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CONVEGNO DELL'ASSOCIAZIONE INTERNAZIONALE "CARITÀ POLITICA"

CONFERENZA DEL CARDINALE TARCISIO BERTONE

Università Cattolica del Sacro Cuore
Mercoledì, 20 giugno 2007

 

1. Sono lieto di poter concludere il ciclo semestrale di conferenze che quest'anno l'Associazione Internazionale "Carità Politica" ha dedicato all'approfondimento di alcuni aspetti della prima Enciclica di Benedetto XVI "Deus caritas est", un documento che è stato accolto non senza una certa sorpresa per i suoi contenuti, ma anche con tanta attenzione e simpatia dentro e fuori della Chiesa cattolica.

Ringrazio il Prof. Alfredo Luciani per l'amabile invito e soprattutto per l'impegno Suo personale e dell'Associazione da lui guidata "a collegare gli Ambasciatori accreditati presso la Santa Sede, fomentando la collaborazione tra di loro, e organizzando incontri per l'approfondimento di tematiche di carattere internazionale" (Decreto del Pontificio Consiglio per i Laici, 8 dicembre 2001).

Il mio saluto va a voi, cari Ambasciatori accreditati presso la Santa Sede, che avete voluto intervenire a questo momento di ascolto e di dialogo. Mi rallegro dell'esistenza di questo "forum" che consente a voi di approfondire temi che fanno parte dell'insegnamento della Chiesa cattolica e del Santo Padre e che stanno al centro dell'azione della Santa Sede in campo internazionale.

Saluto inoltre gli altri intervenuti, soprattutto i rappresentanti del mondo della comunicazione:  grazie per l'attenzione a questa iniziativa!

A me tocca affrontare stasera, a partire dall'Enciclica "Deus caritas est", una tematica che sta molto a cuore a coloro che ci hanno stasera invitato:  cioè i rapporti fra carità e politica. Infatti, l'Associazione Internazionale "Carità Politica" ha come fine proprio quello di "irradiare il messaggio cristiano nella vita sociale e politica in quanto cammino di santità" (Decreto del Pontificio Consiglio per i Laici, 8 dicembre 2001).

2. I rapporti fra carità e politica sono illustrati da Papa Benedetto XVI nel contesto della trattazione del tema "Giustizia e carità" (cfr "Deus caritas est", nn. 26-29), nella seconda parte dell'Enciclica, che è dedicata alla "Caritas - L'esercizio dell'amore da parte della Chiesa quale comunità d'amore". L'ambito è dunque quello dei rapporti interpersonali, soprattutto di quelli che si realizzano o dovrebbero realizzarsi nella convivenza sociale umana.

Non bisogna, però, dimenticare che la relazione fra giustizia e amore è trattata anche nella prima parte del documento pontificio, là dove si parla dei rapporti che intercorrono fra Dio e l'umanità. Infatti, esponendo la descrizione che di essi ci dà l'Antico Testamento, Benedetto XVI osserva:  "L'eros di Dio per l'uomo... è insieme totalmente agape. Non soltanto perché viene donato del tutto gratuitamente, senza alcun merito precedente, ma anche perché è amore che perdona... L'amore appassionato di Dio per il suo popolo - per l'uomo - è nello stesso tempo un amore che perdona. Esso è talmente grande da rivolgere Dio contro se stesso, il suo amore contro la sua giustizia. Il cristiano vede, in questo, già profilarsi velatamente il mistero della Croce:  Dio ama tanto l'uomo che, facendosi uomo Egli stesso, lo segue fin nella morte e in questo modo riconcilia giustizia e amore" (n. 9). Infatti, in Gesù Cristo che è "l'amore incarnato di Dio", "nella sua morte in croce si compie quel volgersi di Dio contro se stesso nel quale Egli si dona per rialzare l'uomo e salvarlo - amore, questo, nella sua forma più radicale" (n. 12). Il Papa indica quindi nella Croce del Signore il "luogo" dove si risolve l'apparente antinomia fra giustizia ed amore. Ho voluto ricordare questo perché, come si legge in un recente Messaggio del Santo Padre alla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, "il convincimento della Chiesa circa l'inseparabilità di giustizia e carità nasce, in ultima analisi, dall'esperienza che essa fa della rivelazione dell'infinita giustizia e misericordia di Dio in Cristo Gesù" (Messaggio del 28 aprile 2007).

