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S.E. Mons. Roland Minnerath                      
Arcivescovo di Digione, Francia                                                                         
 

Ecco cosa qualifica l’identità cattolica degli organismi caritativi
(Commento alla Lettera Apostolica in forma di "Motu Proprio"
Intima Ecclesi
æ natura, dell'11 novembre 2012)


La nozione d’identità cattolica appare già nelle prime parole del motu proprio. L’“intima natura della Chiesa” si deve manifestare nelle istituzioni e nell’opera di carità che essa promuove nel nome stesso della sua missione apostolica.
Il motu proprio ricorda opportunamente che “il servizio della carità” è parte integrante della missione di ogni Chiesa particolare e che dipende, a tale titolo, dal ministero del vescovo. In effetti, l’esercizio della carità è una delle tre dimensioni del servizio o diaconia della Chiesa, accanto all’annuncio del Vangelo e alla celebrazione dei sacramenti (cfr. Lumen gentium, n. 29). Il Codice di diritto canonico, che nei suoi libri II-III-IV segue la struttura della costituzione conciliare Lumen gentium, dedica il libro III alla funzione d’insegnamento e il libro IV alla funzione di santificazione. La funzione di governo, alla quale appartiene l’esercizio della carità, viene trattata più specificatamente nel quadro delle norme generali (can. 129-196). Ma l’esercizio della carità propriamente detto non riceve qui alcuna attenzione particolare. È questa lacuna che il motu proprio intende colmare. Occorreva dare al servizio caritativo un quadro giuridico e norme particolari. Questo rinquadramento è particolarmente opportuno, soprattutto per le Chiese particolari come quelle della Francia, dove la legge civile non permette alle diocesi di porre sotto una stessa struttura giuridica l’attività culturale, la missione d’insegnamento e l’azione caritativa della vita della Chiesa.
Il quadro canonico istituito dal motu proprio richiede dunque un adattamento specifico a ogni contesto giuridico civile. Le situazioni sono molto diverse e dipendono da ciò che il legislatore civile intende esattamente con «libertà religiosa» o «libertà di culto».
Nella tradizione concordataria, per esempio, viene spesso evidenziata una definizione della missione della Chiesa che include le tre componenti, ossia il culto, l’insegnamento e la carità. A mo’ d’esempio, citiamo l’Accordo di Revisione del Concordato italiano del 1984, art. 2, 1, che «riconosce alla Chiesa cattolica la piena libertà di svolgere la sua missione pastorale, educativa e caritativa, di evangelizzazione e di santificazione». Il diritto di gestire istituzioni caritative è dunque espressamente riconosciuto come proprio della missione apostolica della Chiesa. Facciamo un altro esempio. Nel preambolo dell’Accordo del 1997 con il Land del Mecklembourg - Pomerania Anteriore, che ha una bassa percentuale di popolazione cattolica, si legge: «Consapevoli dell’autonomia dello Stato e della Chiesa, nel rispetto reciproco del loro diritto all’autodeterminazione e nella disponibilità a cooperare, nel rispetto della libertà religiosa individuale, nel comune desiderio di rispettare e di salvaguardare la dignità umana e i diritti dell’uomo, nella convinzione che, in una società pluralista, la fede cristiana, la vita ecclesiale e l’azione caritativa offrono un contributo al bene comune e rafforzano il senso dell’interesse generale tra i cittadini». Segue l’articolo I: «Il Land assicura la protezione della Costituzione e della legge alla libertà di professare e di praticare la fede cattolica e all’azione caritativa della Chiesa cattolica». Non si può essere più chiari. In simili dispositivi legali, la norma canonica non si scontra con alcun ostacolo sul piano civile. Il perimetro della missione della Chiesa è lo stesso nel diritto civile e nel diritto canonico.
Laddove la legge civile impone una dissociazione giuridica tra le attività culturali da una parte e le attività educative e caritative dall’altra, la responsabilità del vescovo viene esercitata in modo diverso. Nel sistema francese, per esempio, le associazioni diocesane istituite nel 1923, dove i presidenti sono i vescovi, hanno solo un fine cultuale. L’insegnamento cattolico e le opere caritative della Chiesa devono essere giuridicamente configurati sotto forma di associazioni della legge del 1901, oppure di società immobiliari. Queste ultime possono finire col perdere di vista il fatto che gestiscono beni e attività ecclesiali e prendere quindi le distanze dall’autorità episcopale. Non c’è nulla di strano. Dopo decenni di gestione autonoma, molte associazioni a carattere educativo o caritativo hanno perso l’abitudine di ricorrere regolarmente all’autorità diocesana. Spesso questi organismi sono sottoposti a un coordinamento nazionale, avendo la Chiesa locale poca voce in capitolo.
