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INCONTRO CON I PARROCI E IL CLERO DELLA DIOCESI DI ROMA

DISCORSO DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI

Aula delle Benedizioni
Giovedì, 22 febbraio 2007

 

La prima domanda è stata posta da Mons. Pasquale Silla, Parroco Rettore del Santuario di Santa Maria del Divino Amore a Castel di Leva, il quale ha ricordato la visita compiuta da Benedetto XVI il 1 maggio 2006 e la consegna lasciata alla comunità parrocchiale: svolgere nel Santuario e dal Santuario una fervente preghiera per il Vescovo di Roma, per i suoi Collaboratori, per tutto il Clero e i fedeli della Diocesi. In risposta a questa richiesta, la comunità del Divino Amore si è impegnata a qualificare al massimo la preghiera in tutte le sue forme — soprattutto quella liturgica — perché sia assidua e concorde: uno dei frutti di questo impegno è l'adorazione eucaristica perpetua che dal prossimo 25 marzo sarà avviata nel Santuario. Anche sul fronte della carità, il Santuario si sta impegnando ad allargare i suoi orizzonti, soprattutto nel campo dell'accoglienza dei minori, delle famiglie, degli anziani. In questa prospettiva, Mons. Silla ha chiesto a Benedetto XVI indicazioni concrete per poter realizzare sempre più efficacemente la missione del Santuario mariano nella Diocesi.

Vorrei innanzitutto dire che sono contento e felice di sentirmi qui realmente Vescovo di una grande Diocesi. Il Cardinale Vicario ha detto che vi aspettate luce e conforto. E devo dire che vedere tanti sacerdoti di tutte le generazioni è luce e conforto per me. Già dalla prima domanda ho anche e soprattutto imparato: e questo mi sembra anche un elemento essenziale del nostro incontro. Qui posso sentire la voce viva e concreta dei Parroci, le loro esperienze pastorali, e così posso soprattutto apprendere anch'io la vostra situazione concreta, le questioni che avete, le esperienze che fate, le difficoltà. Così posso viverle non solo in modo astratto, ma in un concreto colloquio con la vita reale delle parrocchie.

Vengo a questa prima domanda. Mi sembra che Lei abbia dato essenzialmente anche la risposta riguardo a quello che può fare questo Santuario... So che è il Santuario mariano più amato dai romani. Io stesso, quando sono venuto diverse volte nel Santuario antico, ho fatto esperienza di questa pietà secolare. Si sente la presenza della preghiera di generazioni e si tocca quasi con mano la presenza materna della Madonna. Si può realmente vivere un incontro con la devozione mariana dei secoli, con i desideri, le necessità, i bisogni, le sofferenze, anche le gioie delle generazioni nell'incontro con Maria. Così questo Santuario, al quale vengono le persone con le loro speranze, questioni, domande, sofferenze, è un fatto essenziale per la Diocesi di Roma. Sempre più vediamo che i Santuari sono una fonte di vita e di fede nella Chiesa universale, e così anche nella Chiesa di Roma. Nella mia terra ho avuto l'esperienza dei pellegrinaggi a piedi al nostro Santuario nazionale di Altötting. È una grande missione popolare. Ci vanno soprattutto i giovani e, pellegrinando a piedi per tre giorni, vivono nell'atmosfera della preghiera, dell'esame di coscienza, quasi riscoprono la loro coscienza cristiana di fede. Questi tre giorni di pellegrinaggio a piedi sono giorni di confessione, di preghiera, sono un vero cammino verso la Madonna, verso la famiglia di Dio e poi verso l'Eucaristia. Andando a piedi, vanno alla Madonna e vanno, con la Madonna, al Signore, all'incontro eucaristico, preparandosi con la confessione al rinnovamento interiore. Vivono di nuovo la realtà eucaristica  del Signore che dà se stesso, come la Madonna ha dato la propria carne al Signore, aprendo così la porta all'Incarnazione. La Madonna ha dato la carne per l'Incarnazione e così ha reso possibile l'Eucaristia, nella quale riceviamo la Carne che è il Pane per il mondo. Andando all’incontro con la Madonna, gli stessi giovani imparano ad offrire la propria carne, la vita di ogni giorno perché sia consegnata al Signore. E imparano a credere, a dire, man mano, «Sì» al Signore.

Perciò direi, per ritornare alla domanda, che il Santuario come tale, come luogo di preghiera, di confessione, di celebrazione dell'Eucaristia, è un grande servizio, nella Chiesa di oggi, per la Diocesi di Roma. Quindi penso che l'essenziale servizio, del quale Lei, del resto, ha parlato in modo concreto, è proprio quello di offrirsi come luogo di preghiera, di vita sacramentale e di vita di carità realizzata. Lei, se ho capito bene, ha parlato di quattro dimensioni della preghiera. La prima è quella personale. E qui Maria ci mostra la strada. San Luca ci dice due volte che la Vergine “serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore” (2,19; cfr 2,51). Era una persona in colloquio con Dio, con la Parola di Dio, e anche con gli avvenimenti tramite i quali Dio parlava con Lei. Il «Magnificat» è un «tessuto» fatto di parole della Sacra Scrittura e ci mostra come Maria abbia vissuto in un colloquio permanente con la Parola di Dio e, così, con Dio stesso. Naturalmente, poi, nella vita insieme con il Signore, è stata sempre in colloquio con Cristo, con il Figlio di Dio e con il Dio trinitario. Quindi impariamo da Maria a parlare personalmente con il Signore, ponderando e conservando nella nostra vita e nel nostro cuore le parole di Dio, perché diventino nutrimento vero per ciascuno. Così Maria ci guida in una scuola di preghiera, in un contatto personale e profondo con Dio.

