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 Pontifical Council for the Pastoral Care of Migrants and Itinerant People

People on the Move 

N° 94,  April 2004, pp. 99-108

Lettera di Francesca Cabrini*

Lucetta Scaraffia

Presentazione 

Il Congresso delle donne italiane, tenutosi a Roma il 29 Aprile (per felice coincidenza festa di Santa Caterina da Siena) del 1908 sotto il patronato del sindaco Nathan e alla presenza della regina Margherita, ha segnato un momento importante per la storia del femminismo italiano.

La presenza fra le relatrici delle esponenti dell’emancipazione di radice mazziniana, insieme alle socialiste e alle cattoliche di simpatie moderniste ne ha fatto un vero momento d’avanguardia nel dibattito sociale del paese. Ma, dopo giornate dedicate a denunce sociali e pro­grammi di assistenza e diprotezione della maternità ‑ temi tutti am­piamente condivisibili e condivisi ‑ le congressiste si sono spaccate su una questione spinosa, quella dell’insegnamento della religione catto­lica nelle scuole elementari. Nonostante le cattoliche, benché progres­siste, si fossero schierate a favore dell’insegnamento religioso, la loro posizione fu sconfitta dall'alleanza fra socialiste e laiche, che votarono entrambe per l’abolizione.

La discussione intorno a questo tema fece emergere con chiarezza che quasi tutti i gruppi femministi simpatizzavano per correnti massoni­che‑teosofiche fortemente contrarie alla Chiesa cattolica, vista come il peggiore nemico dell’emancipazione femminile.

La gerarchia ecclesiastica, da parte sua, spaventata dall’anticlericalismo emerso nel Congresso, decise immediatamente di opporre a questo femminismo laico ‑ che fino a questo momento, si era limitata a condannare – un’organizzazione femminile cattolica che operasse in primo luogo in difesa della fede. Il compito di organizzarla fu affidato da Pio X alla principessa Cristina Giustiniani Bandini, fondatrice dell’Unione fra le donne cattoliche, che ottenne un notevole seguito.

Nei resoconti e commenti al Congresso non e stata presa in considera­zione, finora, la lettera di Francesca Cabrini alle organizzatrici, dalla quale si deduce che la futura santa era stata invitata al Congresso manon aveva potuto partecipare dati i molteplici impegni per il mondo. Madre Cabrini sembra essere stata invitata, più che come religiosa, come esperta di organizzazioni assistenziali e buona conoscitrice della situazione degli emigrati italiani all’estero. Come si deduce dal testo, infatti, le era stato richiesto proprio di fare una relazione sul tema delle donne emigrate, argomento ampiamente affrontato, nella lettera.

La prima parte della lettera, quella in cui la Cabrini si scusa per non partecipare al Congresso elencando i suoi impegni, da un’immagine veramente manageriale della religiosa, che viveva l’ultima fase della sua vita (sarebbe morta a Chicago nel 1917) raccogliendo i frutti delle mille iniziative assistenziali fondate in Europa e nelle Americhe negli anni precedenti. Abituata a traversare continuamente l’Oceano per fondare nuovi istituti o sorvegliare l’ampliamento di quelli esistenti, la Cabrini era abituata a trattare affari con capitalisti di tutti i paesi, a programmare investimenti per cifre elevate, a organizzare scuole ed ospedali. Il suo esempio di emancipazione femminile, che si staccava nettamente da quello delle organizzatrici del convegno, piene di teoria ma poco aduse a una vera pratica autonoma di intervento nella vita sociale, avrebbe dovuto seminare in queste ultime qualche dubbio re­lativamente all’oscurantismo antifemminista della Chiesa cattolica.

In quel momento storico, infatti, le religiose di vita attiva godevano di un livello di emancipazione di fatto che non era riconosciuto dalle lai­che dei paesi europei: basti pensare che solo nel 1919 fu concessa alle donne italiane la capacità giuridica di gestire il proprio patrimonio, mentre le fondatrici e le superiore delle congregazioni di vita attiva amministravano, già dai primi decenni dell’Ottocento, opere di assi­stenza spesso di dimensioni internazionali.

