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PONTIFICIA COMMISSIONE PER I BENI CULTURALI DELLA CHIESA

Presentazione del Volume “Lo Spazio del Silenzio”

INTERVENTO DI S.E. MONS. MAURO PIACENZA

I Beni Culturali della Chiesa

 Abbazia di Subiaco, 25 settembre 2004

 

1. Nel licenziare l’edizione italiana di una delle sue opere fondamentali, La teologia del Dodicesimo secolo, diversi anni dopo l’edizione francese, il teologo domenicano Marie-Dominique Chenu (1895-1990) così affermava: «Se dovessimo rifare quest’opera, ormai antica, daremmo un posto ancora maggiore al ruolo dei condizionamenti socio-economici, alle evoluzioni delle strutture politiche del regime feudale ai movimenti comunitari, come riserveremmo uno spazio più largo alla storia delle arti, sia letterarie sia plastiche: esse sono, a loro modo, non soltanto delle illustrazioni estetiche ma dei veri “luoghi” teologici». Chenu era acutamente convinto che la storia della teologia non possa prescindere da un «tessuto mentale e culturale, tessuto che offre i contesti delle grandi opere dei dottori e che serve come campo delle analisi teologiche» e lamentava «che le storie correnti della teologia non riservavano nessuno spazio alle grandi opere letterarie contemporanee, né alle espressioni figurative, sia pure d’origine biblica». Tale lacuna si nota purtroppo ancora ai nostri giorni, colmata solo in parte  dall’opera di un altro grande teologo, Hans Urs von Balthasar.

2. La nozione di bene culturale, di recente formulazione, specie in sede giuridica, ha un valore pratico e sintetico, ma comporta il limite di presentare ciò che definisce sotto l’ottica specifica e limitante, sebbene importante, della tutela e della conservazione. Ed è principalmente e giustamente in quest’ottica che guardano le leggi civili italiane sui beni culturali (il Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, DL 29 ott. 1999, n. 490 e da ultimo il Codice dei beni culturali e del paesaggio, DL 22 gen. 2004, n. 42). Non stupisce, inoltre, il fatto che anche lo Stato della Città del Vaticano, dotandosi alcuni anni fa di una legge “civile” analoga, si sia espresso in termini simili parlando di inventariazione, norme per la conservazione, l’integrità e la sicurezza, alienazioni, prestito ecc. (Legge sulla tutela dei beni culturali, n. 355, 25 luglio 2001).

La stessa legislazione italiana però riconosce ad alcuni beni culturali il possesso di requisiti che li rendono diversi dagli altri. La vecchia legge 1089/1939 art. 8 già riconosceva una peculiarità delle «cose» destinate al culto. L’art. 12 dell’Accordo di modificazione del Concordato lateranense del 18 febbraio 1984, definisce tali oggetti “beni culturali di interesse religioso”, definizione accolta ampiamente ed entrata sia nel Testo unico (art. 19) sia nel Codice (art. 9).

Sembra poi dottrina diffusa, definita in base anche alle intese con le diverse confessioni religiose, che le «esigenze di carattere religioso», pur comprendendo ovviamente le «esigenze di culto», vadano oltre ad esse, estendendosi anche a quelle assistenziali e propriamente culturali. Un noto specialista, a proposito dell’intesa con l’Unione delle Comunità ebraiche, afferma che «appare chiaro il superamento del concetto funzionale di “esigenze di culto” che viene risolto nella ben più ampia nozione di tutela del patrimonio storico e artistico della nazione espressione dell’identità culturale delle confessioni», e pone tra le finalità dell’Unione «sia la conservazione del patrimonio storico, artistico e bibliografico che la promozione della conoscenza della cultura ebraica e del suo incremento». In altre parole, si riconosce implicitamente che per i beni culturali prodotti da una comunità religiosa sia quest’ultima a determinarne e quindi a spiegarne il pieno significato (cfr F. Margiotta Broglio, Articolo 19. Beni culturali di interesse religoso, in La nuova disciplina dei beni culturali e ambientali. Commento al Testo Unico approvato con il decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490, a cura di M. Cammelli, Il Mulino, Bologna 2000, pp. 81-88, part. 84-85).