La seconda dimensione della quale Lei ha parlato è la preghiera liturgica. Nella Liturgia il Signore ci insegna a pregare, prima dandoci la sua Parola, poi introducendoci nella Preghiera eucaristica alla comunione con il suo mistero di vita, di Croce e di Risurrezione. San Paolo ha detto una volta che “nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare” (Rm 8,26): noi non sappiamo come pregare, cosa dire a Dio. Perciò Dio ci ha dato le parole della preghiera, sia nel Salterio, sia nelle grandi preghiere della sacra Liturgia, sia proprio nella Liturgia eucaristica stessa. Qui ci insegna a pregare. Noi entriamo nella preghiera formatasi nei secoli sotto l'ispirazione dello Spirito Santo e ci uniamo al colloquio di Cristo con il  Padre. Quindi la Liturgia è soprattutto preghiera: prima ascolto e poi risposta, sia nel Salmo responsoriale sia nella preghiera della Chiesa, sia nella grande Preghiera eucaristica. Noi la celebriamo bene se la celebriamo in atteggiamento «orante», unendoci al mistero di Cristo e al suo colloquio di Figlio col Padre. Se celebriamo l'Eucaristia in questo modo, come ascolto prima, poi come risposta, quindi come preghiera con le parole indicate dallo Spirito Santo, la celebriamo bene. E la gente viene attirata attraverso la nostra preghiera comune nel novero dei figli di Dio.

La terza dimensione è quella della pietà popolare. Un importante Documento della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti parla di questa pietà popolare e ci indica come «guidarla». La pietà popolare è una nostra forza, perché si tratta di preghiere molto radicate nel cuore delle persone. Anche persone che sono un po' lontane dalla vita della Chiesa e non hanno grande comprensione della fede sono toccate nel cuore da questa preghiera. Si deve solo «illuminare» questi gesti, «purificare» questa tradizione affinché diventi vita attuale della Chiesa.

Poi, l'adorazione eucaristica. Sono molto grato perché sempre più si rinnova l'adorazione eucaristica. Durante il Sinodo sull'Eucaristia i Vescovi hanno parlato molto delle loro esperienze, di come ritorna nuova vita nelle comunità con questa adorazione, anche notturna, e di come proprio così nascono anche nuove vocazioni. Posso dire che fra poco firmerò l’Esortazione post-sinodale sull’Eucaristia, che sarà poi a disposizione della Chiesa. È un Documento che si offre proprio alla meditazione. Esso aiuterà sia nella celebrazione liturgica, sia nella riflessione personale, sia nella preparazione delle omelie, sia nella celebrazione dell'Eucaristia. E servirà anche a guidare, illuminare e rivitalizzare la pietà popolare.

Infine, Lei ci ha parlato del Santuario come luogo della caritas. Questo mi sembra molto logico e necessario. Ho riletto poco tempo fa ciò che sant'Agostino dice nel Libro X delle Confessioni: io sono stato tentato e adesso capisco che era una tentazione di chiudermi nella vita contemplativa, di cercare la solitudine con Te, Signore; ma tu me lo hai impedito, mi hai tirato fuori e mi hai fatto sentire la parola di san Paolo: «Cristo è morto per tutti. Così noi dobbiamo morire con Cristo e vivere per tutti»; ho capito che non posso chiudermi nella contemplazione; Tu sei morto per tutti, quindi devo, con Te, vivere per tutti e così vivere le opere della carità. La vera contemplazione si dimostra nelle opere della carità. Quindi, il segno che abbiamo veramente pregato, che abbiamo avuto l'incontro con Cristo, è che siamo «per gli altri». Così dev'essere un Parroco. E sant'Agostino era un grande Parroco. Egli dice: nella mia vita io volevo sempre vivere in ascolto della Parola, nella meditazione, ma adesso devo — giorno per giorno, ora per ora — stare alla porta, dove suona sempre il campanello, devo consolare gli afflitti, aiutare i poveri, ammonire quelli che sono litigiosi, creare pace, e via dicendo. Sant'Agostino elenca tutto il lavoro di un Parroco, perché in quel tempo il Vescovo era anche quello che è adesso il Kadi nei Paesi islamici. Per i problemi del diritto civile, diciamo, egli era il giudice di pace: ha dovuto favorire la pace tra i litigiosi. Quindi ha vissuto un'esistenza che per lui, uomo contemplativo, è stata molto difficile. Ma ha capito questa verità: così sono con Cristo; essendo «per gli altri», sono nel Signore crocifisso e risorto.

Questa mi sembra una grande consolazione per i Parroci e per i Vescovi. Se rimane poco tempo per la contemplazione, essendo «per gli altri» siamo col Signore. Lei ha parlato degli altri elementi concreti della carità, che sono molto importanti. Sono anche un segno per la nostra società, in particolare per i bambini, per gli anziani, per i sofferenti. Quindi penso che Lei, con queste quattro dimensioni della vita, ci ha dato la risposta alla domanda: che cosa dobbiamo fare nel nostro Santuario?

 

Ha parlato poi Don Maurizio Secondo Mirilli, Vicario parrocchiale di Santa Bernardette Soubirous e addetto al Servizio per la Pastorale Giovanile della Diocesi, il quale ha sottolineato il compito impegnativo che spetta ai sacerdoti nella missione di formare alla fede le nuove generazioni. Al Papa Don Maurizio ha chiesto una parola di guida e di orientamento sul modo di trasmettere ai giovani la gioia della fede cristiana, soprattutto di fronte alle sfide culturali odierne, e lo ha sollecitato ad indicare le tematiche prioritarie su cui investire maggiormente le energie per aiutare i ragazzi e le ragazze ad incontrare concretamente Cristo.

Grazie per il lavoro che svolge per gli adolescenti. Sappiamo che la gioventù dev'essere realmente una priorità del nostro lavoro pastorale, perché essa vive in un mondo lontano da Dio. Ed è molto difficile trovare in questo nostro contesto culturale l'incontro con Cristo, la vita cristiana, la vita della fede. I giovani hanno bisogno di tanto accompagnamento per poter realmente trovare questa strada.  Direi — anche se purtroppo io vivo abbastanza lontano da loro e quindi non posso dare indicazioni molto concrete — che il primo elemento mi sembra proprio e soprattutto l'accompagnamento. Essi devono vedere che si può vivere la fede in questo tempo, che non si tratta di una cosa del passato, ma che è possibile vivere oggi da cristiani e trovare così realmente il bene.