Non possiamo non rilevare che da quando è risuonato nel mondo lo sconvolgente annuncio di S. Giovanni nella sua Prima Lettera:  "Dio è amore" (1Gv 4, 16) la riflessione sul nesso fra queste due virtù - sia per quanto riguarda Dio nel suo rapporto con l'umanità sia a proposito delle relazioni interpersonali - investe la riflessione teologica, l'esperienza mistica e il pensiero filosofico e giuridico. Così vediamo, ad esempio, la teologia interrogarsi con S. Tommaso d'Aquino all'inizio della sua Somma Teologica su come si compongano in Dio "iustitia et misericordia" (S. Th. I, 21). Egli scrive qui che "misericordia non tollit iustitiam, sed est quaedam iustitiae plenitudo" (S.Th, I, 21, 3, ad II). Oppure abbiamo la risposta sapienziale che ci offre S. Teresa di Gesù Bambino, la quale appunto "ha aiutato a guarire le anime dai rigori e dalle paure della dottrina giansenista, più incline a sottolineare la giustizia di Dio che non la sua divina misericordia. Ha contemplato ed adorato nella misericordia di Dio tutte le perfezioni divine, perché "perfino la giustizia di Dio (e forse più di ogni altra perfezione) mi sembra rivestita d'amore" (Ms A 83 v)" (Giovanni Paolo II, Lettera Apostolica "Divini Amoris Scientia"). Anche i giuristi e i canonisti, fin dal Medio Evo, hanno riflettuto su carità e diritto. "Iuste iudicans misericordiam cum iustitia servat" si legge, ad esempio, nella "Concordia discordantium canonum" di Graziano, l'iniziatore riconosciuto della scienza canonica. Permettetemi a questo riguardo di richiamarmi alla mia esperienza di docente e studioso di morale sociale e di diritto canonico e di menzionare l'ampia discussione che si è aperta dopo il Concilio Vaticano II su una concretizzazione dell'antinomia fra giustizia e carità. Lo stesso Magistero è più volte ritornato su questo tema, soprattutto quando ha affrontato i problemi e le sfide della società umana. Forse, a questo riguardo basterà un semplice dato:  la Costituzione pastorale "Gaudium et Spes" del Vaticano II si sofferma almeno sette volte sul rapporto fra queste due virtù (cfr nn. 21, 30, 72, 76-78 e 93)! Da un lato, il Magistero dichiara che non vi può essere vera carità se si nega la giustizia:  "La carità non sarà mai vera carità se non terrà sempre conto della giustizia" (Pio XI, Enciclica "Divini Redemptoris", n. 49). Dall'altro, esso fa rilevare che la giustizia ha bisogno di aprirsi agli orizzonti più ampi della carità. Né la carità rende inutile la giustizia, né, viceversa, questa determina che vi possa non essere più bisogno della carità.

a) Interiorità della giustizia cristiana (e sue finalità)

Se la giustizia in genere si realizza fra due esseri nella misura in cui sono altri, e perde la sua ragion d'essere nella misura in cui sono uno, la giustizia cristiana ha una sfumatura che la giustizia naturale (pagana) non conosce, perché l'unità fra i cristiani è stata infinitamente rinsaldata dal Cristo (GS, n. 32). L'incarnazione di Cristo ha approfondito la pratica della giustizia; ha mescolato alla sua obbligazione limite un senso d'amore che indica che il "minimum" oggettivo deve essere sorpassato dal dono personale (GS, n. 78 per la realizzazione della pace).

Sotto la spinta della carità di cui essa è mediazione, vede più largamente i diritti degli altri, perché questi sono amati; anzi, non soddisfatta di rispettare i diritti altrui essa tende positivamente a promuoverli con efficacia.

Senza l'ispirazione della carità, solo a stento si potrebbe osservare la giustizia, data l'inclinazione dell'uomo all'egoismo e alla superbia, che ostacola l'integrale esercizio della giustizia specie della giustizia sociale. Per cui "le opere della giustizia si devono realizzare con l'ispirazione della carità" (GS, n. 72). La giustizia non interviene nel campo dell'esteriorità biologica se non per creare in questa un ambiente dove possa penetrare e vivere l'amore. Così la giustizia non ha senso per se stessa. Non acquista il suo senso se non permette di amare. Privata dalla radice della carità porta alla divisione, cessa di essere mediazione di amore. "Summum ius summa iniuria" dicevano gli antichi, e non c'è ingiustizia più grande verso un uomo che quella di arrestarsi alla giustizia come alla suprema relazione con lui. È rifiutargli di entrare in comunione personale d'amore, per bloccarsi a una "comunicazione oggettiva"; è considerarlo come una cosa estranea...