Madre Cabrini in questa lettera dà anche prova di non comuni capa­cità di osservazione e di analisi delle condizioni sociali degli emigrati, in particolare di quelle delle donne. Un’imprenditrice di alto profitto, e insieme un’intellettuale capace di scrivere pagine efficaci di denun­cia sociale, si univano, infatti, all’intensa spiritualità della santa mis­sionaria.

Le donne del Congresso applaudirono la lettera, votarono qualche forma di solidarietà alle emigrate, ma non si accorsero di avere di fronte un eccezionale esempio di emancipazione, una donna che sapeva fare come e meglio degli uomini ma che aveva mantenuto viva dentro di sé la sensibilità femminile ad aiutare chi soffre, a intervenire concretamente per lenire non solo le difficoltà materiali ma soprattutto la solitudine e il vuoto spirituale degli esseri umani. Una donna che aveva riunito accanto a sé un “esercito di donne” a cui aveva insegnato l’autonomia e la responsabilità, di cui aveva valorizzato le doti umane senza mai perdere di vista l’obbiettivo di crescita spirituale che era ragione della loro scelta di vita.

Non si erano accorte che Francesca Cabrini praticava e proponeva alle sue suore un modello di emancipazione basato sull’assunzione delle responsabilità, sul fatto che le donne si conquistavano rispetto e autonomia dando prova di saper fare le cose, ben lontano dal “femminismo dei diritti” che esse propugnavano.

 

Quinta seduta*

9 aprile, ore 9. 40

Presidenza della Contessa Danieli CAMOZZI

“La sua lettera mi trova di ritorno da un viaggio attraverso le sterminate pianure della Pampa centrale, e in procinto di imbarcarmi per il Brasile. Da alcuni giorni essa è sulla mia tavola fra un mucchio di lettere che chiedono risposta, di carte d’affari che vogliono essere sbrigate, mescolate a piani di nuove costruzioni, a progetti di proprietà da comprarsi e a copie di contratti da conchiudersi. Se lo immagina il mio lavoro? Ma che vuole? Tutte queste nostre case dell’Argentina richiedono ampliamento dei loro quartieri, ormai troppo ristretti, e questo non è problema di facile soluzione, per chi non ha capitali e si trova di fronte ai prezzi esorbitanti delle proprietà argentine, specialmente in Buenos Aires.

Per quanto dunque desiderosa di compiacere Lei, mia buona amica, e le Signore del Congresso, trovandomi in viaggio, in mezzo, a un cumulo di occupazioni, non potrei davvero scriver cosa degna di occupare anche per pochi momenti l’attenzione del nobile consesso di cui ella fa parte; adunanza, m’immagino, eletta di quanto più colto e gentile possiede il Bel Paese. Mi limiterò quindi, per non parer scortese, a dirle alcune delle impressioni ricevute nei frequenti miei viaggi alle due Americhe sulle condizioni degli emigrati ivi residenti.

Ho sott’occhio il memorandum che ella mi ha mandato, e vedo che a molti dei punti che interessano questo Congresso in riguardo all’Emigrazione, rispondono ampiamente e con accuratezza i Bollettini ufficiali del benemerito Commissariato dell’Emigrazione, il quale, specialmente in questi ultimi anni, ha tanto esteso la sua opera benefica per la protezione dei nostri italiani all’estero, e i cui lavori procedono con attività e intensità pari all’intelligenza e nobiltà d’animo di coloro che ne fanno parte.

Se vorrà dar un’occhiata ai bollettini fin qui pubblicati, vi troverà quelle statistiche e quei dati che potranno esserle utili, e interessanti articoli, assai più atti ad illustrare il soggetto delle loro discussioni che le povere parole di una donna, la quale ha solo studiato praticamente e venendo a contatto col povero questo difficile problema, che da tanto dà pensare ai nostri grandi sociologi, e che quindi non saprebbe parlarne che molto modestamente.