Mi ricordo di un elemento autobiografico negli scritti di san Cipriano. Io ho vissuto in questo nostro mondo — egli dice — totalmente lontano da Dio, perché le divinità erano morte e Dio non era visibile. E vedendo i cristiani ho pensato: è una vita impossibile, questo non si può realizzare nel nostro mondo! Ma poi, incontrandone alcuni, entrando nella loro compagnia, lasciandomi guidare nel catecumenato, in questo cammino di conversione verso Dio, man mano ho capito: è possibile! E adesso sono felice di aver trovato la vita. Ho capito che quell'altra non era vita, e in verità — confessa — sapevo anche prima che quella non era la vera vita.

Mi sembra molto importante che i giovani trovino persone — sia della loro età che più mature — nelle quali possano vedere che la vita cristiana oggi è possibile ed è anche ragionevole e realizzabile. Su entrambi questi ultimi elementi mi sembra che ci siano dubbi: sulla realizzabilità, perché le altre strade sono molto lontane dal modo di vivere cristiano, e sulla ragionevolezza, perché a prima vista sembra che la scienza ci dica cose totalmente diverse e quindi non si possa aprire un percorso ragionevole  verso la fede, così da mostrare che essa è una cosa in sintonia col nostro tempo e con la ragione.

Il primo punto è quindi l'esperienza, che apre poi la porta anche alla conoscenza. In questo senso, il «catecumenato» vissuto in modo nuovo — cioè come cammino comune di vita, come comune esperienza del fatto che è possibile vivere così — è di grande importanza. Solo se c'è una certa esperienza si può poi anche capire. Mi ricordo di un consiglio che Pascal dava ad un amico non credente. Gli diceva: prova un po' a fare le cose che fa un credente, e poi con questa esperienza vedrai che tutto ciò è logico ed è vero.

Direi che un aspetto importante ci è mostrato proprio adesso dalla Quaresima. Non possiamo pensare di vivere subito una vita cristiana al cento per cento, senza dubbi e senza peccati. Dobbiamo riconoscere che siamo in cammino, che dobbiamo e possiamo imparare, che dobbiamo anche convertirci man mano. Certo, la conversione fondamentale è un atto che è per sempre. Ma la realizzazione della conversione è un atto di vita, che si realizza nella pazienza di una vita. È un atto nel quale non dobbiamo perdere la fiducia e il coraggio del cammino. Proprio questo dobbiamo riconoscere: non possiamo fare di noi stessi dei cristiani perfetti da un momento all'altro. Tuttavia, vale la pena andare avanti, tener fede all'opzione fondamentale, per così dire, e poi  permanere con perseveranza in un cammino di conversione che talvolta diventa difficile. Può capitare infatti che mi senta scoraggiato, così da voler lasciare tutto e restare in uno stato di crisi. Non ci si deve subito lasciar cadere, ma con coraggio bisogna ricominciare. Il Signore mi guida, il Signore è generoso e con il suo perdono vado avanti, diventando anch'io generoso con gli altri. Così impariamo realmente l'amore per il prossimo e la vita cristiana, che implica questa perseveranza dell'andare avanti.

Quanto ai grandi temi, direi che è importante conoscere Dio. Il tema «Dio» è essenziale. San Paolo dice nella Lettera agli Efesini: «Ricordatevi che in quel tempo eravate... senza speranza e senza Dio. Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate i lontani siete diventati i vicini» (Ef 2, 12-13). Così la vita ha un senso che mi guida anche nelle difficoltà. Quindi bisogna ritornare al Dio Creatore, al Dio che è la ragione creatrice, e poi trovare Cristo, che è il Volto vivo di Dio. Diciamo che qui c'è una  reciprocità. Da una parte, l'incontro con Gesù, con questa figura umana, storica, reale; mi aiuta a conoscere man mano Dio; e, dall'altra parte, conoscere Dio mi aiuta a capire la grandezza del mistero di Cristo, che è il Volto di Dio. Solo se riusciamo a capire che Gesù non è un grande profeta, una delle personalità religiose del mondo, ma è il Volto di Dio, è Dio, allora abbiamo scoperto la grandezza di Cristo e abbiamo trovato chi è Dio. Dio non è solo un'ombra lontana, la «Causa prima», ma ha un Volto: è il Volto della misericordia, il Volto del perdono e dell'amore, il Volto dell'incontro con noi.  Quindi questi due temi si compenetrano reciprocamente e devono andare sempre insieme.

Poi, naturalmente, dobbiamo capire che la Chiesa è la grande compagna del cammino nel quale siamo. In essa la Parola di Dio rimane viva e Cristo non è solo una figura del passato, ma è presente. Così dobbiamo riscoprire la vita sacramentale, il perdono sacramentale, l'Eucaristia, il Battesimo come nascita nuova. Sant'Ambrogio nella Notte Pasquale, nell'ultima Catechesi mistagogica, ha detto: Finora abbiamo parlato delle cose morali, adesso è il momento di parlare del Mistero. Aveva offerto una guida all'esperienza morale, naturalmente alla luce di Dio, che poi si apre al Mistero. Penso che oggi queste due cose debbano compenetrarsi: un cammino con Gesù che sempre più scopre la profondità del suo Mistero. Così si impara a vivere in modo cristiano, si impara la grandezza del perdono e la grandezza del Signore che si dona a noi nell'Eucaristia.

In questo cammino, naturalmente, ci accompagnano i santi. Essi, pur con tanti problemi, hanno vissuto e sono stati le «interpretazioni» vere e vive della Sacra Scrittura. Ognuno ha il suo santo, dal quale può meglio imparare che cosa comporta il vivere da cristiano. Sono soprattutto i santi del nostro tempo. E poi, naturalmente, c'è sempre Maria, che rimane la Madre della Parola. Riscoprire Maria ci aiuta ad andare avanti da cristiani e a conoscere il Figlio.