L’identità cattolica deve essere tutelata in diversi punti: anzitutto nello statuto degli organismi caritativi che operano a nome della Chiesa. È un diritto riconosciuto a tutti i fedeli quello di associarsi per promuovere «iniziative di evangelizzazione, esercizio di opera di pietà o di carità» (can. 298, § 1). Inoltre queste associazioni devono ottenere la recognitio del vescovo locale (cfr. can. 289 § 3). Se vogliono acquistare personalità giuridica canonica (can. 322 § 2), i loro statuti devono essere esaminati e giudicati conformi alla dottrina e al diritto della Chiesa. Spetta ancora al vescovo incoraggiare tutte le iniziative apostoliche nel campo della carità, con il discernimento necessario riguardo al loro orientamento dottrinale. L’identità cattolica deve essere leggibile negli statuti di ogni associazione caritativa. La preoccupazione di mettere in risalto l’identità cattolica nelle operazioni di solidarietà è ancor più necessaria in quanto queste spesso procedono da iniziative private. L’identità cattolica deve essere ancora più evidente nelle associazioni pubbliche di fedeli, siano esse diocesane, nazionali o internazionali. Queste ultime vengono erette dall’autorità competente e possono operare in nome della Chiesa per i fini che si sono proposte di conseguire (cfr. can. 312).
L’identità cattolica deve essere tutelata anche nella denominazione. La questione della denominazione delle associazioni dei fedeli a fine caritativo è una leva di controllo del loro carattere ecclesiale. Nessuna associazione può avvalersi del marchio “cattolico” se non ha ricevuto l’espresso consenso dell’autorità competente (cfr. can. 300). In questi ultimi anni si è visto il termine “cattolico” scomparire da alcuni organi di stampa o dalle denominazioni di organizzazioni sindacali o umanitari, che, a quanto pare, verrebbero così accettate meglio nell’universo secolare. Si tratta di un progresso della libertà religiosa e della libertà in generale? Più di recente, in senso opposto, sono state osservate spinte identitarie che hanno portato alcuni giovani impegnati nella vita della Chiesa a creare associazioni civili definite “cattoliche” senza però rimettersi all’autorità episcopale.
L’identità cattolica viene tutelata anche attraverso il controllo effettivo dell’autorità episcopale. Il motu proprio rincentra sul ministero episcopale la responsabilità dell’intera azione caritativa diocesana. È bene ricordare che «il vescovo diocesano esercita la propria sollecitudine pastorale per il servizio della carità nella Chiesa particolare a lui affidata in qualità di pastore, guida e primo responsabile di tale servizio» (motu proprio art. 4 § 1). Questo controllo si deve esercitare prima di tutto sull’orientamento dottrinale delle istituzioni caritative. È indispensabile che le persone che vi si impegnano lo facciano nello spirito del Vangelo. Si tratta di vivere la solidarietà e l’amore verso il prossimo in modo coerente con la fede che ne è la fonte e con la speranza che ne è il motore. La solidarietà puramente orizzontale, scollegata da qualsiasi aspirazione spirituale forte, non è la caratteristica delle opere di carità cristiane. La carità rivela la fede e la fede spinge alla carità, in una visione dell’altro che non è solamente economica o sociologica, ma anche umana nella pienezza del termine, che vede nella persona bisognosa il volto di Cristo (cfr. Matteo 25, 31-46).
Quando delle istituzioni caritative si rendono autonome rispetto agli orientamenti pastorali dei vescovi, possono essere tentate di adottare il linguaggio, le procedure, le mentalità delle istituzioni secolari che hanno la loro stessa finalità. Occorre una volontà ben temprata, nel mondo della comunicazione mediatica attuale, per far valere una specificità spirituale nelle azioni di solidarietà umana.
L’identità cattolica si esprime nello spirito con cui viene esercitata la carità. La carità è la fede all’opera (cfr. Giudici 2, 14), ossia si riconosce dai suoi atti. Un atto è sempre l’espressione di un’intenzione e di una volontà. In un contesto secolarizzato, l’attenzione va prima di tutto alla prestazione, alla qualità del prodotto finale. Si è capaci di offrire mille pasti correttamente confezionati, che faranno certamente felici mille persone. Accanto a questa operazione ben riuscita — per la quale non ci si può che rallegrare — ecco una persona sola, senza fissa dimora, che condivide il proprio panino con un richiedente asilo. Qui, a essere in primo piano, è il gesto del cuore. Dove traspare la carità? I gesti da uomo a uomo, di attenzione personale per le forme di povertà vicine e visibili, sono al centro del servizio della carità secondo il Vangelo. La carità della Chiesa non si può diluire nelle azioni anonime a sostegno delle persone povere. Essa deve volgersi verso la sfera interiore, verso le povertà affettive, relazionali, verso le solitudini e gli abbandoni. La Chiesa non può scaricare il suo servizio della carità sulle strutture di assistenza e di solidarietà della società.
In nessun caso, il servizio caritativo della Chiesa deve «dissolversi nella comune organizzazione assistenziale» (proemio motu proprio). Il rischio non è affatto ipotetico. È la tendenza che presenta ogni azione ecclesiale che non si distingue, nella sua origine e nelle sue finalità, da azioni ispirate ad altre fonti.