La soluzione soddisfacente delle questioni sociali non può venire dalla giustizia rivendicativa. Solo la "virtù" della giustizia può dirigerci verso l'amore mutuo, a condizione di essere animata dalla carità (cfr Pio XI, "Quadragesimo Anno", p. III, Legge della carità; Giovanni XXIII, "Mater et Magistra", n. 235).

La virtù della giustizia comincia dove l'istinto cambia senso, perché assunto dalla carità (non più rivendicazione ma riconoscimento). Mentre la giustizia istintiva tende a "discutere la questione delle ingiustizie commesse dall'altro contro di me", suscitando così nell'altro la reazione di difesa, aggravando le divergenze, la virtù della giustizia cristiana capovolge il movimento:  invece di rivendicare i miei diritti, dirige i miei atti al rispetto dei diritti dell'altro, alla materia possibile delle sue rivendicazioni... L'amore mi fa uscire dal chiuso di me stesso, per comunicare con la volontà altrui.

b) Interdipendenza tra carità e giustizia secondo una visione cristiana della vita morale
L'istinto di giustizia è come il centro del nostro essere sociale; è uno degli istinti che si sublimano meno facilmente (cfr la difficoltà di far penetrare la giustizia cristiana, animata dalla carità, nelle masse operaie!).

Si vede quindi il ruolo primario della virtù morale infusa e della virtù teologale della carità:  la giustizia è radicalmente impotente a riuscire nel suo compito se è sganciata dalla carità, la sua vera ragion d'essere.

Se la carità e la giustizia sono da considerarsi le norme fondamentali della vita sociale (l'ordine sociale deve essere edificato nella giustizia e deve essere vivificato dalla carità:  GS, n. 26), evidentemente l'amore di Dio e del prossimo sono da proclamare il primo e il massimo comandamento (GS, n. 24).

Se volessimo ora nuovamente definire la giustizia cristiana, si potrebbe definire così:  "la virtù morale che ci fa rispettare la persona del nostro fratello in Cristo, almeno secondo i suoi diritti, in vista di assicurare tra lui e me il minimo di relazioni necessarie a una unione di carità" (P. Carpentier).

Così si toglie dall'esercizio della giustizia ogni specie di giuridismo, infatti si considera l'altro come persona, anzi come fratello in Cristo. La distinzione delle persone - un quid essenziale alla giustizia - viene conservata (le persone sono destinate a divenire interiori le une alle altre, senza tuttavia perdere la propria personalità!); ma non è separata dalla loro unione nella famiglia umana e cristiana.

La carità considera che gli uomini "creati a immagine di Dio, avendo la stessa origine, da Cristo redenti, godono della stessa vocazione e del medesimo destino divino" (GS, n. 29). Considera i cristiani incorporati a Cristo, costituenti una nuova fraterna comunione nel suo Corpo che è la Chiesa, in cui tutti, figli del Padre, sono uniti nella solidarietà del Corpo Mistico (GS, n. 32).

"Infatti, la vera unione sociale esterna fluisce dall'unione delle menti e dei cuori, ossia da quella fede e carità, con cui l'unità della Chiesa è stata indissolubilmente fondata nello Spirito Santo. La forza che la Chiesa riesce ad immettere nella società umana oggi, consiste in quella fede e carità portate ad efficacia di vita" (GS, n. 42).

Così la carità si può dire il motore della giustizia. Virtù dinamica quanto nessun'altra, in quanto, infusa dallo Spirito Santo, inclina e sospinge dall'interno, per istinto soprannaturale, a compiere gli obblighi della giustizia, anzi a interiorizzarli e a superarli nel dono di sé.

Come si vede, la prima Enciclica di Benedetto XVI si è occupata di un tema davvero tra i più grandi ed affascinanti del pensiero degli ultimi due millenni. Ed è su questo sfondo di vaste proporzioni che noi possiamo ora considerare alcuni aspetti del rapporto fra carità e politica, il quale ci si mostra come una modalità in cui si declina la relazione fra giustizia e amore.

3. Infatti, secondo il Santo Padre esiste un nesso profondo fra la politica e la giustizia. Egli afferma che "compito centrale della politica" è quello di edificare "il giusto ordine della società e dello Stato" (n. 28). Di fronte a delle concezioni di basso profilo o meramente pragmatiche ed utilitaristiche della politica, il Papa invita ad avere una visione "alta" di essa:  "la giustizia è lo scopo e quindi anche la misura intrinseca di ogni politica. La politica è più che una semplice tecnica per la definizione dei pubblici ordinamenti:  la sua origine e il suo scopo si trovano appunto nella giustizia" (id.).

