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Dei Verbum – quarant’anni dopo

Pontificio Ateneo S. Anselmo
Lunedì, 10 ottobre 2005

 

Introduzione

 Ringrazio P. Mark Sheridan, Rettore Magnifico del Pontificio Ateneo Sant’Anselmo, per il suo invito a partecipare all’Inaugurazione dell’anno accademico 2005-2006, e per avermi proposto quale tema per il mio intervento di questa sera: “Dei Verbum – quarant’anni dopo.” Sicuramente in questi quarant’anni chiunque sia stato impegnato nello studio e nell’insegnamento della teologia è stato provocato dalle parole ormai familiari del numero 24 della Costituzione Dogmatica sulla Divina Rivelazione “Dei Verbum”: “La sacra teologia si basa come su un fondamento perenne sulla parola di Dio scritta, inseparabile dalla sacra Tradizione … Le sacre Scritture contengono la parola di Dio e, perché ispirate, sono veramente parola di Dio; sia dunque lo studio della Sacre Pagina come l'anima della sacra teologia.”

Quest’esortazione dei Padri del Concilio Vaticano Secondo, di cui tra un mese celebreremo il quarantesimo anniversario, dovrebbe essere fonte di incoraggiamento per professori e studenti di questo Pontificio Ateneo teologico all’inizio di un nuovo anno accademico. Spero che la mia presenza e il mio intervento qui possano servire da ulteriore incoraggiamento.

Nel prepararmi per questa serata ho avuto l’opportunità di rileggere la Dei Verbum tutta in una volta. Mi ha colpito il suo vocabolario semplice e conciso, e anche come sembrino oramai scontate dopo quarant’anni le verità che questo documento insegna. Ma mi sono anche ricordato, dal periodo in cui insegnai il corso “De Revelatione” per diversi anni in seminario circa trenta anni fa, che non fu un compito semplice per i Padri del Concilio redigere questa costituzione. Essa si è formata in un contesto polemico e il suo percorso, così dibattuto per tutte le quattro sessioni del Concilio, non dava nessuna garanzia che alla fine sarebbe stata accettata quasi all’unanimità.

Per aiutarmi a richiamare alla memoria il contesto della Dei Verbum più da vicino ho consultato uno dei primi commentari sulla Dei Verbum, scritto dall’allora Professore Joseph Ratzinger. Egli identificava “tre temi che hanno confluito nel dibattito che ha rotato ad una Costituzione sulla Rivelazione.” Mi è sembrato che i tre temi da lui identificati in quei primi anni dopo il Concilio potessero offrirmi uno schema utile per le riflessioni di questa sera.

Ecco i tre temi che Ratzinger ha identificato come quelli che hanno costituito il crogiuolo in cui la Dei Verbum è stata forgiata: il primo era la “nuova concezione del fenomeno della tradizione”; il secondo era “l’applicazione di metodi storico-critici all’interpretazione della Scrittura”; e il terzo era l’emergere del cosiddetto “movimento biblico”. Permettetemi di fare alcune riflessioni su questi tre temi di base in ordine inverso.

Il Movimento Biblico

Come i “movimenti” liturgico ed ecumenico, il movimento biblico degli inizi del ventesimo secolo ha concentrato l’attenzione dei cattolici sulle Scritture e ha suscitato in molti vescovi presenti al Concilio il desiderio che i fedeli avessero più ampio accesso ai tesori spirituali contenuti nella Bibbia. Il movimento biblico era stato incoraggiato da encicliche pioniere come la Providentissimus Deus di Papa Leone decimo terzo e la Divino Afflante Spiritu di Papa Pio dodicesimo. Insieme al movimento liturgico, esso portò ad un ciclo di letture della Scrittura alla messa esteso su tre anni. Inoltre l’enfasi posta sulla Bibbia assieme alla crescita della coscienza ecumenica, aiutò ad offrire un fondamento per una maggiore mutua comprensione, resasi evidente nei tanti dialoghi post-conciliari specialmente con le comunità ecclesiali che traggono la loro origine dalla Riforma.