 

Padre Franco Incampo, Rettore della Chiesa di Santa Lucia del Gonfalone, ha presentato l'esperienza della lettura integrale della Bibbia che stanno facendo la sua Comunità insieme con la Chiesa valdese. «Ci siamo messi in ascolto della Parola — ha detto —. È un progetto ampio. Qual è il valore della Parola nella Comunità ecclesiale? Perché noi conosciamo così poco la Bibbia? Come promuovere la conoscenza della Bibbia  perché la Parola formi la comunità anche per un cammino ecumenico?».

Lei ha certamente un'esperienza più concreta di come fare questo. Posso, innanzitutto, dire che avremo il prossimo Sinodo sulla Parola di Dio. Ho già potuto vedere i «Lineamenta» elaborati dal Consiglio del Sinodo e penso che appariranno bene le diverse dimensioni della presenza della Parola nella Chiesa.

Naturalmente la Bibbia, nella sua integralità, è una cosa grandissima e da scoprire a mano a mano. Perché se prendiamo solo le singole parti spesso può essere difficile capire che si tratta di Parola di Dio: penso a certe parti dei Libri dei Re con le cronistorie, con lo sterminio dei popoli esistenti in Terra Santa. Molte altre cose sono difficili. Anche proprio il Qoelet può essere isolato e può risultare molto difficile:  sembra proprio teorizzare la disperazione perché niente rimane e anche il saggio alla fine muore con gli stolti. Ne abbiamo avuto ora la lettura nel Breviario.

Un primo punto mi sembra proprio quello di leggere la Sacra Scrittura nella sua unità e integralità. Le singole parti sono parti di un cammino e solo vedendole nella loro integralità come un cammino unico, dove una parte spiega l'altra, possiamo capire questo. Rimaniamo per esempio nel Qoelet. Vi era in precedenza la parola della saggezza secondo cui chi è buono vive anche bene. Cioè Dio premia chi è buono. E poi viene Giobbe e si vede che non è così e che proprio chi vive bene soffre di più. Sembra proprio dimenticato da Dio. Vengono i Salmi di quel periodo dove si dice: ma che cosa fai Dio? Gli atei, i superbi vivono bene, sono grassi, si nutrono bene e ridono di noi e dicono: ma dov'è Dio? Non s'interessa a noi e noi siamo stati venduti come pecore da macello. Che cosa fai con noi, perché è così? Arriva il momento dove il Qoelet dice: ma tutta questa saggezza alla fine dove rimane? È un Libro quasi esistenzialista, in cui si afferma: tutto è vano. Questo primo cammino non perde il suo valore, ma si apre alla nuova prospettiva che, alla fine, guida alla croce di Cristo, «il Santo di Dio», come dice San Pietro nel capitolo sesto del Vangelo di Giovanni. Finisce con la Croce. E proprio così si dimostra la saggezza di Dio, che poi ci descriverà San Paolo.

E, quindi, solo se prendiamo tutto come un unico cammino, passo dopo passo, e impariamo a leggere la Scrittura nella sua unità, possiamo anche realmente trovare l'accesso alla bellezza e alla ricchezza della Sacra Scrittura. Leggere quindi tutto, ma sempre tener presente la totalità della Sacra Scrittura, dove una parte spiega l'altra, un passo del cammino spiega l'altro. Su questo punto l'esegesi moderna può anche aiutare molto. Prendiamo, per esempio, il Libro di Isaia, quando gli esegeti scoprirono che dal capitolo 40 l’autore è un altro — il “Deutero-Isaia”, come si disse in quel tempo. Per la teologia cattolica vi fu un momento di grande terrore. Qualcuno pensò che così si distruggeva Isaia e alla fine, nel capitolo 53, la visione del servo di Dio non era più dell'Isaia che era vissuto quasi 800 anni prima di Cristo. Che cosa facciamo, ci si domandò? Adesso abbiamo capito che tutto il Libro è un cammino di sempre nuove riletture, dove sempre più si entra nel mistero proposto all’inizio e si apre sempre più quanto era inizialmente presente, ma ancora chiuso. Possiamo capire proprio in un Libro tutto il cammino della Sacra Scrittura, che è un permanente rileggere, un ricapire meglio quanto è stato detto prima. Passo per passo la luce si accende e il cristiano può capire quanto il Signore ha detto ai discepoli di Emmaus, spiegando loro che tutti i profeti avevano parlato di Lui. Il Signore ci apre l'ultima rilettura, Cristo è la chiave di tutto e solo unendosi nel cammino ai discepoli di Emmaus, solo camminando con Cristo, rileggendo tutto nella sua luce, con Lui crocifisso e risorto, entriamo nella ricchezza e nella bellezza della Sacra Scrittura.

Perciò, direi, il punto importante è non frammentare la Sacra Scrittura. Proprio la moderna critica, come vediamo adesso, ci ha fatto capire che è un cammino permanente. E possiamo anche vedere che è un cammino che ha una direzione e che Cristo realmente è il punto di arrivo. Cominciando da Cristo possiamo riprendere tutto il cammino ed entrare nella profondità della Parola.

Riassumendo, direi, la lettura della Sacra Scrittura deve essere sempre una lettura nella luce di Cristo. Solo così possiamo leggere e capire, anche nel nostro contesto attuale, la Sacra Scrittura e avere realmente luce dalla Sacra Scrittura. Dobbiamo comprendere questo: la Sacra Scrittura è un cammino con una direzione. Chi conosce il punto di arrivo può anche, adesso di nuovo, fare tutti i passi e imparare così in modo più profondo il mistero di Cristo. Comprendendo questo abbiamo anche capito l'ecclesialità della Sacra Scrittura, perché questi cammini, questi passi del cammino, sono passi di un popolo. È il popolo di Dio che va avanti. Il vero proprietario della Parola è sempre il popolo di Dio, guidato dallo Spirito Santo, e l'ispirazione è un processo complesso: lo Spirito Santo guida avanti, il popolo riceve.

È, quindi, il cammino di un popolo, del popolo di Dio. Sempre la Sacra Scrittura va letta bene. Ma ciò può avvenire solo se camminiamo all’interno di questo soggetto che è il popolo di Dio che vive, è rinnovato, è rifondato da Cristo, ma rimane sempre nella sua identità.