Se questo è il contenuto e il fine della politica, allora ci si deve porre la questione "più radicale:  che cosa è la giustizia?" (id.). Il contenuto che si attribuisce alla parola "giustizia" è di vitale importanza. Qui sorge però un ulteriore interrogativo:  dove la società trova la vera risposta a questo quesito fondamentale? L'Enciclica "Deus caritas est" ne dà una assai chiara ed illuminante. Riprendendo la visione cattolica sui rapporti tra fede e ragione, il Papa afferma che la ragione umana è di per sé in grado di rispondere alla domanda:  "che cos'è la giustizia?", ma d'altra parte, lasciata alle sue sole capacità, ciò diventa assai difficoltoso. Scrive Benedetto XVI:  "Questo è un problema che riguarda la ragione pratica; ma per poter operare rettamente, la ragione deve sempre di nuovo essere purificata, perché il suo accecamento etico, derivante dal prevalere dell'interesse e del potere che l'abbagliano, è un pericolo mai totalmente eliminabile. In questo punto politica e fede si toccano.

Senz'altro, la fede ha la sua specifica natura di incontro con il Dio vivente - un incontro che ci apre nuovi orizzonti molto al di là dell'ambito proprio della ragione. Ma al contempo essa è una forza purificatrice per la ragione stessa. Partendo dalla prospettiva di Dio, la libera dai suoi accecamenti e perciò l'aiuta ad essere meglio se stessa. La fede permette alla ragione di svolgere in modo migliore il suo compito e di vedere meglio ciò che le è proprio" (id.).

In questo modo il Santo Padre delinea allora il servizio che la Chiesa offre all'uomo e alla società, un servizio che è anch'esso mosso dalla carità. Non dobbiamo, infatti, cadere in una visione riduttiva dell'amore cristiano quasi che riguardi solo i bisogni materiali della persona. Infatti, "non di solo pane vive l'uomo" (Mt 4, 4), e chi vuol rispondere alle povertà dell'uomo non può dimenticare che questi ha fame anche di verità, di senso, di libertà, di dignità. Lo ricordava Paolo VI in un altro contesto:  "è eminente forma di carità verso le anime" (Enciclica "Humanae Vitae", n. 28) offrire il dono della verità attinta dalla fede.

Come si concretizza allora questo atto di carità della Chiesa che mira a purificare la ragione affinché conosca la verità circa la giustizia? La risposta di Benedetto XVI è molto chiara:  attraverso la Dottrina sociale della Chiesa. Essa "vuole ... contribuire alla purificazione della ragione e recare il proprio aiuto per far sì che ciò che è giusto possa, qui ed ora, essere riconosciuto e poi anche realizzato". Non si tratta affatto di "conferire alla Chiesa un potere sullo Stato" o di "imporre a coloro che non condividono la fede prospettive e modi di comportamento che appartengono a questa". Infatti, da un lato, "la dottrina sociale della Chiesa argomenta a partire dalla ragione e dal diritto naturale, cioè a partire da ciò che è conforme alla natura di ogni essere umano", e, dall'altra, intende "servire la formazione della coscienza nella politica e contribuire affinché cresca la percezione delle vere esigenze della giustizia e, insieme, la disponibilità ad agire in base ad esse, anche quando ciò contrastasse con situazioni di interesse personale". È dunque soprattutto attraverso il Magistero sociale del Papa e dei Vescovi che la Chiesa offre per amore dell'uomo e per il vero bene della società "il suo contributo specifico, affinché le esigenze della giustizia diventino comprensibili e politicamente realizzabili" (n. 28).

