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Card. Victor Manuel Fernández
Prefetto del Dicastero per la Dottrina della Fede

 

Una teologia per il popolo 

Intervento del Card. Víctor M. Fernández,
alla Pontificia Università Lateranense il 21 febbraio 2024.

  

Si può parlare ancora di popolo? 

Quando ci si appresta a parlare della Chiesa, la categoria di “popolo” oggi è spesso messa in discussione, perché è legata a certe linee politiche e a dolorose esperienze del passato. Tuttavia, ha un contenuto teologico molto ricco che deriva dalla Sacra Scrittura e che non sarebbe giusto abbandonare. D’altra parte, la categoria di “popolo” è essenziale per comprendere il pensiero di Papa Francesco, la sua ecclesiologia e soprattutto i suoi approcci pastorali. Credo, infatti, che ci siano proposte di Papa Francesco che non vengono comprese proprio perché non si percepisce il senso profondo di questa idea generale di “popolo” che sta dietro a molte sue affermazioni e proposte, anche se, per evitare qualsiasi riduzionismo sociologico o politico, egli preferisce parlare del “santo popolo fedele di Dio”.

L’Antico Testamento attesta che Dio ha scelto un popolo, ha voluto fare un’alleanza con un popolo, non con un gruppo di persone, non con un’associazione, non con vari individui isolati. Nei libri dell’antica Alleanza si evidenzia che il Popolo include un riferimento speciale non alle autorità o ai potenti, ma soprattutto agli ultimi, ai più deboli, agli svantaggiati, ai dimenticati. Per questo si dice, in una specie di chiasmo: «Il Signore ha consolato il suo popolo e ha avuto compassione dei suoi poveri» (Is 49,13). Ai poveri pastori l’angelo annuncia «una grande gioia, che sarà di tutto il popolo» (Lc 2,10). Vediamo che “popolo” è una categoria marcatamente inclusiva, anzi la più inclusiva, ed essa è incomprensibile se non ingloba tutti, ancor meno se non abbraccia gli ultimi. Nel Nuovo Testamento c’è un processo di personalizzazione, ma nonostante ciò non si rinuncia alla coscienza di essere popolo: «Un tempo voi eravate non-popolo, ora invece siete popolo di Dio» (1 Pt 2,10).

Questo “Popolo” è il soggetto dell’evangelizzazione. Così lo spiega Papa Francesco: «è ben più di una istituzione organica e gerarchica, poiché anzitutto è un popolo in cammino verso Dio. Si tratta certamente di un mistero che affonda le sue radici nella Trinità, ma che ha la sua concretezza storica in un popolo pellegrino ed evangelizzatore, che trascende sempre ogni pur necessaria espressione istituzionale […]  Dio ha dato origine a una via per unirsi a ciascuno degli esseri umani di tutti i tempi. Ha scelto di convocarli come popolo e non come esseri isolati […]  ci attrae tenendo conto della complessa trama di relazioni interpersonali che comporta la vita in una comunità umana» (EG 111.113).

Questa categoria è difficile da comprendere per le linee di pensiero individualistiche, per certi orientamenti politici o sociologici, che concepiscono la società solo come una somma atomizzata di particolarità. La comprensione della nozione cattolica di popolo è connessa, invece, a un modo di intendere il bene comune, in contrapposizione all’individualismo liberale estremo.

Una realtà che trascende gli individui

Sappiamo infatti che il bene comune non è solo la somma di beni particolari. Esso implica un plus, dove ci sono beni che ci superano come individui perché sono il risultato della congiunzione di molte decisioni e attività di persone diverse. Esso non può avvenire solo per l’accumulazione di molti atti di persone isolate l’una dall’altra, ma si attua nella misura in cui si relazionano e si influenzano a vicenda. Questo è il motivo per cui san Paolo ha descritto la Chiesa come un corpo in cui ogni membro ha bisogno delle altre membra (cf. 1 Cor 12, 12-26). La Chiesa stessa, e ciascuna delle sue comunità, è un bene comune soprannaturale, dove la dimensione comunitaria della grazia risplende in modo speciale. Ma la nozione di “popolo”, congiunta a quella di “corpo”, richiama l’idea di un cammino che si fa insieme, di una realtà comunitaria dinamica e pellegrina che in qualche modo condivide un medesimo progetto.