Il particolare contributo del movimento biblico alla Dei Verbum fu l’aver fatto emergere un vasto contesto in cui le domande teologiche classiche sulla Rivelazione (come quella sulla natura dell’ispirazione, sulla estensione dall’ inerranza, e sulla separazione tra parola scritta e tradizione orale) sembravano essere concepite in modo troppo ristretto. In questo contesto, i vescovi si erano aperti ad un nuovo modo di porre la questione circa la Sacra Scrittura. Questo nuovo stato della questione si sviluppò soltanto nel “compromesso” dei dibattiti conciliari.

Il desiderio che le Scritture fossero maggiormente conosciute e utilizzate nella vita della Chiesa, che era l’anima di questo “movimento biblico”, si realizzò in modi che difficilmente si sarebbe osato sperare prima del Concilio. Questo esito ha nella Dei Verbum uno dei suoi fondamenti principali. Allo stesso tempo non possiamo considerare questo esito come qualcosa di completato. Quando pensiamo alle tante interpretazioni ideologiche della Scrittura che fanno deviare le persone o il fondamentalismo così rigido che tocca molti oggi, possiamo certamente riconoscere che le esortazioni del Concilio devono sempre essere accompagnate dalla miglior guida pastorale che la Chiesa possa dare ai suoi fedeli perché si arrivi alla meta espressa nel VI (sesto) e ultimo capitolo della DV (26): “In tal modo dunque, con la lettura e lo studio dei sacri libri « la parola di Dio compia la sua corsa e sia glorificata» (Seconda Lettera ai Tessalonicessi 3,1), e il tesoro della rivelazione, affidato alla Chiesa, riempia sempre più il cuore degli uomini.”

Critica biblica

Il secondo contributo fondamentale allo sviluppo di Dei Verbum era quello della critica biblica. Basti pensare alle controversie del periodo del modernismo, o ricordare le dichiarazioni della Pontificia Commissione Biblica all’inizio del XX secolo (ora considerati giudizi transitori), per valutare il clima di continue tensioni, specialmente tra gli studiosi della Bibbia, presenti all’inizio del Concilio. A questo riguardo, non si può negare che la DV ha portato una certa pace nel mondo dell’esegesi cattolica (cfr. n. 12) per la sua esplicita accettazione dell’importanza dei generi letterari e della natura degli scritti storici e poetici, nell’interpretazione della Scrittura.

Comunque non sorprende che la posizione presa dai Padri del Concilio nel n. 12 della Dei Verbum, sebbene riconoscesse i legittimi passi avanti negli studi biblici fatti dall’esegesi scientifica, non abbia risolto tutte le tensioni che hanno marcato l’esegesi biblica postconciliare fin dal Concilio.

Senza entrare nel legittimo dibattito degli esegeti circa le regole dell’interpretazione – un dialogo su cui non ho alcuna competenza - vorrei esporre ciò che mi sembra un problema chiave posto dall’accettazione da parte degli esegeti cattolici del metodo storico-critico. Per inciso, dico “esegeti cattolici” non senza essere consapevole che nel campo della scienza esegetica ci sono state forti interdipendenze tra esegeti cattolici e protestanti che giustamente ammirano lo studio dei loro colleghi, e giustamente imparano gli uni dagli altri. Una lettura oggettiva della moderna storia dell’interpretazione biblica suggerisce che gli esegeti cattolici, imparando dai loro colleghi protestanti, i quali sono normalmente in anticipo sulle scoperte, non sempre hanno evitato di accogliere anche i principi ermeneutici sottostanti sui quali sono fondate tali regole esegetiche – principi che qualche volta traevano origine da presupposti filosofici dell’Illuminismo – principi che non si possono riconciliare con quelli base della teologia cattolica.

Con questa veramente troppo rapida descrizione della situazione dell’interpretazione cattolica biblica, non vorrei essere frainteso. Non intendo fare una critica a persone o gruppi: invece vorrei fare un tentativo per comprendere una tappa dello sviluppo della scienza biblica, quella del momento del Concilio. Tra le molte questioni in gioco qui, vorrei focalizzare l’attenzione sull’effetto della moderna metodologia critica sulla concezione cattolica classica della relazione tra senso letterale e “spirituale” della Scrittura.