Ecco così enucleato un primo rapporto esistente fra carità e politica:  è vera carità il donare all'uomo e alla società quella luce di verità che purifica la ragione, mettendola in grado di riconoscere la giustizia e perseguirla nell'azione politica. La Chiesa con il suo insegnamento indica perciò dei valori che sono irrinunciabili se si vogliono instaurare nella società rapporti veramente giusti e costruire l'autentico bene comune. È per questo che auspica un'azione di tutti per "fronteggiare le grandi sfide attuali, rappresentate dalle guerre e dal terrorismo, dalla fame e dalla sete, dalla estrema povertà di tanti esseri umani, da alcune terribili epidemie, ma anche dalla tutela della vita umana in tutte le sue fasi, dal concepimento alla morte naturale, e dalla promozione della famiglia, fondata sul matrimonio e prima responsabile dell'educazione" (Discorso di Benedetto XVI al Presidente della Repubblica Italiana, 20 novembre 2006). Se ciò fosse maggiormente compreso, anche dagli stessi cattolici, verrebbero meno le ricorrenti e pretestuose accuse di ingerenza che spesso oggi vengono accampate, quando i Pastori della Chiesa ricordano ai fedeli e a tutti gli uomini di buona volontà quei "valori e principi antropologici ed etici radicati nella natura dell'essere umano, riconoscibili anche attraverso il retto uso della ragione" (id.). Come ricorda il Papa nell'Enciclica, "la Chiesa non può e non deve prendere nelle sue mani la battaglia politica per realizzare la società più giusta possibile. Non può e non deve mettersi al posto dello Stato. Ma non può e non deve neanche restare ai margini nella lotta per la giustizia. Deve inserirsi in essa per la via dell'argomentazione razionale e deve risvegliare le forze spirituali, senza le quali la giustizia, che sempre richiede anche rinunce, non può affermarsi e prosperare" (n. 28).

Da quanto detto discende come corollario il dovere per tutti i fedeli di conoscere e far conoscere la Dottrina sociale della Chiesa, come ha ricordato di recente Benedetto XVI anche ai Vescovi dell'America Latina ad Aparecida:  "Sarà anche necessaria una catechesi sociale ed un'adeguata formazione nella dottrina sociale della Chiesa, essendo molto utile per ciò il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa" (Discorso sessione inaugurale della V Conferenza Generale dell'Episcopato Latinoamericano e dei Caraibi, 13 maggio 2007). So bene, e per questo la ringrazio, quanto l'Associazione Internazionale "Carità Politica" si prodighi in tal senso:  questo stesso nostro incontro testimonia la sua intensa attività per far conoscere la Dottrina sociale della Chiesa.

4. Esiste un secondo aspetto del rapporto carità-giustizia che l'Enciclica "Deus caritas est" invita a considerare. Si tratta di un'applicazione dell'insegnamento del Concilio Vaticano II sulla vocazione e missione dei laici nella Chiesa. Infatti, la Costituzione Dogmatica "Lumen Gentium" ha affermato che "il carattere secolare è proprio e peculiare dei laici... Per loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio. Vivono nel secolo, cioè implicati in tutti i diversi doveri e lavori del mondo e nelle ordinarie condizioni della vita familiare e sociale, di cui la loro esistenza è come intessuta. Ivi sono da Dio chiamati a contribuire, quasi dall'interno a modo di fermento, alla santificazione del mondo esercitando il proprio ufficio sotto la guida dello spirito evangelico, e in questo modo a manifestare Cristo agli altri principalmente con la testimonianza della loro stessa vita e col fulgore della loro fede, della loro speranza e carità. A loro quindi particolarmente spetta di illuminare e ordinare tutte le cose temporali, alle quali sono strettamente legati, in modo che siano fatte e crescano costantemente secondo il Cristo e siano di lode al Creatore e Redentore" (n. 31).

È fuor di dubbio che fra le realtà temporali che il laico deve ordinare c'è anche la politica. Infatti, "per animare cristianamente l'ordine temporale, nel senso detto di servire la persona e la società, i fedeli laici non possono affatto abdicare alla partecipazione alla "politica", ossia alla molteplice e varia azione economica, sociale, legislativa, amministrativa e culturale, destinata a promuovere organicamente e istituzionalmente il bene comune" (Giovanni Paolo II, Esortazione Apostolica "Christifideles Laici", n. 42). Il Concilio Vaticano II ha un'affermazione assai solenne circa l'impegno politico dei fedeli laici:  "La Chiesa stima degna di lode e di considerazione l'opera di coloro che per servire gli uomini si dedicano al bene della cosa pubblica e assumono il peso delle relative responsabilità" ("Gaudium et Spes", n. 75). Nel Corpo Mistico di Cristo che è la Chiesa le diverse membra hanno vocazioni e missioni diverse, e per i laici ciò comporta anche il diretto impegno nella politica. È alla luce di ciò che bisogna comprendere adeguatamente l'affermazione che "la Chiesa non fa politica":  essa riguarda la Chiesa come istituzione, riguarda il suo Magistero, riguarda i chierici e i religiosi che non possono avere "parte attiva nei partiti politici e nella guida di associazioni sindacali" (can. 287 2), ma non certo i battezzati laici!