Non vogliamo quindi minimamente contestare l’utilizzo della parola “bene culturale”, che si è ormai imposto anche nelle denominazioni ufficiali di organismi ecclesiali, come la Pontificia Commissione che presiedo, l’apposito ufficio della Conferenza episcopale italiana e di quelli delle diocesi, né si intende sminuire l’importanza della tutela e della conservazione, che anzi è sempre più doverosamente inculcata nei documenti preparati da questi organismi; ma si intende piuttosto avvertire che, nella mens della Chiesa, tali beni possiedono un’importanza che va ben al di là della pura conservazione e tutela. Veniamo così a parlare del tema della nostra conferenza e al significato che la Chiesa intende attribuire ai beni culturali da essa prodotti, intendendo principalmente – considerato il contesto in cui ci troviamo – le opere d’arte.  

3. Il rapporto tra arti figurative e Chiesa non è stato sempre univoco e sereno. Nei primi secoli la Chiesa, con corretta riflessione teologica, ha dovuto superare il divieto scritturistico della non rappresentabilità di Dio e, nell’alto medioevo, far fronte all’accusa di idolatria rivolta al culto delle sacre immagini dagli iconoclasti, così come l’impeto distruttore della cosiddetta “Riforma” protestante. Proprio queste opposizioni hanno fornito alla Chiesa l’occasione per una riflessione sulla natura non puramente decorativa dell’arte e sulla sua essenziale appartenenza alle modalità di esprimere e di vivere la fede. 

4. L’arte ha in questo senso innanzitutto un valore didascalico, contribuendo alla conoscenza, da parte degli illetterati di tutti i tempi, della storia sacra, in sostituzione del testo scritto, come affermava il papa San Gregorio Magno scrivendo al vescovo di Marsiglia, Sereno. L’affermazione è considerevole, se si pensa alla venerazione e al rispetto di cui il testo della Sacra Scrittura ha sempre goduto nella Chiesa e di conseguenza all’importanza delle immagini sacre, se esse ne sono, in qualche caso,  elementi sostitutivi. In generale si può quindi affermare che le immagini sacre, i cicli di storie bibliche o delle vite di Cristo, della Vergine e dei santi introducono, con modalità loro proprie, il fedele al mistero salvifico che essi rappresentano.

5. Ma c’è un fondamento ancora più profondo. Infatti, ogni strumento della Grazia (cioè ogni via attraverso la quale Dio passa per darsi a noi) si fonda su un mistero che fa riferimento a Cristo. Per quanto riguarda l’arte intesa in senso cristiano, tale mistero è l’Incarnazione, cioè il fatto che Dio, per definizione invisibile e ineffabile, si è manifestato in forma sensibile in Gesù Cristo: «Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato, ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita … noi lo annunziamo a voi» (1 Giovanni 1, 1-4). E nella lettera ai Colossesi San Paolo afferma «Egli (Cristo) è immagine del Dio invisibile» (Colossesi 1, 15), dove immagine in greco è eikon, icona!

Proprio questo fondamento teologico è alla base della dottrina approvata dal Concilio Niceno II (787), che segnò la fine del travagliato periodo iconoclasta: «Una delle tradizioni della Chiesa riguarda la raffigurazione del modello mediante una immagine, in quanto si accordi con la lettera del messaggio evangelico, in quanto serva a confermare la vera e non fantomatica incarnazione del Verbo di Dio e procuri a noi analogo vantaggio, perché le cose rinviano l’una all’altra in ciò che raffigurano come in ciò che, senza ambiguità esse significano… [Cosicché] «l’onore reso all’immagine, in realtà appartiene a colui che vi è rappresentato e chi venera l’immagine, venera l’immagine di chi in essa è riprodotto» (Definizione).  

6. È noto che la teologia dell’immagine sacra, elaborata specialmente negli scritti dei Padri greci, come San Giovanni Damasceno, si è sviluppata soprattutto presso la Chiesa d’Oriente. Tuttavia tale dottrina è patrimonio comune della Chiesa e ad essa attinge il Santo Padre quando, in occasione del XII centenario del Niceno II, scrive: «L’arte della Chiesa deve mirare a parlare il linguaggio dell’Incarnazione ed esprimere con gli elementi della materia, Colui che si è degnato di abitare nella materia e di operare la nostra salvezza attraverso la materia» (Giovanni Paolo II, Lettera apostolica Duodecimum saeculum, 4 dicembre 1987, n. 11).