L’incontro tra persone è un intreccio di vite personali che dà luogo a un ambito più ampio. Allo stesso modo, c’è una realtà della grazia che è più della somma del bene soprannaturale di ciascuno. Perché il bene di ciascuno influenza quello degli altri, creando spazi comuni e ricchezze multiformi. Così come c’è un bene comune che trascende gli individui e li arricchisce, influenzando positivamente tutti, c’è anche una grazia donata e diffusa comunitariamente, che si esprime in quel mondo di relazioni e influenze reciproche che chiamiamo bene comune soprannaturale. La vita di grazia di ogni individuo ha quel dinamismo espansivo che la orienta a sviluppare una rete, una struttura di bene che cerca di contrastare il potere delle strutture di peccato e il loro influsso dannoso sulla vita sociale e su ogni persona.

Per questo, affinché si realizzi un cambiamento significativo nella Chiesa o nella vita sociale, è necessario accogliere un’azione dello Spirito che trascenda le preoccupazioni e le scelte di ciascuno nel proprio piccolo mondo, poiché oltre a questo ambito ristretto c’è una realtà ben più ampia che risulta dalla connessione delle molteplici scelte di persone e società diverse. Là si entra in uno spazio in cui un individuo isolato ha pochissimo potere decisionale e influenza. Ma la grazia può agire anche sul piano interpersonale e sovrapersonale, perché «lo Spirito Santo possiede un’inventiva infinita, propria di una mente divina, che provvede a sciogliere i nodi delle vicende umane, anche le più complesse e impenetrabili».[1]

Quanto detto non significa che ci troviamo di fronte ad una “massa” che si muove trascinata per gli interessi politici o per l’influsso dei social. Implica, invece, che all’interno del popolo ognuno offre la sua singolare, unica e creativa identità.

Il Vangelo che risuona nel popolo

Quando l’annuncio del Vangelo non è indirizzato al popolo, arriva solo a piccoli gruppi isolati che non hanno il potere di creare cultura. Se una comunità pastorale vuole arrivare almeno al popolo che gli è vicino, questo suppone che stia realmente in contatto con le famiglie e con la vita del popolo e non diventi una struttura prolissa separata dalla gente o un gruppo di eletti che guardano a se stessi (cf. EG 28)

Affinché ciò sia possibile, la comunità dev’essere certa di incorporare gli ultimi, altrimenti non ci sarà un vero rapporto con il popolo. Così lo spiega Papa Francesco, facendo riferimento ai leader popolari:

«Quando parliamo di popolo non si deve intendere le strutture della società o della Chiesa, quanto piuttosto l’insieme di persone che non camminano come individui ma come il tessuto di una comunità di tutti e per tutti, che non può permettere che i più poveri e i più deboli rimangano indietro: Il popolo vuole che tutti partecipino dei beni comuni e per questo accetta di adattarsi al passo degli ultimi per arrivare tutti insieme. I leader popolari, quindi, sono coloro che hanno la capacità di coinvolgere tutti, includendo nel cammino giovanile i più poveri, deboli, limitati e feriti» (ChV 231).