La prima conoscenza che io ho avuta delle nostre donne emigranti e stata a bordo di un piroscafo che mi portava in America, quando per ordine di Leone XIII mi recavo negli Stati Uniti a prendervi cura dei poveri italiani ivi emigrati. Quella mente eletta aveva antiveduto lo sviluppo che avrebbe preso l’emigrazione in quei paesi, e sin dal 1888 aveva desiderato che io mi vi recassi in loro aiuto. In ventisei viaggi di mare sono stata compagna delle nostre buone emigranti, e nessuna o ben poche ho incontrato che traversassero l’ampio mare attratte da sogni dorati di prosperità e ricchezza ottenute in terra straniera; le ho trovate sempre, nella proporzione del 25 al 30% sul numero degli uomini, fedeli compagne degli operai emigranti, figlie che dividevano la sorte dei genitori, madri che emigravano a tutela dei figli lontani, e mi sono sempre sembrate piuttosto rassegnate alla loro sorte che le separava dal paese natio, anziché entusiaste e piene di fiducia nel paese che diverrebbe loro patria d’adozione.

Ho avuto poi molte occasioni di vedere le nostre emigrate già da anni stabilite in America, e, debbo dirlo ad onore del nostro paese, e di loro stesse, ne ho sempre ritratto favorevole impressione.

Naturalmente le loro condizioni e attribuzioni variano in un paese che occupa tutto l’emisfero occidentale con tanta varietà di clima e di costumi. In New York, in Chicago e in altri centri dell’America del Nord le ho trovate sparse in ogni genere di manifatture. Le fabbriche di carta, di tabacco, di confetti, di scatole, di fiori offrono persino alle fanciulle un impiego sicuro con un guadagno che varia secondo l’età e abilità dell’operaia dai 4 ai 10 dollari per settimana. Per quelle che sanno cucire, le manifatture di confezioni offrono una buona retribuzione talvolta di scellini 14 alla settimana; e tale paga aumenta per le sarte, le modiste, ecc. Come cameriere, bambinaie e domestiche sono molto ricercate, e impiegate come tali ricevono buoni salari, varianti dai 20 ai 40 dollari mensili. È da deplorarsi che le idee moderne prendano piede anche in mezzo a loro e diminuiscano con rincrescimento generale il numero delle buone e fedeli domestiche per accrescere le file di quella vera schiera di donne che ogni mattina popola le manifatture, e la sera, stanca e accasciata dal lavoro, frastornata dal rumore delle macchine, ne esce per riversarsi come una fiumana non nella sola New York, ma nei paesi adiacenti. Quanto più confacente alle loro abitudini e alla loro salute sarebbe il pacifico lavoro domestico! Ma l’aria che spira al presente è d’indipendenza, non si vuole più soggezione a nessuna autorità, non si sente più volentieri la voce che insegnava: Figli, ubbidite ai vostri genitori ... servi, state soggetti al vostri padroni ... e quindi in un secolo di tanto progresso le piaghe sociali aumentano invece di diminuire ...

Fortunatamente non tutte le nostre italiane sono travolte dalla vita febbrile dei principali centri americani dove l’individuo non diviene più che una ruota di quel grande ingranaggio, la quale gira da mane a sera senza posa, intorno a un solo perno, a un solo centro: il dolla­ro! Anche nei quartieri popolatissimi di New York e Chicago, là do­ve è più fitto l’elemento italiano si da formare vere colonie, sono a migliaia le nostre buone donne che attendono alle domestiche fac­cende, occupate dei propri figli, e lo si può dire con orgoglio, ripe­tendo le parole che mi rivolgeva anni sono un gran funzionario del­la Metropoli americana: Nei quartieri degli italiani regna la moralità e l’ordine assai meglio che in ogni altro quartiere di emigrati; i lega­mi di famiglia sono forti sempre quali Dio li ha stretti col sacro vin­colo del matrimonio, la figliolanza è numerosissima, la delinquenza assai rara. Questi fatti sono riconosciuti e apprezzati dagli america­ni stessi. Li ho sempre visti rispettare la donna italiana, non importa quale fosse la sua posizione sociale, ben sapendo che nella fede profondamente radicata nell’animo suo, checché se ne voglia dire, ella porta con sé il sentimento della propria dignità, la fedeltà alla propria famiglia, l’onestà, l’operosità, il sacrificio di tutta se stessa per il bene de suoi cari.