7. «Nell’una e nell’altra tradizione – nella Chiesa d’Oriente come in quella d’Occidente – l’uso di immagini sacre nel contesto della vita liturgica è servito nei secoli a manifestare il particolare rapporto che, grazie all’Incarnazione di Cristo, sussiste tra “segno” e “realtà”, all’interno dell’economia sacramentale» (Conferenza Episcopale Toscana, Nota pastorale La vita si è fatta visibile, 23 febbraio 1997, n. 3). Tale rapporto è riscontrabile in tutti gli oggetti che l’uomo utilizza nella liturgia, dalle immagini sacre ai vasi sacri, ai tessuti, alle suppellettili, agli edifici di culto. «L’uso delle cose nella liturgia della Chiesa rivela ed attualizza la vocazione del mondo infraumano, chiamato insieme all’uomo e per mezzo dell’uomo a rendere gloria a Dio» (ivi). La funzione di segno, dunque, conferisce a questi oggetti una dignità che, pur nella consapevolezza che essi sono e rimangono “cose”, li fa circondare di rispetto e di attenzione.

Per usare un’immagine cara alla tradizione iconografica orientale, l’arte sacra – comprendendo in questa definizione immagini e oggetti di culto – ha un ruolo simile a quello che la Trasfigurazione ha avuto nella vita di Gesù verso gli apostoli. Sul santo monte Gesù ha mutato l’aspetto consueto, pur restando sempre riconoscibile, e quella luce ha svelato la gloria divina nascosta dal suo corpo umano. Analogamente gli oggetti d’arte, pur non aggiungendo nulla di nuovo al mistero della fede, svelano, sia pur per un attimo, attraverso il fascino della loro bellezza, la gloria di Dio nascosta sotto l’aspetto materiale delle formule di fede. Anzi, come ricordava il Papa Paolo VI nel messaggio agli artisti del Concilio Vaticano II, l’esperienza del bello ha la capacità di condurre a Dio: «La bellezza, come la verità, mette la gioia nel cuore degli uomini ed è un frutto prezioso che resiste al logorio del tempo, che unisce le generazioni e le fa comunicare nell’ammirazione». 

8. Ancor di più, poiché Dio si è fatto carne e da invisibile si è reso visibile, è possibile rappresentare l’umanità di Cristo e anzi, le sue immagini esprimono un certo modo di essere presente di Cristo e di donare con la sua presenza la salvezza ed è per questo che la Chiesa le fa oggetto di una venerazione, anche se, ovviamente, inferiore a quella che essa rivolge a Dio e al Corpo di Cristo: «Ora, poiché Cristo è stato visto mediante la carne ed è vissuto in comunanza di vita con gli uomini, mi raffiguro ciò che di Dio è stato visto. Io non venero la materia, ma il Creatore della materia, che è diventato materia a causa mia, nella materia ha accettato di abitare e attraverso la materia ha operato la mia salvezza. Io non la onoro come Dio – non sia mai! … anche se è vero che il corpo di Dio è Dio… [Ma] io onoro e tratto con venerazione anche tutta l’altra materia attraverso la quale è avvenuta la mia salvezza, poiché essa è piena di potenza e di grazia divina» (Giovanni Damasceno, Primo discorso apologetico, 16).

9. Da queste premesse teologiche discendono alcune conseguenze pratiche sul piano “pastorale”, cioè inerenti l’attività della Chiesa nella sua quotidiana concretezza. Anzi, come ebbe a ricordare il Santo Padre ai membri della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa in occasione della seconda Assemblea plenaria «i beni culturali sono destinati alla promozione dell’uomo e, nel contesto ecclesiale, assumono un significato specifico in quanto sono ordinati all’evangelizzazione, al culto e alla carità» (Giovanni Paolo II, Messaggio alla seconda assemblea plenaria, 27 settembre 1997, n. 2). 

10. Sicuramente, la prima funzione dell’arte e dei beni culturali è di contribuire all’ “umanizzazione” dell’uomo (non sembri un gioco di parole), il che non è ancora evangelizzazione, ma ne costituisce la premessa. Tale è stato il senso delle medievali “arti liberali”, che può essere esteso ad ogni espressione della cultura, cioè di rendere libero l’uomo, affrancandolo da ciò che lo rende servo della terra e delle passioni. E analogamente l’Umanesimo, che tanto spazio ha dato alle arti e alle lettere, ha posto al centro della propria attenzione l’uomo e la sua dignità.

