale preghiera che molti conoscono come “Atto di dolore”. Ha superato la prova dei secoli e forse non ha bisogno di commento. Il Giubileo è comunque l’occasione per evidenziare le parole e la profondità teologica con cui questa preghiera si chiude nella formulazione latina. Chi prega supplica: «Per merita passionis Salvatoris nostri Iesu Christi, Domine, miserere». La Misericordia che celebriamo si radica nei meriti della Passione di Gesù Cristo. Le altre opzioni offerte (cf. RP 45) sono tutte chiaramente ispirate alla sacra Scrittura. Infatti, le prime due mettono direttamente sulle labbra del penitente alcuni versetti dei Salmi: «Ricordati, Signore, del tuo amore, della tua fedeltà che è da sempre…» (Sal 24,6-7). Oppure: «Lavami, Signore, da tutte le mie colpe…» (Sal 50, 4-5). In risposta all’invito del sacerdote a manifestare la propria contrizione, il penitente pronuncia le stesse parole usate per millenni da Israele e dalla Chiesa. Pregando oggi tali formule, i penitenti sperimentano che la loro storia di peccato e il perdono di Dio sono parte del grande dramma narrato dalle pagine della Bibbia. Il dramma del peccato e del perdono continua ora nelle nostre esistenze, e le medesime preghiere suscitate dallo Spirito illuminano perfettamente questo momento. Lo stesso si può dire della preghiera che mette sulle labbra del penitente le parole che il figliol prodigo rivolge al padre appena tornato a casa: «Padre, ho peccato contro di te, non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Abbi pietà di me peccatore» (RP 45). Incoraggiati dalla parabola a non avere paura e mossi a contrizione, i penitenti manifestano la conversione del cuore pronunciando le parole del figlio che ritorna con fiducia alla casa paterna. Altra formula di particolare valore è una preghiera indirizzata a ogni Persona della Trinità, con immagini tratte dal Nuovo Testamento, così che i penitenti possano riconoscersi in esse (cf. RP 45). La preghiera è rivolta anzitutto al «Padre santo» e utilizza nuovamente le parole del figliol prodigo, introdotte da un esplicito riferimento alla parabola: «…come il figliol prodigo…». Poi si indirizza a «Cristo Gesù, Salvatore del mondo», e il penitente invoca che avvenga per lui ora ciò che avvenne per il buon ladrone quando le porte del paradiso gli furono aperte mentre Gesù stava morendo. Il penitente fa proprie le stesse parole del malfattore pentito: «Ricordati di me nel tuo regno». L’ultima invocazione è rivolta allo Spirito Santo, chiamato «sorgente di pace e d’amore». Il penitente chiede allo Spirito: «Fa’ che purificato da ogni colpa e riconciliato con il Padre io cammini sempre come figlio della luce». Il Rituale offre al penitente anche altre formule che non commentiamo. E’ tuttavia auspicabile che, spinti anche dall’Anno Giubilare, tutte siano meglio conosciute e usate. Con esse impariamo a pregare con le stesse parole e immagini della Scrittura, esprimendo la nostra contrizione e chiedendo perdono. Con esse impariamo che pure noi siamo coinvolti nei mirabili eventi di misericordia narrati nella Bibbia. Come il pubblicano lodato da Gesù nella parabola, anche noi ci battiamo il petto e preghiamo: «Signore Gesù, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore» (RP 45, ispirato a Lc 18, 13-14). Assoluzione Nel Rito della Penitenza la preghiera del penitente e l’assoluzione del sacerdote figurano sotto un unico titolo. Le abbiamo distinte per facilitarne un commento, senza però scordare che è importante cogliere il profondo legame tra i due momenti. Nella preghiera a Dio il penitente esprime la contrizione e chiede la misericordia. L’immediata risposta a tale supplica arriva prontamente da Dio attraverso il ministero del sacerdote. L’atmosfera liturgica si intensifica. Il sacerdote stende le mani sul capo del penitente e inizia a pronunciare le parole. Questo gesto deve essere compiuto con la stessa attenzione e intensità di ogni altro gesto simile presente in un’azione liturgica. Il penitente dovrà essere in grado di percepire, attraverso il cambio di postura del corpo e il gesto del sacerdote, che si sta per compiere un atto sacramentale solenne. Le mani stese indicano che tutta la misericordia di Dio — invisibile ma immensamente potente e presente — sta per riversarsi ora sul penitente contrito. Anche le parole pronunciate dal sacerdote per l’assoluzione meritano giusta attenzione. Per quanto brevi, hanno un ricco valore teologico ed esprimono il significato centrale del sacramento. Il Rito della Penitenza elenca chiaramente gli elementi teologici essenziali della formula (cf. RP 19). Anzitutto va notata l’evidente struttura trinitaria. La riconciliazione, elargita nel sacramento, viene da Dio, chiamato «Padre di misericordia», ed esprime ciò che egli ha già compiuto: «Dio, Padre di misericordia, che ha riconciliato a sé il mondo». Tale riconciliazione si è attuata «nella morte e risurrezione del suo Figlio», che la