Ma questo obiettivo esige di essere pronti a sporcarsi “con il fango della strada”, accettando di lasciar crescere insieme il grano e la zizzania. Parlando ancora della pastorale giovanile, Papa Francesco invita ad un atteggiamento di profonda empatia e comprensione, che permetta a chi evangelizza di entrare nel cuore del popolo:

«Specialmente con i giovani che non sono cresciuti in famiglie o istituzioni cristiane, e sono in un cammino di lenta maturazione, dobbiamo stimolare il bene possibile […] A volte, per pretendere una pastorale giovanile asettica, pura, caratterizzata da idee astratte, lontana dal mondo e preservata da ogni macchia, riduciamo il Vangelo a una proposta insipida, incomprensibile, lontana, separata dalle culture giovanili e adatta solo ad un’élite giovanile cristiana che si sente diversa, ma che in realtà galleggia in un isolamento senza vita né fecondità […] Non è nemmeno necessario che uno accetti completamente tutti gli insegnamenti della Chiesa per poter partecipare ad alcuni dei nostri spazi dedicati ai giovani […] Abbiamo bisogno di una pastorale giovanile popolare che apra le porte e dia spazio a tutti e a ciascuno con i loro dubbi, traumi, problemi e la loro ricerca di identità, con i loro errori, storie, esperienze del peccato e tutte le loro difficoltà» (ChV 232.234).

Infine, va ricordato che la categoria “popolo” si declina al plurale, perché anche all’interno di una società possono esserci diverse culture e di conseguenza diversi “popoli”. Papa Francesco spiega che «questo Popolo di Dio si incarna nei popoli della Terra, ciascuno dei quali ha la propria cultura […] Si tratta dello stile di vita di una determinata società, del modo peculiare che hanno i suoi membri di relazionarsi tra loro, con le altre creature e con Dio» (EG 115). Ed è là che il Vangelo ha bisogno di esprimersi in modi sempre nuovi.

Teologia popolare

Perché il Vangelo possa arrivare al popolo, la riflessione teologica ha un compito specifico: «La teologia – non solo la teologia pastorale – in dialogo con altre scienze ed esperienze umane, riveste una notevole importanza per pensare come far giungere la proposta del Vangelo alla varietà dei contesti culturali e dei destinatari» (EG 133). Papa Francesco ci invita a superare l’atteggiamento di maestri e ci invita a «giungere là dove si formano i paradigmi, i modi di sentire, i simboli, le rappresentazioni delle persone e dei popoli. Giungere là ― come “etnografi spirituali” dell’anima dei popoli».[2]

Ma per attuare questa missione avrà bisogno delle scienze, per cui, così si può comprendere meglio l’importanza di una teologia immersa nella vita di una Università. Questo soprattutto per il fatto che capire dove sta andando una società come popolo, capire la sua “anima”, non è facile, richiede certamente uno studio interdisciplinare e una riflessione aperta a questa prospettiva. All’interno della Chiesa i sacerdoti a volte utilizzano l’espressione: “dice la gente”. Ma con questa ci si riferisce solo a quattro o cinque persone che frequentano la parrocchia e che hanno più o meno la stessa forma mentis. Ciò è ben lontano dall’essere una percezione di ciò che “la gente” pensa o sente. Del resto, basta guardare a ciò che si dice in alcuni blog o siti web gestiti per cattolici, perché di solito là si accomunano quelli che la pensano in maniera simile, e gli algoritmi del web fanno finire per farci leggere sul cellulare quello che sia simile alle preferenze che già abbiamo.

In altre parole, una cosa è cogliere ciò che “la gente” sta dicendo, un’altra cosa è riconoscere ed interpretare le mega tendenze popolari. Pertanto, ci vogliono risorse sia quantitative che qualitative che coinvolgano scienze diverse che possono aiutare a comprendere le dinamiche popolari, e quindi a creare strategie di pastorale popolare che possano arrivare a tutti.

Certamente, nel contesto di una Università, con l’aiuto delle varie discipline, la teologia potrebbe sviluppare un pensiero speculativo e pastorale che offra un servizio decisivo all’evangelizzazione e che non diventi, come dice Papa Francesco, una “teologia da tavolino”. Questo ci aiuta anche a capire perché il Papa, quando mi ha nominato Prefetto del Dicastero per la Dottrina della Fede, ha insistito su questa dimensione evangelizzatrice del pensiero teologico, e in questo modo mi ha chiesto anche che il Dicastero presti tanta attenzione alla vita del Popolo di Dio, persino correndo il rischio di sporcarsi con il fango della strada, percorrendo lo stesso sentiero che tante persone percorrono con la fatica, le sofferenze e le difficoltà della vita quotidiana.