Uno sguardo ai commentari biblici degli ultimi cinquant’anni mostra un atteggiamento a favore del senso “letterale” nell’interpretazione della Scrittura, spesso con l’esclusione di qualsiasi attenzione al classico “senso spirituale” della Scrittura. Il problema che molti esegeti moderni trovano in questo senso “spirituale” può essere riassunto nella frase: “mancanza di controllo”. Dove sono i limiti di questo senso spirituale? Come è possibile ammettere una spiegazione che non rispetti l’esegesi scientifica, la quale si basa su un significato “letterale” della Scrittura? Come si può evitare che l’esegesi diventi “eisegesis” (leggere “dentro” il testo scritturistico)?

Nella storia dell’ermeneutica biblica cattolica, teologi diversi come Tommaso d’Aquino e John Henry Newman hanno insistito sulla priorità del significato letterale del testo sacro come punto di partenza – senza escludere però il senso spirituale, così centrale nel commento biblico e nell’esegesi dei Padri della Chiesa. Benché Newman abbia criticato gli abusi del senso spirituale, senza dubbio sarebbe stato sorpreso nel vedere che in gran parte della scienza biblica contemporanea il senso spirituale classico è stato quasi del tutto messo tra parentesi.

Il cardinal Avery Dulles ha recentemente illustrato come questa tendenza moderna a limitare l’esegesi al senso letterale abbia influenzato le traduzioni inglesi del numero 12 della Dei Verbum. Come Dulles nota, l’inizio del paragrafo 12 implicitamente, ma intenzionalmente, fa una distinzione tra senso letterale e spirituale della Scrittura: “Poiché Dio nella sacra Scrittura ha parlato per mezzo di uomini alla maniera umana, l'interprete della sacra Scrittura, per capir bene ciò che egli ha voluto comunicarci, deve ricercare con attenzione che cosa gli agiografi abbiano veramente voluto dire [il senso letterale] e a Dio è piaciuto manifestare con le loro parole” [il senso spirituale]. In latino è: “attente investigare debet, quid hagiographi reapse significare intenderint et eorum verbis manifestare Deo placuerit.”

La parolina chiave “et” è giustamente resa nella traduzione di Abbott con “and,” citata sopra. Ma altre traduzioni inglesi sono fuorvianti: per esempio nella traduzione edita da Flannery si legge.: “l’interprete … dovrebbe cercare con attenzione il significato che gli scrittori sacri veramente intendevano dire, quel significato che Dio ha pensato bene di manifestare attraverso le loro parole.” La traduzione dell’edizione Tanner è ancora più fuorviante. Si legge che l’interprete deve “cercare con attenzione quale significato gli scrittori biblici intendevano dire; quello sarà anche ciò che Dio ha voluto manifestare per mezzo delle loro parole.” Queste traduzioni non esprimono adeguatamente ciò che Dei Verbum intendeva; rappresentano invece un parere comune che ha la tendenza a limitare l’interpretazione biblica al senso “letterale”, escludendo di fatto il senso “spirituale”.

Il senso spirituale si riferisse alla possibilità di discernere un significato nel testo sacro al di là del significato letterale, perchè la Bibbia, anche se composta da tanti libri ha un unico Autore divino. Il Catechismo della Chiesa Cattolica (no. 111) dice, “Però, essendo la Sacra Scrittura ispirata, c'è un altro principio di retta interpretazione, non meno importante del precedente, senza il quale la Scrittura resterebbe « lettera morta ».” E continua citando DV 12, par. 3: “: « La Sacra Scrittura [deve] essere letta e interpretata con l'aiuto dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta ».” Inoltre elenca i criteri che guidano il senso spirituale della Scrittura come indica Dei Verbum: “Prestare grande attenzione « al contenuto e all'unità di tutta la Scrittura »; Leggere la Scrittura nella « Tradizione vivente di tutta la Chiesa »; Essere attenti all'analogia della fede..” (CCC 112-4)

Oltre alla traduzione fuorviante del n. 12 di Dei Verbum citata sopra nell’analisi di Dulles, la mia rilettura della Costituzione per questo quarantesimo anniversario mi ha fatto notare anche altre imprecisioni delle traduzioni inglesi. Non posso pronunciarmi sulle traduzioni in altre lingue, ma questa esperienza mi porta a sperare che, celebrando il quarantesimo anniversario della conclusione del Concilio, possiamo aspettarci di avere pronta per il cinquantesimo anniversario del Concilio una accurata traduzione ufficiale dei principali documenti conciliari nelle lingue principali.