Le nostre donne emigrate compiono prodigi d’attività. Quante volte le ho viste nelle immense pianure della Luisiana dividere coi loro mariti le fatiche della coltura del cotone e dello zucchero! Coltivare il terreno in California e nel Colorado, e riporre solerti nelle casse i prodotti primaticci che il loro campiello manda ai lontani mercati dell’Est! Anche nelle pianure dell’America del Sud le ho viste quasi piccole regine di quelle immense fazendas o estancias dove i capi di bestiame si contano a migliaia, sempre accoppiando il lavoro solerte alla bontà dei costumi e all’amore della famiglia. Dovunque poi è generalmente la donna che attende alle piccole botteghe dei nostri italiani, e mentre il marito lavora il campo, la donna, guidando ella stessa il suo cavallo per miglia e miglia, porta i suoi prodotti al mercato. Alla donna italiana emigrata in America non manca il lavoro. Certo che come tra gli uomini sono preferiti i braccianti e i commercianti ai professionisti, i quali hanno poca probabilità d’impiego senza una buona conoscenza della lingua del paese, così avviene delle donne. Una nostra maestra, per esempio, vi troverebbe ben poco da fare.

E questo mi ha portata a rispondere ad una sua domanda: Si mandano a scuola i bambini? Veramente se qualche mamma negligente si dimenticasse in America della legge d’istruzione obbligatoria, scorsi non molti giorni dal principio dell’anno scolastico si troverebbe in casa il truant officer che le si metterebbe al fianco e non desisterebbe finché i figli non avessero acquistato l’abitudine d’intervenire alla scuola, rinchiudendo i restii in istituti appositi. Ma questa necessità non avviene troppo di frequente, che se qualche scappatello è costretto a fare più o meno lunga dimora nella truant scool credo che lo si debba più alle attrattive che offrono ai nostri fanciulli le grandi città o la libertà dei campi, piuttosto che a negligenza da parte delle madri. Dirò anzi che esse, in massima, ambiscono per i loro figli una buona istruzione. Ormai non è più tempo in cui gli italiani per odio di razza siano condannati all’ostracismo; ormai vivono mescolati con gli americani, spesso accasati con essi, e hanno saputo farsi strada in ogni genere d’impieghi e d’industrie. Non ci vuol quindi molto tempo perché le nostre emigrate risentano l’influenza del nuovo ambiente, desiderino alzarsi nella scala sociale, e soprattutto volendo il bene dei loro figli si attengano al mezzo più efficace di procurarlo, facendo si che siano istruiti bene nella lingua del paese. Ho notato anzi in molte, grande ansietà riguardo alla scelta della scuola. Quelle piccole scuole private, tenute da maestri italiani, non ispirano molta fiducia. Aggiungerà di più che nei loro primordi le nostre stesse scuole, ormai frequentate da più di 5000 bambini nei soli Stati Uniti, destavano un certo qual sospetto. “Ma voi siete italiane”, ci si andava dicendo “non potrete insegnar l’inglese!”. E soltanto quando furono assicurate che la lingua del paese sarebbe stata insegnata da suore competenti, e che l’italiano sarebbe stato introdotto come materia di complemento, si decisero ad affidarci le loro figliole.