In un tentativo di attualizzazione di quanto appena detto, pensiamo al fatto che, probabilmente, in nessun contesto culturale come in quello attuale sia mai stata tributata tanta importanza all’immagine e come mai proprio oggi esse subiscano tante banalizzazioni e strumentalizzazioni. Educarsi alla contemplazione dell’arte religiosa, riappropriandosi dei significati di cui essa discretamente è veicolo, può costituire un antidoto al condizionamento dell’immagine spesso aggressiva della pubblicità, dell’immagine televisiva sovente dispersiva, dell’immagine pornografica distruttiva e disumanizzante.

Secondo la visione filosofica condivisa dalla Chiesa, si può partire dal bello come via per raggiungere il bene e il vero. È quindi possibile procedere dall’esperienza estetica ordinata al fatto religioso per muovere i sentimenti di chi è distratto dall’indifferentismo e dall’edonismo. È opera altamente civilizzante inscritta nel perseguimento del bene comune. 

12. Per quanto attiene invece al loro significato propriamente ecclesiale, i beni culturali hanno una funzione «nell’espressione e nell’inculturazione della fede e nel dialogo della Chiesa con l’umanità» (Giovanni Paolo II, Allocuzione alla prima assemblea plenaria, 12 ottobre 1995, n. 2), cioè nell’annuncio del vangelo ad intra e ad extra.

Nel primo ambito vanno posti il culto e la catechesi: «Nel contesto della nuova evangelizzazione il patrimonio storico-artistico della Chiesa a servizio della liturgia non può perdere la sua forza poiché deve annunciare il messaggio che contiene alla comunità dei fedeli e favorire la celebrazione dei divini misteri. Occorre quindi che l’eredità del passato non solamente sia valorizzata per il suo valore di memoria e per la sua bellezza artistica, ma anche sia adattata alle attuali esigenze cultuali e rituali. Occorre che le chiese siano rispettate nella loro complessità di aspetti al fine di non ridursi a contenitori museali di opere d’arte. Occorre che l’habitat liturgico sia fruito soprattutto nel momento celebrativo allorquando tutto ciò che è sensibile diventa realmente un bene culturale della comunità cristiana» (Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa, Presentazione delle conclusioni della terza assemblea plenaria, 15 luglio 2000, n. 5).

Se la dottrina giuridica civile indica come ragione della tutela e della valorizzazione del patrimonio culturale la preservazione della memoria nazionale e la promozione della cultura (cfr. Codice dei beni culturali e del paesaggio, D.L. 22 gennaio 2004, n. 42, Art. 1 § 2.), anche la Chiesa è dotata di una analoga sensibilità storica, solo che essa considera la “memoria” non soltanto un’operazione archeologica o culturale, ma una dimensione essenziale della vita di fede. Nelle debite proporzioni, infatti, anche il patrimonio artistico e storico è parte della traditio, la “Tradizione” (con la T maiuscola) attraverso la quale la fede è stata trasmessa nella Chiesa fino a noi. Si tratta dunque di un patrimonio vivo che testimonia la concretezza della fede di coloro che l’anno prodotto o commissionato e dialoga con la fede di coloro che anche oggi ne godono.

Per tale motivo, pur promuovendo la creazione di musei, la Chiesa preferisce fruire del proprio patrimonio nella sede per cui è stato pensato (chiese, sacrestie ecc.) e nella funzione per cui è stato prodotto (culto o altro).

Certo, talvolta solo i musei possono garantire la conservazione dei manufatti più fragili o permettere la valorizzazione e la conoscenza di oggetti che altrimenti resterebbero nascosti. Per questo anche la Pontificia Commissione che presiedo non ha mancato di parlare diffusamente dei musei ecclesiastici e di additarne le potenzialità pastorali (Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa, Lettera circolare La funzione pastorale dei musei ecclesiastici, 29 giugno 2001), ma sempre con un animus incline alla vitalizzazione. 