Quindi, direi che vi sono tre dimensioni in rapporto tra loro. La dimensione storica, la dimensione cristologica e la dimensione ecclesiologica — del popolo in cammino — si compenetrano. Una lettura completa è quella in cui le tre dimensione sono presenti. Perciò la liturgia - la lettura comune,  orante, del popolo di Dio - rimane il luogo privilegiato per la comprensione della Parola,, anche perché proprio qui la lettura diventa preghiera e si unisce con la preghiera di Cristo nella Preghiera eucaristica.

Vorrei ancora aggiungere una cosa che hanno sottolineato tutti i Padri della Chiesa. Penso soprattutto a un bellissimo testo di Sant'Efrem e a un altro di Sant'Agostino nei quali si dice: se tu hai capito poco, accetta, e non pensare di aver capito tutto. La Parola rimane sempre molto più grande di quanto tu hai potuto capire. E questo va detto adesso in modo critico nei confronti di una certa parte dell'esegesi moderna, che pensa di aver capito tutto e che perciò, dopo l’interpretazione da essa elaborata, non si possa ormai dire null’altro di più. Questo  non è vero. La Parola è sempre più grande dell'esegesi dei Padri e dell'esegesi critica, perché anche questa capisce solo una parte, direi anzi una parte minima. La Parola è sempre più grande, questa è la nostra grande consolazione. E da una parte è bello sapere di aver capito soltanto un po'. È bello sapere che c'è ancora un tesoro inesauribile e che ogni nuova generazione riscoprirà nuovi tesori e andrà avanti con la grandezza della Parola di Dio, che è sempre davanti a noi, ci guida ed è sempre più grande. E’ con questa consapevolezza che si deve leggere la Scrittura.

Sant'Agostino ha detto: beve dalla fonte la lepre e beve l'asino. L'asino beve di più, ma ognuno beve secondo la sua capacità. Sia che siamo lepri o che siamo asini, siamo grati che il Signore ci faccia bere dalla sua acqua.

 

Il tema dei Movimenti Ecclesiali e delle Nuove Comunità, come dono provvidenziale per i nostri tempi, è stato proposto da Padre Gerardo Raul Carcar, appartenente alla Comunità dei Padri di Schönstatt, arrivato a Roma sei mesi fa dall'Argentina, e oggi vicario cooperatore della Parrocchia di San Girolamo a Corviale. Si tratta di realtà che hanno uno slancio creativo, vivono la fede e cercano nuove forme di vita per trovare una giusta collocazione missionaria nella Chiesa. Al Papa il religioso ha chiesto un consiglio su come inserirsi per sviluppare realmente un ministero di unità nella Chiesa universale.

Dunque, vedo che devo essere più breve. Grazie per questa domanda. Mi sembra che Lei abbia citato le fonti essenziali di quanto posso dire sui Movimenti. In questo senso la sua domanda è anche una risposta.

Vorrei subito precisare che in questi mesi ricevo i Vescovi italiani in visita «ad limina» e così posso un po' meglio imparare la geografia della fede in Italia. Vedo tante belle cose insieme con i problemi che conosciamo tutti. Vedo soprattutto come la fede sia ancora profondamente radicata nel cuore italiano, anche se, naturalmente, in molti modi è minacciata nelle odierne situazioni. I Movimenti accettano anche bene la mia funzione paterna di Pastore. Altri sono più critici e dicono che i Movimenti non si inseriscono. Penso che realmente le situazioni sono diverse, dipende tutto dalle persone in questione.

Mi sembra che abbiamo due regole fondamentali, delle quali Lei ha parlato. La prima regola ce l'ha dato San Paolo nella Prima Lettera ai Tessalonicesi:  non spegnere i carismi. Se il Signore ci dà nuovi doni dobbiamo essere grati, anche se a volte sono scomodi.  Ed è una bella cosa che, senza iniziativa della gerarchia, con una iniziativa dal basso, come si dice, ma con una iniziativa anche realmente dall'Alto, cioè come dono dello Spirito Santo, nascono nuove forme di vita nella Chiesa,  come del resto  sono nate in tutti i secoli.

Inizialmente erano sempre scomode: anche San Francesco era molto scomodo e per il Papa era molto difficile dare, finalmente, una forma canonica ad una realtà che era molto più grande dei regolamenti giuridici. Per San Francesco era un grandissimo sacrificio lasciarsi incastrare in questo scheletro giuridico, ma alla fine è nata così una realtà che vive ancor oggi e che vivrà in futuro: essa dà forza e nuovi elementi alla vita della Chiesa.

Voglio solo dire questo: in tutti i secoli sono nati Movimenti. Anche San Benedetto, inizialmente, era un Movimento. Si inseriscono nella vita della Chiesa non senza sofferenze, non senza difficoltà. San Benedetto stesso ha dovuto correggere l’iniziale direzione del monachesimo. E così anche nel nostro secolo il Signore, lo Spirito Santo, ci ha dato nuove iniziative con nuovi aspetti della vita cristiana: vissuti da persone umane con i loro limiti, esse creano anche difficoltà.

Prima regola dunque:  non spegnere i carismi, essere grati anche se sono scomodi. La seconda regola è questa:  la Chiesa è una; se i Movimenti sono realmente doni dello Spirito Santo, si inseriscono e servono la Chiesa e nel dialogo paziente tra Pastori e Movimenti nasce una forma feconda dove questi elementi diventano elementi edificanti per la Chiesa di oggi e di domani.

Questo dialogo è a tutti i livelli. Cominciando dal parroco, dal Vescovo e dal Successore di Pietro è in corso la ricerca delle opportune strutture: in molti casi la ricerca  ha già dato i suoi frutti. In altri si sta ancora studiando. ad esempio, ci si domanda se dopo cinque anni di esperimento, si debbano confermare in modo definitivo gli Statuti per il Cammino Neocatecumenale o se ancora ci voglia un tempo di esperimento o se si debbano forse un po' ritoccare alcuni elementi di questa struttura.