Nel 1993 la Pontificia Commissione Biblica ha pubblicato un importante commento sui vari approcci all’ermeneutica biblica: “L'interpretazione della Bibbia nella Chiesa”. Nonostante la Pontificia Commissione Biblica non sia più incaricata di pronunciarsi autorevolmente a livello magisteriale sulla Bibbia, questo documento offre una analisi completa degli sviluppi nell’esegesi biblica e degli studi ermeneutici dal Concilio Vaticano in avanti. Quest’opera è particolarmente importante perché ha condotto le questioni solo menzionate in Dei Verbum ad un nuovo livello di maturità.

Nella sua prefazione al documento della Commissione Biblica, il presidente della Commissione Cardinal Ratzinger offre quello che si può considerare un “aggiornamento” del problema della critica biblica: “Lo studio della Bibbia … non è mai finito; ogni epoca deve di nuovo, a modo suo, cercare di capire i Libri Sacri. Nella storia dell’interpretazione, l’uso del metodo storico-critico ha segnato l’inizio di una nuova era. Grazie a questo metodo sono apparse nuove possibilità di capire il testo biblico nel suo senso originario. Come ogni realtà umana, questo metodo nasconde in sé, con le sue possibilità positive, alcuni pericoli. La ricerca del senso originario può portare a confinare la Parola esclusivamente nel passato, di modo che la sua portata presente non è più percepita. Il risultato può essere che soltanto la dimensione umana della Parola appaia reale; il vero autore, Dio, sfugge alle prese di un metodo che è stato elaborato in vista della comprensione di realtà umane.”

Il modo in cui si dischiude il senso della Scrittura – il “senso, in cui si compenetrano la parola umana e la parola divina, la singolarità dell’evento storico e la costante validità della parola eterna, contemporanea di ciascuna epoca” [Ratzinger: Prefazione] – è il compito affrontato dalla Pontificia Commissione Biblica nel suo documento del 1993.  Esso resta una permanente eredità dell’opera pionieristica della Dei Verbum. Ciò sottolinea per di più il continuo compito di situare l’esegesi biblica in modo appropriato dentro e non fuori dallo scopo della teologia cattolica di oggi.

Tradizione

Il terzo dei problemi identificati dal Professore Ratzinger come ciò che ha contribuito al formarsi della Costituzione sulla Divina Rivelazione è il concetto di tradizione. Questa parola aveva una lunga storia all’interno della teologia cattolica che spesso è associata alla teoria delle “due fonti” della Rivelazione, come cioè la Rivelazione di Dio sia presente e conosciuta nella Chiesa: da una parte in scriptis (Scriptura) e dall’altra in traditis (tradizioni). L’idea più ampia di Tradizione così come era emersa dall’inizio del XIX secolo in poi, ha offerto un concetto unificante di Rivelazione – la Parola di Dio (eternamente presente nella comunione trinitaria e storicamente rivelata nel Verbo incarnato), é la vera, unica “fonte” di entrambe: Scrittura e Tradizione. Il n. 9 di DV presenta questo concetto-chiave sulla connessione tra Scrittura e Tradizione così: “Poiché ambedue scaturiscono dalla stessa divina sorgente, esse formano in certo qual modo un tutto e tendono allo stesso fine..” E ancora al n. 10 leggiamo: “La sacra tradizione e la sacra Scrittura costituiscono un solo sacro deposito della parola di Dio affidato alla Chiesa.” E ancora, nel paragrafo successivo, DV usa la frase “interpretare autenticamente la parola di Dio, scritta o trasmessa, …”

P. Albert Vanhoye è chiaro nei suoi commenti su questo punto: “Il Concilio ha rifiutato una concezione dicotomica che porrebbe un dualismo all’origine della rivelazione e manterrebbe poi dei compartimenti stagni fra Tradizione e Scrittura. Al contrario, il Concilio ha voluto insistere sull’unita d’origine e sulle molteplici connessioni che pongono Scrittura e Tradizione in simbiosi” [Il Concilio Vaticano II, R. Fisichella ed., p.31]. Si è già alluso alle implicazioni ecumeniche di questa prospettiva: senza abbracciare il principio classico protestante “sola scriptura”, la formulazione del Concilio evita anche la terminologia delle due fonti che aveva creato una profonda distanza tra gli approcci cattolico e protestante lungo i secoli.