Ciò è particolarmente vero e reale, che potremmo chiederci: a chi parlerà, altrimenti, la nostra teologia? Forse alle generazioni di una volta, che ormai non esistono più, ma non all’attuale popolo di Dio. Risponderemo alle domande che soltanto una piccola minoranza isolata si sta facendo, ma non a quelle del popolo. Tutto ciò acquista un’importanza speciale se si tiene conto del fatto che negli ultimi decenni si è verificata una rottura nella trasmissione generazionale della fede cristiana nel popolo cattolico (cf. EG 70).

Una teologia per il Popolo di Dio è una teologia attenta alle dinamiche che questo popolo sta vivendo in questo momento storico, per aiutarlo ad interpretarle alla luce della fede, sia per purificarle sia per favorire tutto ciò che è positivo. Questo è tipico di ogni processo di inculturazione che includa entrambi gli aspetti. Si auspica, pertanto, che i teologi possano essere all’altezza di questa missione. Non si tratta certo di inventare una nuova Rivelazione, ma di far scaturire dalla sorgente inesauribile del Vangelo quello che meglio possa illuminare la vita del Popolo di Dio, quello che possa aiutare questo Popolo a vivere felice in mezzo ai limiti e alle difficoltà della vita. Infatti, nella lettera che il Papa mi ha scritto quando mi ha nominato Prefetto, ha detto che in fondo oggi si ha «bisogno di una teologia che sappia presentare in modo convincente un Dio che ama, che perdona, che salva, che libera, che promuove le persone e le chiama al servizio fraterno».

D’altra parte, una teologia per il popolo è una teologia che crea popolo, perché da qualsiasi riflessione sul Vangelo fa scaturire una motivazione per creare ponti fra gli uomini, per unire le persone, per farle uscire da sé stesse e nutrire diversi legami, per abbandonare l’autoreferenzialità e unirsi dietro a un progetto comune, illuminato da Cristo. Perché «Dio, in Cristo, non redime solamente la singola persona, ma anche le relazioni sociali tra gli uomini».[3] Qualsiasi tema della teologia, può offrire un nuovo incoraggiamento in questa “creazione del popolo”, sia la dottrina sulla comunione trinitaria, sia il mistero del Figlio che si unisce alla nostra umanità, sia l’Eucaristia come sacramento di comunione e di unità e così via.

È chiaro allora che non si tratta di una categoria meramente sociologica, dal momento che Papa Francesco considera la categoria di “popolo” da un punto di vista soprannaturale, teologico e anche spirituale. Infatti, nell’Evangelii gaudium ci ha invitato a provare il “gusto spirituale” dell’essere popolo, una spiritualità che, proprio perché cristiana, ci strappa da un malsano isolamento e tesse legami fino a farci godere del fatto di essere davanti a Dio come popolo. Ricordiamo come lo esprime Papa Francesco:

«Quando viviamo la mistica di avvicinarci agli altri con l’intento di cercare il loro bene, allarghiamo la nostra interiorità per ricevere i più bei regali del Signore. Ogni volta che ci incontriamo con un essere umano nell’amore, ci mettiamo nella condizione di scoprire qualcosa di nuovo riguardo a Dio. Ogni volta che apriamo gli occhi per riconoscere l’altro, viene maggiormente illuminata la fede per riconoscere Dio […]  È bello essere popolo fedele di Dio. E acquistiamo pienezza quando rompiamo le pareti e il nostro cuore si riempie di volti e di nomi!» (EG 272-274).

 

 


[1] Giovanni Paolo II, Udienza Generale [24 aprile 1991]: Insegnamenti XIV/1[1991], 856. Cfr. EG 178.

[2] Francesco, Discorso nel Piazzale antistante la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale (Napoli), 21 giugno 2019.

[3]Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, 52; Francisco, EG 178.