In ogni caso, io ho conosciuto i Neocatecumenali dall'inizio. E’ stato un Cammino lungo, con molte complicazioni che esistono anche oggi, ma abbiamo trovato una forma ecclesiale che ha già molto migliorato il rapporto tra il Pastore e il Cammino. E andiamo avanti così! Lo stesso vale per gli altri Movimenti.

Adesso come sintesi delle due regole fondamentali direi: gratitudine, pazienza e accettazione anche delle sofferenze che sono inevitabili. Anche in un matrimonio ci sono sempre sofferenze e tensioni. E tuttavia vanno avanti e così matura il vero amore. Lo stesso avviene nella comunità della Chiesa: abbiamo pazienza insieme. Anche i diversi livelli della gerarchia - dal parroco, al Vescovo, al Sommo Pontefice - devono avere insieme un continuo scambio di idee, devono promuovere il colloquio per trovare insieme la strada migliore. Le esperienze dei parroci sono fondamentali, ma poi anche le esperienze del Vescovo e, diciamo, la prospettiva universale del Papa hanno un proprio luogo teologico e pastorale nella Chiesa.

Quindi, da una parte, questo insieme di diversi livelli della gerarchia; dall'altra, l'insieme vissuto nelle parrocchie, con pazienza e apertura, in obbedienza al Signore, crea realmente la vitalità nuova della Chiesa.

Siamo grati allo Spirito Santo  per i doni che ci ha dato. Siamo obbedienti alla voce dello Spirito, ma siamo anche chiari nell'integrare questi elementi nella vita: questo criterio serve, alla fine, la Chiesa concreta e così con pazienza, con coraggio e con generosità certamente il Signore ci guiderà e ci aiuterà.

 

Don Angelo Mangano, Parroco di San Gelasio, parrocchia affidata alla cura pastorale della Comunità «Missione Chiesa Mondo» dal 2003, ha significativamente della pastorale nella festa della Cattedra di San Pietro. Ha indicato l'importanza di sviluppare una unicità tra quella che è la vita spirituale e la vita pastorale che non è un tecnica organizzativa ma coincide con la vita stessa della Chiesa. Gesù stesso si fa sintesi, ha detto il sacerdote che ha chiesto al Santo Padre come far passare nel Popolo di Dio il concetto della pastorale come vera vita della Chiesa e come fare  perché la pastorale si nutra sempre più dell'ecclesiologia conciliare.

Sono, mi sembra, diverse domande. Una domanda è come ispirare la parrocchia con la ecclesiologia conciliare, far vivere dai fedeli questa ecclesiologia;  l'altra è come dobbiamo noi agire e in noi stessi rendere spirituale il lavoro pastorale. Cominciamo con quest’ultima domanda. Una certa tensione tra che cosa devo assolutamente fare e quali riserve spirituali devo avere rimane sempre. Io lo vedo sempre in Sant'Agostino che si lamenta nelle prediche. Ho già citato: io amerei tanto vivere con la Parola di Dio, ma devo dal mattino fino alla sera stare con voi. Agostino tuttavia trova questo equilibrio essendo sempre a disposizione, ma riservandosi anche momenti di preghiera, di meditazione della sacra Parola, perché altrimenti non potrebbe più dire niente. Vorrei qui, in particolare, sottolineare quanto Lei ha detto circa il fatto che la pastorale non dovrebbe mai essere una semplice strategia, un lavoro amministrativo, ma sempre restare un lavoro spirituale. Certamente anche l'altro non può totalmente mancare, perché siamo su questa terra e questi problemi ci sono: come amministrare bene i soldi ecc. Anche questo è un settore che non può essere totalmente mancante.

Ma l'accento fondamentale deve essere proprio quello che l'essere pastore è in se stesso un atto spirituale. Lei ha giustamente accennato al Vangelo di Giovanni, cap. 10,  dove il Signore si definisce il buon Pastore. E come primo momento definitivo, Gesù dice che il Pastore precede. Cioè Lui mostra la strada, fa prima quanto devono fare gli altri, prende prima  la strada che è la strada per gli altri. Il Pastore precede. Questo vuol dire che Lui stesso vive innanzitutto la Parola di Dio:  è un uomo di preghiera, è un uomo di perdono, è un uomo che riceve e celebra i Sacramenti come atti di preghiera e di incontro con il Signore. È un uomo di carità, vissuta e realizzata E così tutti gli atti semplici di colloqui, di incontri, di tutto quanto si deve fare, diventano atti spirituali in comunione con Cristo. Il suo «pro omnibus» diventa il nostro «pro meis».

Allora precede e mi sembra che in questo precedere è già detto l'essenziale. Il capitolo 10 di San Giovanni continua poi riferendo che Gesù ci precede donando se stesso alla Croce. E questo è anche inevitabile per il sacerdote. Questo offrire se stesso è anche una partecipazione alla Croce di Cristo ed è grazie a questo che possiamo anche noi  in modo credibile consolare i sofferenti, stare con i poveri, con gli emarginati, eccetera.

Quindi in questo programma che Lei ha sviluppato, la spiritualizzazione del lavoro quotidiano della pastorale è fondamentale. È più facile dirlo che farlo, ma dobbiamo tentarlo. E per poter spiritualizzare il nostro lavoro, di nuovo dobbiamo seguire il Signore. I Vangeli ci dicono che di giorno lavorava e di notte era sul monte con il Padre e pregava. Io devo qui confessare la mia debolezza. Di notte non posso pregare, vorrei dormire di notte. Ma, tuttavia, un po' di tempo libero per il Signore ci vuole realmente: sia la celebrazione della Messa, sia la preghiera della Liturgia delle Ore e la meditazione quotidiana, anche se breve, seguendo  la Liturgia, il Rosario. Ma questo colloquio personale con la Parola di Dio è importante. E solo così possiamo avere le riserve per rispondere alle esigenze della vita pastorale.