Si sa che per molte famiglie italiane la questione del mandare le proprie bambine alla scuola non è delle più semplici. Fin che si tratta di maschi, tutte lo sappiamo, è un sollievo per la mamma la campana della scuola; ma quanto alle bambine è un altro par di maniche. Ho spesso veduto nelle scuole nostre fanciulle di tredici o quattordici anni, primogenite di una famiglia di otto o dieci, dover conciliare molte cose apparentemente inconciliabili: l’intervenire regolarmente alla scuola, il vigilare sui fratellini minori, il dividere colla mamma le cure domestiche, e quel che è più, vegliare sino a tarda notte per aiutare la mamma nel cucire il lavoro di commissione con cui cerca di accrescere i proventi della numerosa famiglia, per cui è troppo magro il salario del marito.

E vero che, eccezione fatta dei momenti speciali di crisi, in America c’è lavoro per chiunque abbia un paio di braccia e che il costo della vita non e sproporzionato ai salari che l’operaio riceve. Ma spesso un uomo solo deve lavorare per molti, e poi vengono i tempi di di­sgrazie domestiche, d’infortuni, di malattia, e allora la donna viene in soccorso; e martire dell’amore alla propria famiglia, la vedrete di giorno affidare i minori suoi figlioletti alle day‑nur‑series, i maggiori alle scuole, e andarsene a lavorare alla fabbrica, riservando per la se­ra le fatiche domestiche.

Inconsciamente ho parlato più delle condizioni delle nostre italiane negli Stati Uniti che di quelle di altri paesi, poiché mi sembra che negli Stati Uniti dell’Unione Americana l’emigrazione abbia caratteri più accentuati e speciali.

Nell’America del Sud l’emigrato si unisce più facilmente a quelli del paese; la lingua tanto simile alla nostra, le abitudini più omogenee, fa natura del lavoro in cui sono impiegati gli uomini, per la maggior parte agricoltori, fanno si che la vita nel paesi dell’America latina sia più facile per gli italiani. Non così nell’America del Nord, e se, come ho detto più sopra, le condizioni delle nostre italiane possono dirsi in massima soddisfacenti, queste non risultano tali se non dopo un intenso lavoro, direi meglio con la parola inglese struggle, per cui assai più han diritto all’interesse e alla simpatia dei buoni che le loro sorelle dell’America del Sud.

Invitata ad adoperarmi in favore degli emigrati, e rispondendo questo invito a un’intima attrattiva dell’animo mio, ho stabilito per essi orfanotrofi, scuole e ospedali nei principali centri di emigrazione, e so che questi istituti vengono efficacemente in aiuto dei nostri poveri connazionali. Educano i loro figli, prendono cura di quelli che l’infortunio sul lavoro, specialmente nelle miniere, o domestiche sventure hanno reso orfani, li curano quando soccombendo sotto il peso della malattia, sono costretti a riparar all’ospedale, ovvero quando malati, ma potendo tuttora reggersi in piedi accorrono al dispensario per farsi curare senza abbandonare la famiglia. Ma tutto questo e poco; ho calcolato che saranno circa 50.000 le persone beneficate annualmente da queste istituzioni; e questa cifra sarebbe ben piccola se non vi fosse congiunta la parte più bella, più nobile, più santa, più umanitaria della missione che io ho tanto a cuore fra gli emigrati, quella che compion le Suore nostre nei vari paesi. Buoni sono gli orfanotrofi, eccellenti le scuole, migliori gli ospedali, ma non a tutti si può porgere l’obolo della carità, né tutti ne hanno bisogno ... Vi è però, una carità di cui tutti i nostri emigrati hanno bisogno, carità che si deve esercitare con tutti, senza distinzione e specialmente colla donna.

Se il cammino della vita e per pochi cosparso di rose, esso è ben più seminato di spine per il povero, e l’emigrato in massima e povero. I lavori e l’interesse di cotesto nobile Congresso si accentrano appunto, non sul capitalista italiano che, dopo anni d’intelligente lavoro, onora la sua patria all’estero, ma sull’emigrato; sul povero, che tra­dito da tanti nelle sue più nobili aspirazioni, perché si è spento in lui quel solo raggio di fede che poteva dargli lume nel cammino della vita, ormai brancola, non sa dove appoggiarsi, incerto se rivolgersi alle perniciose dottrine del socialismo, alle sovversive teorie dell’anarchismo, o abbandonarsi al vortice che sembra minacciare di travolgere l’umana società.