formula pone in relazione immediata con l’effusione dello «Spirito Santo per la remissione dei peccati». In questa prima parte della formula si trova l’anamnesi liturgica, viene cioè ricordata, proclamata e annunciata la morte e risurrezione di Gesù. L’anamnesi è espressa in termini trinitari e con un linguaggio che indica chiaramente l’importanza di questo solenne atto di Dio che si sta ora per compiere in favore del penitente. Dio ha riconciliato a sé il mondo e ha effuso su di noi lo Spirito Santo per la remissione dei peccati. La formula continua quindi al tempo presente, e il sacerdote si rivolge direttamente al penitente. Tale passaggio dal passato al presente, indica che il grande evento operato da Dio nel mistero pasquale si riversa, con tutti i suoi frutti, su questo particolare penitente, qui e ora, per mezzo delle parole del sacerdote. Allo stesso tempo la formula esplicita che quanto Dio sta operando riveste una forte dimensione ecclesiale «per il fatto che la riconciliazione con Dio viene richiesta e concessa mediante il ministero della Chiesa» (RP 19). Rivolgendosi al penitente il sacerdote dice anzitutto: «Dio ti conceda il perdono e la pace». è un linguaggio che si caratterizza come invocazione o benedizione; il verbo è un congiuntivo con valore ottativo (tribuat), caratteristico di molte invocazioni e benedizioni della Chiesa, sempre efficaci. Quindi il linguaggio cambia stile e il sacerdote continua pronunciando ciò che il Rituale chiama «le parole essenziali» (RP 19). Rivolto direttamente al penitente, tracciando il segno della croce, dice: «Io ti assolvo dai tuoi peccati, nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo». Con le parole: «Io ti assolvo», il sacerdote mostra di agire in persona Christi. Attraverso i gesti e le parole del sacerdote, in virtù del potere dato da Cristo alla Chiesa di perdonare i peccati (cf. Gv 20,23), il peccatore viene restituito all’innocenza originale del battesimo. Il penitente vede realizzato in questo modo il proprio desiderio di incontro personale e profondo con Cristo, crocifisso e pronto al perdono. Il Signore è venuto e ha incontrato quel peccatore, in quel momento chiave della sua vita, segnato dalla conversione e dal perdono. Un tale incontro costituisce la vera essenza del Giubileo della Misericordia, un giubileo per i peccatori pentiti e un giubileo per Cristo stesso! Rendimento di grazie e congedo del penitente Le leggi del linguaggio rituale impongono che un momento così intenso e ricco, come l’assoluzione, necessiti di un epilogo. Sarebbe improprio uscire in fretta da un ambito tanto spirituale per tornare alla vita di ogni giorno, senza un momento di passaggio. Eppure a volte, non rispettando l’evidente senso liturgico, la celebrazione sacramentale può terminare in modo troppo sbrigativo: «Abbiamo finito, ora puoi andare». Il Rito della Penitenza dice con chiarezza cosa è necessario fare: «Ricevuta la remissione dei peccati, il penitente riconosce e confessa la misericordia di Dio e a lui rende grazie con una breve invocazione, tratta dalla sacra Scrittura; quindi il sacerdote lo congeda in pace» (RP 20). Troviamo questa sobria ritualità in RP 47. Sacerdote e penitente, non proferiscono parole loro, ma espressioni tratte dalla Scrittura. Citando le parole ispirate al Salmo 118,1, il sacerdote esclama: «Lodiamo il Signore perché è buono». Il penitente conclude col versetto seguente dello stesso Salmo: «Eterna è la sua misericordia» (cf. anche Sal 136,1). Queste parole di lode usate dal popolo d’Israele e dalla Chiesa per millenni si sono adempiute di nuovo in modo concreto, qui e ora, con mirabile freschezza e assoluta novità. Ogni liturgia della Chiesa termina inviando nel mondo quanti vi han preso parte, pieni di rinnovata forza divina, destinata a vivificare l’umanità. Il congedo non è altro che la forma rituale dell’invio di Cristo stesso: «Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi», dice il Signore risorto ai suoi discepoli (cf. Gv 20,21). Nel Rito della Penitenza ciò avviene con formule concise: «Il Signore ha perdonato i tuoi peccati. Va’ in pace», oppure: «Va’ in pace e annunzia le grandi opere di Dio, che ti ha salvato». Il sacerdote le pronuncia come ministro di Cristo, il penitente avverte di essere inviato dalla Chiesa. «Misericordiosi come il Padre» Papa Francesco invita la Chiesa a riscoprire la gioia del Vangelo e ad essere “in uscita”, missionaria, capace di osare, di prendere l’iniziativa senza paura, mostrando di vivere «un desiderio inesauribile di offrire misericordia, frutto dell’aver sperimentato l’infinita misericordia del Padre e la sua forza diffusiva»[12]. La vocazione della Chiesa è anche quella di ogni discepolo di Cristo, rinvigorito dal sacramento del perdono. La misericordia celebrata per ritus et preces impegna infatti a mettere in pratica l’insegnamento di Gesù: «Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso » (Lc 6,36).