Secondo punto: Lei giustamente ha sottolineato l'ecclesiologia del Concilio. Mi sembra che dobbiamo ancora molto di più interiorizzare questa ecclesiologia, sia quella della «Lumen gentium» sia quella della «Ad gentes», che è anche un Documento ecclesiologico, sia anche quella dei Documenti minori, e poi quella della «Dei Verbum». E interiorizzando questa visione possiamo anche attirare il nostro popolo in questa visione, che capisca che la Chiesa non è semplicemente una grande struttura, uno di questi enti sovrannazionali che esistono. La Chiesa, pur essendo corpo, è corpo di Cristo e quindi un corpo spirituale, come dice San Paolo. È una realtà spirituale. Mi sembra questo molto importante: che la gente possa vedere che la Chiesa non è una organizzazione sovranazionale, non è un corpo amministrativo o di potere, non è una agenzia sociale, benché faccia un lavoro sociale e sovranazionale, ma è un corpo spirituale.

Mi sembra che il nostro pregare con il popolo, l’ascoltare insieme con il popolo la Parola di Dio, celebrare con il popolo di Dio i Sacramenti, agire con Cristo nella carità ecc. Soprattutto nelle omelie dobbiamo distribuire questa visione. Mi sembra, in questo senso, l'omelia rimane un'occasione meravigliosa di essere vicino alla gente e di comunicare la spiritualità insegnata dal Concilio. E così mi sembra che se l'omelia è cresciuta nella preghiera, nell'ascolto della Parola di Dio, è comunicazione del contenuto della Parola di Dio. Il Concilio realmente arriva alla nostra gente. Non quei frammenti della pubblicistica che hanno dato un'immagine sbagliata del Concilio. Ma la vera realtà spirituale del Concilio. E così dobbiamo sempre e di nuovo con il Concilio e nello spirito del Concilio, interiorizzando la sua visione, imparare la Parola di Dio. Facendo questo possiamo anche comunicare con la nostra gente e così realmente fare un lavoro pastorale e spirituale.

 

Don Alberto Pacini, Rettore della Basilica di sant'Anastasia, ha parlato dell'adorazione eucaristica perpetua — in particolare della possibilità di organizzare turni notturni — ed ha chiesto al Papa di spiegare il senso e il valore della riparazione eucaristica di fronte ai furti sacrileghi e alle sette sataniche.

Non parliamo più in generale dell'adorazione eucaristica, che è penetrata realmente nei nostri cuori e penetra nel cuore del popolo. Lei ha posto questa domanda specifica sulla riparazione eucaristica. È un discorso che è divenuto difficile. Mi ricordo, quando ero giovane, che nella festa del Sacro Cuore si pregava con una bella preghiera di Leone XIII e poi una di Pio XI, nella quale la riparazione aveva un posto particolare, proprio in riferimento, già a quel tempo, agli atti sacrileghi che dovevano essere riparati.

Mi sembra che dobbiamo andare a fondo, arrivare al Signore stesso che ha offerto la riparazione per il peccato del mondo, e cercare di riparare: diciamo, di mettere equilibrio tra il plus del male e il plus del bene. Così, nella bilancia del mondo, non dobbiamo lasciare questo grande plus al negativo, ma dare un peso almeno equivalente al bene. Questa idea fondamentale si appoggia su quanto è stato fatto da Cristo. Questo, per quanto posso capire, è il senso del sacrificio eucaristico. Contro questo grande peso del male che esiste nel mondo e che tira giù il mondo, il Signore pone un altro peso più grande, quello dell'amore infinito che entra in questo mondo. Questo è il punto importante: Dio è sempre il bene assoluto, ma questo bene assoluto entra proprio nel gioco della storia; Cristo si rende qui presente e soffre fino in fondo il male, creando così un contrappeso di valore assoluto. Il plus del male, che esiste sempre se vediamo solo empiricamente le proporzioni, viene superato dal plus immenso del bene, della sofferenza del Figlio di Dio.

In questo senso c'è la riparazione, che è necessaria. Mi sembra che oggi sia un po' difficile capire queste cose. Se vediamo il peso del male nel mondo, che cresce in permanenza, che sembra avere assolutamente il sopravvento nella storia, ci si potrebbe — come dice sant'Agostino in una meditazione — proprio disperare. Ma vediamo che c'è un plus ancora più grande nel fatto che Dio stesso è entrato nella storia, si è fatto partecipe della storia ed ha sofferto fino in fondo. Questo è il senso della riparazione. Questo plus del Signore è per noi una chiamata a metterci dalla sua parte, ad entrare in questo grande plus dell'amore e a renderlo presente, anche con la nostra debolezza. Sappiamo che anche per noi c'era bisogno di questo plus, perché anche nella nostra vita c'è il male. Tutti viviamo grazie al plus del Signore. Ma Egli ci fa questo dono perché, come dice la Lettera ai Colossesi, possiamo associarci a questa sua abbondanza e, diciamo, far aumentare ancora di più questa abbondanza concretamente nel nostro momento storico.

Mi sembra che la teologia dovrebbe fare di più per capire ancora meglio questa realtà della riparazione. C'erano nella storia anche idee sbagliate. Ho letto in questi giorni i discorsi teologici di san Gregorio Nazianzeno, che in un certo momento parla di questo aspetto e si chiede: a chi il Signore abbia offerto il suo sangue. Egli dice: il Padre non voleva il sangue del Figlio, il Padre non è crudele, non è necessario attribuire questo alla volontà del Padre; ma la storia lo voleva, lo volevano le necessità e gli squilibri della storia; si doveva entrare in questi squilibri e qui ricreare il vero equilibrio. Questo è proprio molto illuminante. Ma mi sembra che non abbiamo ancora sufficientemente il linguaggio per far capire questo fatto a noi e poi anche agli altri. Non si deve offrire a un Dio crudele il sangue di Dio. Ma Dio stesso, con il suo amore, deve entrare nelle sofferenze della storia per creare non solo un equilibrio, ma un plus di amore che è più forte dell'abbondanza del male che esiste. Il Signore ci invita a questo.