Benedetto XVI nell'Enciclica ribadisce dunque che "il compito immediato di operare per un giusto ordine nella società è... proprio dei fedeli laici" (n. 29). Essi lo fanno "cooperando con gli altri cittadini", ma anche questo loro impegno deve venir animato dalla carità, in modo che "la loro attività politica, (sia) vissuta come "carità sociale"" (n. 29). Già Pio XI insegnava che "il campo della politica... è il campo della più vasta carità, della carità politica, a cui si potrebbe dire null'altro, all'infuori della religione, essere superiore" (cit. in D. Bertetto [a cura di], Discorsi di Pio XI, vol. I, Torino 1961, 744-745). E Paolo VI definiva l'impegno politico un modo arduo e complesso di vivere la carità (cfr Esortazione Apostolica "Octogesima adveniens", n. 46).

Per comprendere in tutta la loro portata queste affermazioni occorre considerare la dottrina cattolica sulla Grazia, che ci presenta l'effetto trasformante che ha l'infusione dello stesso amore divino, operata dallo Spirito Santo nel battezzato. Grazie a questo Suo dono, che è appunto la virtù teologale della carità, gli atti d'amore del fedele hanno una portata infinitamente grande, divina, perché hanno una motivazione, un fine, una misura, una forza ed un risultato che li collegano alla stessa Trinità. Così il laico cattolico impegnato in politica esteriormente agisce come le altre persone che condividono tale attività, ma lo fa mosso da un'energia e con delle motivazioni e dei criteri che non sono meramente umani. La carità trasforma dal di dentro il battezzato ed anche l'ambito politico della sua azione, aprendolo a dimensioni ben più grandi rispetto alle già nobili aspirazioni dell'uomo di retto sentire impegnato nell'azione politica.

Quindi, per esempio, è anche perché "l'amore di Cristo ci spinge" (2 Cor 5, 14), che i laici devono vincere la tentazione di astenersi dall'impegno politico. Insegnava al riguardo Giovanni Paolo II:  "Le accuse di arrivismo, di idolatria del potere, di egoismo e di corruzione che non infrequentemente vengono rivolte agli uomini del governo, del parlamento, della classe dominante, del partito politico; come pure l'opinione non poco diffusa che la politica sia un luogo di necessario pericolo morale, non giustificano minimamente né lo scetticismo né l'assenteismo dei cristiani per la cosa pubblica" (Giovanni Paolo II, Esortazione Apostolica "Christifideles Laici", n. 42).

Così pure è per imitare da vicino il loro Maestro che "non è venuto per essere servito ma per servire" (Mc 10, 45), che il battezzato impegnato in politica svolgerà questi compiti con "lo spirito di servizio, che solo, unitamente alla necessaria competenza ed efficienza, può rendere "trasparente" o "pulita" l'attività degli uomini politici, come del resto la gente giustamente esige" (id.). Certo tutti coloro che operano nella politica devono vivere questo spirito di servizio, ma a maggior ragione il credente, il quale deve obbedire al comandamento e all'esempio del Signore sostenuto dalla forza della grazia.

Tutto questo ci porta ad una prima conclusione:  se è vero che "tutti coloro che credono nel Cristo di qualsiasi stato o rango, sono chiamati alla pienezza della vita cristiana e alla perfezione della carità" (Costituzione Dogmatica "Lumen Gentium", n. 40), questa santità la si può raggiungere allora anche vivendo la carità sociale e politica. Il laico cristiano impegnato nel mondo della politica può e deve farsi santo! E deve farlo non nonostante la sua attività politica, ma vivendo la carità di Cristo in tale impegno. Non si tratta di una mera possibilità:  la Chiesa ci pone davanti l'esempio vivido di politici santi in tutte le epoche della sua storia fino ad oggi. Pensiamo a re Stefano d'Ungheria, all'imperatore Enrico II o al monarca Luigi IX di Francia, al santo cancelliere inglese, il martire Tommaso Moro, per arrivare all'ultimo imperatore d'Austria Carlo d'Asburgo o all'assessore comunale di Rimini il beato Alberto Marvelli. Le cause di beatificazione in corso per De Gasperi e Schumann dicono che questo catalogo di politici santi non è affatto chiuso!

Importante è però che i fedeli impegnati in politica attingano abbondantemente luce e forza dalla Parola di Dio e dai Sacramenti, specialmente l'Eucaristia, come insegna Benedetto XVI nella recente Esortazione Apostolica "Sacramentum Caritatis":  "Il mistero dell'Eucaristia ci abilita e ci spinge ad un impegno coraggioso nelle strutture di questo mondo per portarvi quella novità di rapporti che ha nel dono di Dio la sua fonte inesauribile... Il cristiano laico in particolare, formato alla scuola dell'Eucaristia, è chiamato ad assumere direttamente la propria responsabilità politica e sociale" (n. 91).