[1] «I sacramenti, come sappiamo, sono il luogo della prossimità e della tenerezza di Dio per gli uomini; essi sono il modo concreto che Dio ha pensato per venirci incontro, per abbracciarci, senza vergognarsi di noi e del nostro limite. Tra i sacramenti, certamente quello della Riconciliazione rende presente con speciale efficacia il volto misericordioso di Dio: lo concretizza e lo manifesta continuamente, senza sosta. Non dimentichiamolo mai, sia come penitenti che come confessori: non esiste alcun peccato che Dio non possa perdonare! Nessuno! Solo ciò che è sottratto alla divina misericordia non può essere perdonato, come chi si sottrae al sole non può essere illuminato né riscaldato»: Francesco,
Udienza ai partecipanti al Corso promosso dalla Penitenzieria Apostolica, 12 marzo 2015.
[2] Paolo VI, Omelia, 20 settembre 1964. Cf. anche Giovanni Paolo II, Esortazione apostolica postsinodale Reconciliatio et Paenitentia, 2 dicembre 1984, 18.
[3] Rituale Romano, Rito della Penitenza, Libreria Editrice Vaticana, 1974 (d’ora in poi abbreviato con RP seguito dal numero del paragrafo).
[4] Cf. Concilio di Trento, Sessione XIV, Il sacramento della Penitenza, cap. IV-VI: Conciliorum Oecumenicorum Decreta, Dehoniane, Bologna 1991, 705-708.
[5] «Ciò che sento in modo non dubbio, anzi certo, Signore, è che ti amo. Folgorato al cuore da te mediante la tua parola, ti amai»: S. Agostino, Confessioni 10,6.8: CCL 27,158s.
[6] Conciliorum Oecumenicorum Decreta, 707.
[7] «Non dimentichiamo mai che essere confessori significa partecipare alla stessa missione di Gesù ed essere segno concreto della continuità di un amore divino che perdona e che salva» (MV 17).
[8] «La seconda forma di celebrazione, proprio per il suo carattere comunitario e per la modalità che la distingue, dà risalto ad alcuni aspetti di grande importanza: la parola di Dio ascoltata in comune ha un singolare effetto rispetto alla sua lettura individuale, e sottolinea meglio il carattere ecclesiale della conversione e della riconciliazione. Essa risulta particolarmente significativa nei diversi tempi dell'anno liturgico e in connessione con avvenimenti di speciale rilevanza pastorale»: Reconciliatio et Paenitentia, 32.
[9] Commissione Teologica Internazionale, La riconciliazione e la penitenza, 29 giugno 1983, A,II,2.
[10] «Dio ci ha dato la Parola e la sacra liturgia ci offre le parole; noi dobbiamo entrare all’interno delle parole, nel loro significato, accoglierle in noi, metterci noi in sintonia con queste parole; così diventiamo figli di Dio, simili a Dio»: Benedetto XVI, Catechesi all’udienza generale, 26 settembre 2012.
[11] «La croce è un segno della passione, ed è al tempo stesso un segno della Risurrezione; è, per così dire, il bastone che Dio ci porge per salvarci, il ponte sul quale possiamo superare l’abisso della morte e tutte le minacce del maligno e giungere fino a Lui. […] Nel segno di croce, insieme con l’invocazione trinitaria, è sintetizzata tutta l’essenza del cristianesimo, è rappresentato il tratto distintivo di ciò che è cristiano»: J. Ratzinger, Lo spirito della liturgia, in Opera omnia, XI, Libreria Editrice Vaticana 2010, 169.
[12] Francesco, Esortazione apostolica Evangelii gaudium, 24 novembre 2013, 24.
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