Un’altra caratteristica importante che si può attribuire al concetto ampliato di Tradizione è il suo senso dinamico, storico. “Pertanto la predicazione apostolica, che è espressa in modo speciale nei libri ispirati, doveva esser conservata con una successione ininterrotta fino alla fine dei tempi. … così la Chiesa nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto, perpetua e trasmette (tradere) a tutte le generazioni tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede.” (DV 8, par 1). E’ di questo concetto ampio di “tradizione” che DV parla quando dice, “Questa Tradizione di origine apostolica progredisce nella Chiesa con l'assistenza dello Spirito Santo” (DV 8, par. 2).

P. Zoltan Alszeghy, S.J., non esita a dire che “Il testo conciliare parla del progresso della tradizione, ma questo non è altro che lo sviluppo del dogma” [Vatican II: Assessment and Perspectives, v.I, p.140]. Secondo lui l’affermazione di DV si riferisce al progresso della Tradizione dal punto di vista del suo inizio. Ma parlando di sviluppo del dogma, egli dice che stiamo considerando questo progresso dal punto di vista del suo risultato.

Mi riferisco alla questione dello sviluppo della dottrina per sottolineare l’importanza della nuova specializzazione dedicata alla Storia della teologia, recentemente istituita in questo Ateneo Pontificio. Essa può essere considerata un’altra fruttuosa espressione della crescita nella comprensione della Parola di Dio così fortemente raccomandata da Dei Verbum. Inoltre, mi sembra che lo studio storico degli sviluppi della teologia, in particolare nella teologia morale, sia stato negletto per troppo tempo dalla teologia cattolica. Esprimo quindi la mia speranza che questa nuova specializzazione apporti un ricco contributo al continuo rinnovamento e progresso della teologia nella Chiesa.

Infine, voglio sottolineare ancora un ulteriore aspetto del concetto di una tradizione viva, dinamica e organica, che contribuisce alla comprensione della Chiesa: quello del suo insegnamento autorevole ovvero il Magistero. Il genio particolare di DV è mostrare l’interconnessione di questi vari concetti teologici: Rivelazione, Parola di Dio, Scrittura, Tradizione, Magistero. Nel n. 10, par. 2 di DV, è presentato il ruolo  del Magistero  in relazione  agli altri concetti: “L'ufficio poi d'interpretare autenticamente la parola di Dio, scritta o trasmessa, è affidato al solo magistero vivo della Chiesa, la cui autorità è esercitata nel nome di Gesù Cristo. Il quale magistero però non è superiore alla parola di Dio ma la serve, insegnando soltanto ciò che è stato trasmesso, in quanto, per divino mandato e con l'assistenza dello Spirito Santo, piamente ascolta, santamente custodisce e fedelmente espone quella parola, e da questo unico deposito della fede attinge tutto ciò che propone a credere come rivelato da Dio.”

Insegnare con autorità, incarico che la Chiesa compie per dono divino, può a volte condurci a concentrare l’attenzione sul potere di insegnare dato agli apostoli e ai loro successori. In DV questo insegnamento autorevole è presentato chiaramente come un servizio nei confronti della Parola di Dio, del Vangelo – e quindi come un servizio alla verità. Questo è un elemento fondamentale ed importante con cui la costituzione Dei Verbum contribuisce all’ecclesiologia della Chiesa cattolica.

Conclusione

La Costituzione Dei Verbum inizia con le parole della prima lettera di S. Giovanni: “Annunziamo a voi la vita eterna, che era presso il Padre e si manifestò a noi:” (1 Gv 1,2). Rivelazione, Scrittura, Tradizione, Magistero hanno la stessa unica fonte e lo stesso scopo: farci conoscere il Padre e colui che egli ha mandato, Gesù Cristo (cf. Gv 17,3). Mentre celebriamo il Sinodo dei Vescovi con cui si conclude quest’anno dedicato all’Eucaristia, possiamo solo stupirci della Rivelazione dell’amore di Dio che si manifesta a noi in modi così diversi, e a Lui rendere grazie.

  

+William Joseph Levada
Arcivescovo emerito di San Francisco
Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede

 

Traduzione dall’inglese a cura di M. Benedetta Zorzi, osb.

 

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