13. Lo stesso concetto di “Tradizione”, contrariamente a quanto potrebbe sembrare, implica però la possibilità di un adeguamento,  specie nelle forme esterne delle manifestazioni di fede. È quanto è accaduto, ad esempio, nelle riforme liturgiche che si sono susseguite, fino a quella promossa dal Concilio Vaticano II. Tali riforme hanno sempre comportato degli adattamenti dello spazio liturgico, della forma e disposizione degli arredi, degli oggetti e dei paramenti liturgici. È evidente che tale esigenza è primaria e deve integrarsi con l’altra della conservazione, che però non può ridursi a puro mantenimento dello status quo.

14. Pertanto, «Nella mens della Chiesa l’idea di conservazione dei beni culturali è indissolubilmente legata a quella della valorizzazione ai fini di un’utilizzazione pastorale e dell’evangelizzazione» (Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa, Presentazione delle conclusioni della terza assemblea plenaria, 15 luglio 2000, n. 7). La Chiesa cattolica non è un’istituzione appartenente ad un glorioso passato, ma è un organismo vivo, con tutte le esigenze di chi vive ed agisce secondo i propri fini e procede non sulle macerie del passato, ma in armonica continuità con esso e in eodem sensu.

Nella circolare Necessità e urgenza dell’inventariazione e catalogazione dei beni culturali della Chiesa (8 dicembre 1999) la Pontificia Commissione ha ampiamente descritto e raccomandato ai vescovi l’inventariazione e la catalogazione dei beni culturali, indicando come obiettivi, rispettivamente la tutela giuridica e la conoscenza scientifica del patrimonio mobile ed immobile, condividendo tale sollecitudine con le istituzioni dello Stato a ciò preposte.

Ma tale determinazione si congiunge inscindibilmente all’esigenza di incrementare il proprio patrimonio in riferimento alle attuali esigenze sue proprie. Infatti «essa non è soltanto custode del suo passato; essa è soprattutto animatrice del presente della comunità umana, in vista dell’edificazione del suo futuro. Essa, pertanto, incrementa continuamente il proprio patrimonio di beni culturali per rispondere alle esigenze di ogni epoca e cultura, e si preoccupa poi di consegnare quanto è stato realizzato alle generazioni successive, perché anch’esse possano abbeverarsi al grande fiume della traditio ecclesiae» (Giovanni Paolo II, Allocuzione alla terza assemblea plenaria, 31 marzo 2000, n. 4).

In tal modo, stimolata dalle nuove esigenze cultuali e pastorali e provocata dalle nuove sensibilità culturali, la Chiesa riscopre la propria e mai sopita vocazione ad essere committente d’arte, ponendosi di buon grado in dialogo con gli artisti contemporanei, i quali sono chiamati a “creare”, ad esprimersi in conformità alla mens del committente, mens che è custode di una verità immutabile ed è mossa da intenti salvifici missionari. 

15. La Chiesa ha la nativa necessità di essere missionaria, cioè di annunciare il Vangelo. Da qualche tempo la cosiddetta missione ad gentes, rivolta cioè alle persone che non conoscono Cristo, si è articolata e alle missioni tradizionali si è aggiunta la necessità di portare nuovamente l’annuncio cristiano a persone che sono battezzate ma hanno dimenticato la fede o a persone di altre religioni che vengono ad abitare nelle nostre città in modo sempre più massiccio. Per costoro i beni culturali della Chiesa devono poter costituire un mezzo attraverso cui conoscere la fede cristiana. Infatti l’arte cristiana «continua a rendere un suo singolare servizio comunicando con straordinaria efficacia, attraverso la bellezza delle forme sensibili la storia dell’alleanza tra Dio e l’uomo e la ricchezza del messaggio rivelato. Nei due millenni dell’era cristiana, essa è stata lo stupendo manifesto dell’ardore di tanti confessori della fede, ha espresso la consapevolezza della presenza di Dio tra i credenti, ha sostenuto la lode che da ogni angolo della terra la Chiesa innalza al Suo Signore» (Giovanni Paolo II, Messaggio alla seconda assemblea plenaria, 25 settembre 1997, n. 3).

Tale ruolo continua a svolgerlo anche oggi sia verso la cultura europea e occidentale, le cui radici sono cristiane, ma spesso dimentica di tali radici, sia verso altre culture con le quali la fede cristiana viene a contatto. Anche nel campo artistico la Chiesa utilizza la prassi dell’inculturazione, per utilizzare un neologismo caro al linguaggio teologico pastorale contemporaneo, e che consiste non nell’imporre assieme alla fede una cultura, ma nel far calare la fede nelle culture preesistenti l’evangelizzazione e sui valori autenticamente umani che esse esprimono. 