5. Vi è un ultimo aspetto del rapporto della carità con la giustizia e la politica che il Santo Padre così illustra nella sua Enciclica:  "L'amore - caritas - sarà sempre necessario, anche nella società più giusta. Non c'è nessun ordinamento statale giusto che possa rendere superfluo il servizio dell'amore. Chi vuole sbarazzarsi dell'amore si dispone a sbarazzarsi dell'uomo in quanto uomo. Ci sarà sempre sofferenza che necessita di consolazione e di aiuto. Sempre ci sarà solitudine. Sempre ci saranno anche situazioni di necessità materiale nelle quali è indispensabile un aiuto nella linea di un concreto amore per il prossimo. Lo Stato che vuole provvedere a tutto, che assorbe tutto in sé, diventa in definitiva un'istanza burocratica che non può assicurare l'essenziale di cui l'uomo sofferente - ogni uomo - ha bisogno:  l'amorevole dedizione personale... L'affermazione secondo la quale le strutture giuste renderebbero superflue le opere di carità di fatto nasconde una concezione materialistica dell'uomo" (n. 28). Benedetto XVI riprende qui la riflessione del suo Predecessore, Giovanni Paolo II, che nell'Enciclica "Dives in misericordia" poneva appunto la questione:  "Basta la giustizia?" (cfr n. 12).

Tra l'altro, quell'indimenticato Pontefice rilevava che la carità ha anche la funzione di smascherare progetti politici, i quali, benché si approprino dell'ideale di una società giusta, in realtà conculcano l'uomo. Invitava infatti ad "avvedersi che molto spesso i programmi che prendono avvio dall'idea di giustizia e che debbono servire alla sua attuazione nella convivenza degli uomini, dei gruppi e delle società umane, in pratica subiscono deformazioni. Benché essi continuino a richiamarsi alla medesima idea di giustizia, tuttavia l'esperienza dimostra che sulla giustizia hanno preso il sopravvento altre forze negative, quali il rancore, l'odio e perfino la crudeltà... Questa specie di abuso dell'idea di giustizia e la pratica alterazione di essa attestano quanto l'azione umana possa allontanarsi dalla giustizia stessa, pur se venga intrapresa nel suo nome... L'esperienza del passato e del nostro tempo dimostra che la giustizia da sola non basta e che, anzi, può condurre alla negazione e all'annientamento di se stessa, se non si consente a quella forza più profonda, che è l'amore, di plasmare la vita umana nelle sue varie dimensioni" (id.).

Per queste ragioni l'Enciclica "Deus caritas est" rivendica un altro caposaldo della visione cristiana della società:  il principio di sussidiarietà:  "Non uno Stato che regoli e domini tutto è ciò che ci occorre, ma invece uno Stato che generosamente riconosca e sostenga... le iniziative che sorgono dalle diverse forze sociali e uniscono spontaneità e vicinanza agli uomini bisognosi di aiuto. La Chiesa è una di queste forze vive:  in essa pulsa la dinamica dell'amore suscitato dallo Spirito di Cristo. Questo amore non offre agli uomini solamente un aiuto materiale, ma anche ristoro e cura dell'anima, un aiuto spesso più necessario del sostegno materiale" (n. 28). Il Santo Padre si riferisce qui soprattutto alle "organizzazioni caritative della Chiesa (che) costituiscono un suo "opus proprium", un compito a lei congeniale, nel quale essa non collabora collateralmente, ma agisce come soggetto direttamente responsabile, facendo quello che corrisponde alla sua natura" (n. 29).

Oggi l'azione caritativa svolta dalla Chiesa riscuote sia presso i cittadini sia presso le Autorità civili un vivo apprezzamento per la molteplicità delle sue attenzioni e per lo spirito di abnegazione di chi in esse opera. Negli incontri che il Santo Padre e noi suoi collaboratori abbiamo con personalità politiche e di governo di ogni parte del mondo non è infrequente raccogliere espressioni di riconoscimento per l'azione caritativa della Chiesa e delle sue articolazioni. Perfino nell'attuale contesto secolarizzato, che tante volte si mostra perfino ostile verso la Chiesa e i cristiani, non viene meno l'ammirazione per quanto i discepoli del Signore e le Comunità cristiane fanno per alleviare tante forme di povertà e di bisogno.