Mi sembra una realtà tipicamente cattolica. Lutero dice: non possiamo aggiungere niente. E questo è vero. E poi dice: quindi le nostre opere non contano niente. E questo non è vero. Perché la generosità del Signore si mostra proprio nel fatto che ci invita ad entrare e dà valore anche al nostro essere con Lui. Dobbiamo imparare meglio tutto questo e sentire anche la grandezza, la generosità del Signore e la grandezza della nostra vocazione. Il Signore vuole associarci a questo suo grande plus. Se cominciamo a capirlo, saremo lieti che il Signore ci inviti a questo. Sarà la grande gioia di essere presi sul serio dall'amore del Signore.

 

Il settimo intervento è stato quello di Don Francesco Tedeschi, docente alla Facoltà di Missiologia della Pontificia Università Urbaniana, impegnato pastoralmente nella Basilica di san Bartolomeo all'Isola Tiberina, luogo memoriale dei nuovi martiri del XX secolo. Più che una domanda, quella di Don Tedeschi è stata una riflessione sull'esemplarità e sulla capacità attrattiva delle figure dei martiri nei confronti soprattutto dei giovani. Essi svelano la bellezza della fede cristiana e testimoniano dinanzi al  mondo che è possibile rispondere al  male con il bene fondando la propria vita sulla forza della speranza. A questa riflessione il Papa non ha voluto aggiungere ulteriori parole.

Gli applausi che abbiamo sentito dimostrano che Lei stesso ci ha già dato risposte ampie... Quindi alla sua domanda potrei semplicemente rispondere: sì, è così come Lei ha detto. E meditiamo le Sue parole.

 

Successivamente Padre Krzystzof Wendlik, Vicario parrocchiale dei santi Urbano e Lorenzo a Prima Porta, ha parlato del problema del relativismo nella cultura contemporanea ed ha chiesto al Papa una parola illuminante sul rapporto tra unità di fede e pluralismo in teologia.

È una grande domanda! Quando ero ancora membro della Commissione Teologica Internazionale abbiamo affrontato per un anno questo problema. Io sono stato il relatore e quindi me ne ricordo abbastanza bene. E tuttavia mi riconosco incapace di spiegare con poche parole la questione. Vorrei dire soltanto che la teologia è sempre stata molteplice. Pensiamo ai Padri, nel Medioevo la scuola francescana, la scuola domenicana, poi il tardo Medioevo e via dicendo. Come abbiamo detto, la Parola di Dio è sempre più grande di noi. Perciò non possiamo mai esaurire il raggio di questa Parola e diversi approcci, diversi tipi di riflessione sono necessari.

Vorrei semplicemente dire: è importante che il teologo, da una parte, nella sua responsabilità e nella sua capacità professionale, cerchi di trovare piste che rispondano alle esigenze e alle sfide del nostro tempo; e, dall'altra, sia sempre consapevole che tutto questo è basato sulla fede della Chiesa e deve perciò sempre ritornare alla fede della Chiesa. Io penso che se un teologo sta personalmente e profondamente nella fede e capisce che il suo lavoro è riflessione sulla fede, troverà la conciliazione tra unità e pluralità.

 

L'ultimo intervento è stato di Don Luigi Veturi, Parroco di san Giovanni Battista dei Fiorentini, il quale ha incentrato la sua domanda sul tema dell'arte sacra, chiedendo al Papa se essa non debba essere più adeguatamente valorizzata come mezzo di comunicazione della fede.

La risposta potrebbe essere molto semplice: sì! Sono arrivato da voi con un po' di ritardo, perché prima ho fatto visita alla Cappella Paolina, che da diversi anni è sottoposta a restauri. Mi hanno detto che dureranno ancora due anni. Ho potuto vedere un po' tra i ponteggi una parte di questa arte miracolosa. E vale la pena restaurarla bene, così che risplenda di nuovo e sia una catechesi viva.

Con questo volevo ricordare che l'Italia è particolarmente ricca di arte, e l’arte è un tesoro di catechesi inesauribile, incredibile. Per noi è anche un dovere conoscerla e capirla bene. Non come fanno qualche volta gli storici dell'arte, che la interpretano solo formalmente, secondo la tecnica artistica. Dobbiamo piuttosto entrare nel contenuto e far rivivere il contenuto che ha ispirato questa grande arte. Mi sembra realmente un dovere — anche nella formazione dei futuri sacerdoti — conoscere questi tesori ed essere capaci di trasformare in catechesi viva quanto è presente in essi e parla oggi a noi. Così anche la Chiesa potrà apparire un organismo non di oppressione o di potere — come alcuni vogliono mostrare — ma di una fecondità spirituale irripetibile nella storia, o almeno, oserei dire, tale da non potersi riscontrare fuori della Chiesa Cattolica. Questo è anche un segno della vitalità della Chiesa, che, con tutte le sue debolezze e anche i suoi peccati, sempre è rimasta una grande realtà spirituale, un'ispiratrice che ci ha donato tutta questa ricchezza.

Quindi è un dovere per noi entrare in questa ricchezza ed essere capaci di farci interpreti di questa arte. Ciò vale sia per l'arte pittorica e scultorea, sia per la musica sacra, che è un settore dell'arte che merita di essere vivificato. Direi che il Vangelo variamente vissuto è ancora oggi una forza ispiratrice che ci dà e ci darà arte. Ci sono anche oggi soprattutto sculture bellissime, che dimostrano che la fecondità della fede e del Vangelo non si è spenta, ci sono anche oggi composizioni musicali... Mi sembra che si possa sottolineare una situazione, diciamo, contraddittoria dell'arte, una situazione anche un po' disperata dell'arte. Anche oggi la Chiesa ispira, perché la fede e la Parola di Dio sono inesauribili. E questo dà coraggio a noi tutti. Ci dà la speranza che anche il mondo futuro avrà nuove visioni della fede e, nello stesso tempo, la certezza che i duemila anni di arte cristiana già trascorsi sono sempre vivi e sono sempre un «oggi» della fede.

Ecco, grazie per la vostra pazienza e per la vostra attenzione. Auguri per la Quaresima!

 

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