Bisogna però precisare che ciò non comporta alcun giudizio sulla qualità della generosità dimostrata da iniziative diverse da quelle della Chiesa. Per i destinatari di tale generosità non ci sarà forse alcuna differenza. La differenza consiste nello sguardo rivolto alla persona e alle persone di cui ci si occupa. Il Vangelo invita a vedere il volto di Cristo nella persona che è nel bisogno, e dunque a tener conto di tutte le dimensioni del suo essere: fisica, psichica e spirituale. Se Cristo servo dei poveri è invisibile nell’azione della Chiesa, questa non ha svolto correttamente la propria missione.
L’identità cattolica si esprime nelle convenzioni che legano gli organismi cattolici ad altre iniziative. Gli organismi caritativi ecclesiali possono operare solo sotto forma di personalità giuridica civile. Si tratterà dunque, nel rispetto della struttura di tali associazioni, di non perdere di vista lo “spirito evangelico” che è la fonte della loro ispirazione.
Spesso grandi organismi caritativi cattolici sono legati per convenzione ad altri organismi analoghi senza specificità religiosa o persino antireligiosi. Si tende allora a cancellare la specificità cattolica in nome dell’efficacia dell’aiuto fornito. Come se il fatto di non dire da dove proviene il gesto lo rendesse più accettabile. Non bisogna dimenticare che la società secolare ha imparato dalla Chiesa a preoccuparsi per i poveri e che per secoli il loro sostentamento è stato lasciato all’iniziativa delle persone e delle istituzioni della Chiesa. In alcuni contesti di laicità aggressiva, non è addirittura più permesso organizzare un’assistenza di carattere religioso, soprattutto cristiana. Ci sono direttori di ospedali che rifiutano i cappellani cattolici, con la scusa che questi possono disturbare i pazienti. Ci sono direttori penitenziari che, con diversi pretesti, sopprimono le celebrazioni religiose.
La carità non discrimina tra quanti hanno bisogno di aiuto. Ma è diversa nella sua origine e nel suo slancio. Essa deve evitare «il rischio di dissolversi» nell’anonimato delle nostre società.
L’identità cattolica è anche nella proposta etica legata alle opere di carità. L’insegnamento dottrinale e morale della Chiesa è direttamente interessato negli organismi caritativi. L’azione caritativa riguarda le questioni del rispetto della vita, della sessualità umana, del matrimonio, dell’educazione, del lavoro, della dipendenza, tutti ambiti in cui la Chiesa professa una visione dell’uomo e della società che, nella maggior parte dei casi, non coincide con ciò che la società promuove nei suoi organismi di solidarietà. Programmi umanitari ufficiali possono essere condizionati, per esempio, dall’adozione di metodi contraccettivi, dalla banalizzazione dell’aborto, dalla giustificazione dell’eutanasia, o dalla ricerca sull’embrione umano, in contraddizione con ciò che la Chiesa considera moralmente giusto e buono. Occorre dunque vigilare affinché le iniziative ecclesiali possano smarcarsi dai metodi che tendono a imporre un’antropologia materialista e utilitarista senza riguardo per la dignità della persona umana.
Da qui la nozione di «testimonianza evangelica», che gli operatori della carità ecclesiale sono chiamati a rendere (cfr. motu proprio art. 7 § 2). Il modo in cui lo fanno è più importante del dono stesso. È ciò che ricorderà la persona che viene aiutata. I responsabili degli organismi cattolici devono avere la formazione necessaria per agire come persone inviate dalla Chiesa.
L’identità cattolica si tutela anche nei finanziamenti accettati o rifiutati. Gli organismi caritativi che hanno una struttura nazionale centralizzata dirigono operazioni di aiuto allo sviluppo in Paesi del terzo mondo senza che l’autorità episcopale di vigilanza possa controllare l’utilizzo finale delle donazioni. Queste operazioni di sviluppo possono a volte inscriversi in programmi che contengono clausole inammissibili per la Chiesa. È accaduto che alcuni programmi di sviluppo siano andati chiaramente a sostegno di regimi contrari ai diritti dell’uomo, soprattutto alla libertà religiosa. Il marchio “cattolico” deve essere difeso nell’analisi precisa della natura del destinatario e dell’uso che viene fatto delle donazioni. Quando questi organismi ecclesiali ricevono sovvenzioni da parte dello Stato, è indispensabile che possano conservare il controllo dei progetti per tutta la durata della loro esecuzione.
La società secolare ha la tendenza a imporre, in modo sempre più coercitivo, visioni globali della natura dell’essere umano, nei suoi rapporti con la società e con l’ambiente naturale. Una cappa di piombo ideologico ricopre molte iniziative che, con il pretesto dello sviluppo, fanno scivolare l’umanità verso orizzonti dove la libertà spirituale è compromessa. In questo nuovo contesto, che ha anche motivato la pubblicazione del motu proprio, la Chiesa «nella sua intima natura» ha la vocazione di servire come punto di riferimento per un’antropologia e un’ecologia nelle quali traspaiano la presenza e l’azione salvifica di Cristo, poiché «in lui l'amore di Dio è veramente perfetto» (1 Giovanni 2, 5).
 

L'OSSERVATORE ROMANO, giovedì 21 febbraio 2013, p. 7.

 

 

 

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