Anche il non credente non può fare a meno di inchinarsi con rispetto profondo davanti a figure come quelle di Madre Teresa di Calcutta. Certo, come il Santo Padre richiama nell'Enciclica, la carità "non deve essere un mezzo in funzione di ciò che oggi viene indicato come proselitismo. L'amore è gratuito; non viene esercitato per raggiungere altri scopi" (n. 31), tuttavia essa esercita una grande attrazione anche su chi non crede.

È in forza di questo apprezzamento che le legislazioni statali riconoscono agli enti e alle attività caritative della Chiesa cattolica esenzioni, agevolazioni o finanziamenti:  si tratta di forme di riconoscimento dell'importante apporto che da essi deriva al bene della società civile e dei suoi membri. Anzi, l'attività caritativa della Chiesa diviene una delle motivazioni che inducono gli Stati ad addivenire ad Accordi bilaterali con la Santa Sede ed è fra le questioni che tali patti internazionali regolano. Mi limito a due esempi:  uno dalla Germania e uno dalla Croazia. Nel preambolo dell'Accordo stipulato nel 2005 con Città Libera e Anseatica di Amburgo si fa menzione della "persuasione che, nella società pluralista di una Città cosmopolitica che si concepisce come mediatrice tra i popoli, la fede cristiana, la vita cristiana e l'azione caritativa danno nello stesso tempo anche un contributo al bene comune come pure al rafforzamento del senso di responsabilità civica dei cittadini". Similmente nel preambolo dell'Accordo con la Croazia circa questioni economiche (1998), si menziona "il grande ruolo della Chiesa Cattolica nell'attività sociale, educativa, culturale e caritativa". L'art. 1 dell'Accordo con Amburgo riconosce "la protezione costituzionale e legale alla libertà di professare e praticare la fede cattolica e all'azione caritativa della Chiesa cattolica", mentre l'art. 10 - che tratta dell'assistenza sociale della Chiesa - recita:  "La Chiesa e le sue istituzioni caritative assumono, nell'adempimento della loro missione, compiti di assistenza sanitaria e sociale come anche di promozione della famiglia e di cura pastorale degli stranieri. A tal fine mantengono case di assistenza, ospedali, servizi e altre istituzioni. Le istituzioni ecclesiastiche hanno diritto a sovvenzioni alle medesime condizioni che le altre istituzioni statali o non statali dell'assistenza sociale". Nell'Accordo tra la Santa Sede e la Repubblica di Croazia circa questioni giuridiche del 1996 l'art. 17 si occupa interamente dell'attività caritativa, stabilendo che:  1) "la Chiesa Cattolica può liberamente organizzare istituzioni intese ad assicurare attività caritative ed assistenza sociale"; 2) "le istituzioni ecclesiastiche a scopo assistenziale-caritativo o le istituzioni che dipendono dalla Chiesa... godono degli stessi diritti e privilegi delle istituzioni statali fondate per le stesse finalità"; 3) le due Alte Parti "si accorderanno sulla mutua collaborazione delle proprie istituzioni assistenziali-caritative". Come si vede, lo stesso strumento diplomatico pattizio mostra quale sia l'atteggiamento che una politica giusta deve assumere verso l'attività caritativa ecclesiale.

6. Seguendo l'insegnamento della "Deus caritas est" abbiamo dunque cercato di evidenziare almeno tre dimensioni del rapporto fra carità e politica: 
1) è atto di carità della Chiesa verso l'uomo e la società il suo insegnamento in materia sociale, il quale permette alla ragione purificata di conoscere la verità circa la giustizia, che la politica è chiamata a servire e raggiungere;
2) soprattutto i laici, in forza della loro vocazione secolare, sono chiamati a vivere l'impegno politico non solo come diritto-dovere civico, ma come ambito di esercizio della virtù teologale della carità fino alla sua perfezione che è la santità;
3) atteso che la giustizia non basterà mai da sola, lo Stato deve riconoscere il ruolo dell'attività caritativa svolta dalla Chiesa e dalle sue istituzioni, applicando nei loro riguardi il principio di sussidiarietà ed offrendo ad esse anche il suo concreto appoggio.

Mi auguro che queste considerazioni, che non hanno certo la pretesa di essere esaustive, possano ispirare un'ulteriore riflessione e l'azione che voi svolgete nei rispettivi campi d'impegno, così come il dialogo che ora vogliamo iniziare.

   

 

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