Se per ogni povero è difficile la vita, doppiamente lo è per l’emigrato, in paese straniero. Come ho detto più sopra, la domestica quiete e prosperità è comperata spesso dalle nostre donne italiane con gravi sacrifici. Che cosa ci vuole per loro? Che cosa ci vuole per quelle migliaia di operai che col sudore della fronte guadagnano il pane quotidiano, che nelle imprese edilizie, nelle miniere, nei colossali lavori ferroviari mettono a repentaglio la loro vita, e spesso, martiri oscuri ed ignorati del lavoro, trovano la fine della loro laboriosa carriera lontano dalla famiglia, privi di ogni conforto, negli oscuri antri di una miniera? Che cosa ci vuole per il malato che geme, accasciato dal dolore nelle monumentali istituzioni che la carità americana ha eretto a suo sollievo? Per il povero prigioniero che tra i ferri, e forse colla minaccia del patibolo e della sedia elettrica, sconta con ore di indicibile angoscia il delitto di un momento, ovvero, sorte assai più sventurata, quello che altri ha commesso?

Per tutti quei nostri fratelli e connazionali ci vuole la parola amica del conforto, l’incoraggiamento, l’aiuto materiale quando sia necessario, e soprattutto il tener desto in loro quel sentimento religioso che è il più gran dono che ha fatto loro la patria nostra; quella fede profonda che, radicata negli animi loro, è il legame più forte che li tiene uniti al paese natio. La fede che addita loro un termine felice delle loro fatiche e sofferenze; che mentre impone loro seri obblighi, l’osservanza esatta dei doveri del proprio stato, la rassegnazione alla propria sorte qualunque essa sia, mentre proibisce loro l’invidiare i potenti, i ricchi, i più fortunati, addita loro come un faro luminoso di salute il bel giorno in cui tutti i membri dell’umana famiglia si troveranno congiunti in un sacro vincolo di carità in quella vera nostra patria, da cui nessuno emigrerà, perché ivi sarà eterno il gaudio.

Poco tempo fa gli Stati Uniti si sono scossi e hanno detto: “Come educhiamo la nostra gioventù? Come pretendiamo di crescere una generazione fedele alla nazione senza istillare in essa la conoscenza di Dio?”. Il problema per loro è grave assai, dati gli elementi molto diversi di cui si compone il paese.

A noi l’Italia, culla e madre di civiltà e di ogni cosa bella e buona e grande, ha dato in prezioso retaggio la fede. Conserviamola nel cuore dei nostri giovani, conserviamola nel cuore dei nostri emigrati, e specialmente delle donne, sulle cui ginocchia si formano le nazioni, e allora vedremo molto diminuite le schiere di coloro che, dopo essersi ribellati a Dio, cercano di atterrare ogni autorità costituita e quindi di travolgere nella rivoluzione il nostro bel paese e il mondo tutto.

Eccole, cara contessa, alcune delle mie impressioni sulle nostre emigrate. Credo risponderanno alla conoscenza che ella, nella sua posizione e per l’interesse che prende all’emigrazione, ha ricavato dal suo frequente contatto colle nostre italiane. In questa lusinga le rinnovo l’attestazione della mia sincera stima e cordiale amicizia.
 
* Ringraziamo “Bailamme”, Rivista di Spiritualità e Politica, (Numero 28/5 – Nuova Serie Gennaio-Dicembre 2002), e l’Autrice per la gentile concessione di pubblicazione.
* Lettera pubblicata in: Consiglio nazionale delle donne italiane, Atti del I° Congresso Nazionale donne italiane, Roma, 24‑30 aprile, 1908. Stabilimento tipografico della società editrice laziale, 1912.
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