16. Un discorso analogo deve essere fatto anche per gli archivi e le biblioteche, il cosiddetto patrimonio storico e librario, al quale la Pontificia Commissione ha dedicato due lettere circolari: Le biblioteche ecclesiastiche nella missione della Chiesa, 19 marzo 1994 e La funzione pastorale degli archivi ecclesiastici, 2 febbraio 1997.

Le biblioteche ecclesiastiche sono «il luogo privilegiato della vera sapienza che narra la vita dell’uomo, gloria del Dio vivente, attraverso la fatica di quanti hanno cercato nei frammenti del creato e nell’intimo degli animi l’impronta della divina sostanza». Gli archivi ecclesiastici portano «alla meditazione sull’azione della divina Provvidenza nella storia, così che i documenti in essi conservati diventano memoria dell’evangelizzazione operata nel tempo ed autentico strumento di pastorale» (Giovanni Paolo II, Messaggio alla seconda assemblea plenaria, 25 settembre 1997, n. 2). Biblioteche ecclesiastiche ed archivi ecclesiastici, dunque, assolvono ad una importante funzione di promozione umana congiuntamente ad una funzione di evangelizzazione poiché, se da una parte incentivano il sapere e la memoria in generale, dall’altra promuovono specificamente la cultura di ispirazione cristiana e la storia della Chiesa. 

17. Da quanto detto finora risulta evidente che la Chiesa considera la tutela e la conservazione dei beni culturali una necessità e se proviamo ad enumerare gli ambiti di tale impegno troveremmo che essi in gran parte coincidono con quelli degli organismi statali centrali e periferici ad essi preposti:

- promozione dell’inventario e del catalogo dei beni culturali come strumenti rispettivamente giuridico e conoscitivo;

- promozione dei musei ecclesiastici (diocesano, capitolare ecc.), favorendo anche i musei cosiddetti “diffusi” sul territorio (musei parrocchiali ecc.) per la fruizione delle opere nei luoghi per cui sono stati pensati;

- promozione di un coscienzioso restauro dei manufatti;

- adeguamento del patrimonio storico e artistico della Chiesa alle attuali esigenze pastorali e, in particolare, liturgiche (spazi liturgici, paramenti e oggetti di culto ecc.);

- incremento del patrimonio storico e artistico, favorendo le espressioni dell’arte contemporanea nelle varie culture;

- responsabilizzazione delle comunità cristiane alla conservazione e all’incremento del loro patrimonio artistico-culturale incentivando il senso di appartenenza

- istruzione sulla storia e le forme dell’arte sacra e sulle sue potenzialità di veicolo del Vangelo, rivolgendosi specialmente ai giovani;

- responsabilizzazione di istituzioni ecclesiastiche (confraternite ecc.) nella cura del patrimonio storico e artistico di loro pertinenza e istituzione di forme di volontariato per la protezione e la gestione dei beni culturali.

18. In uno spirito di collaborazione fra le istituzioni dello Stato e della Chiesa non può dunque mancare la conoscenza e il riconoscimento delle rispettive esigenze, da parte della Chiesa mediante la conoscenza e il rispetto delle leggi civili di tutela e da parte delle istituzioni statali la conoscenza e il rispetto dei significati che la Chiesa attribuisce agli oggetti e alle esigenze del culto e delle evoluzioni delle forme di esercizio del medesimo.

Ho detto molte, forse troppe parole in questo “Spazio del silenzio”, dove aleggia la “pax”, quella pax che è dono e conquista. Dono di Dio da chiedere con la preghiera, conquista dell’uomo da conseguire col mistero del primato della ragione sulla forza, della giustizia oggettiva su quella soggettiva.

Spazio del silenzio! La storia dei restauri di questi monasteri sublacensi ci documenta la forza dello spirito che è quasi pietrificata – seppur dinamicamente agente – fra queste mura.

Silenzio scolpito, dipinto, conservato come approdo di uno sviluppo interiore. È condizione per percepire la forza della verità, il fascino del bene, la magia della bellezza: la voce di Dio! 

Mauro Piacenza
Presidente della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa

 

 
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