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SANTA MESSA PER I DIPENDENTI DELLE VILLE PONTIFICIE

OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II

Castelgandolfo, 25 luglio 1982

 

1. “Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li distribuì a quelli che si erano seduti” (Gv 6,11).

La scena evangelica della moltiplicazione dei pani ha un precedente particolarmente significativo nel fatto dell’Antico Testamento, riferito nella prima lettura dell’odierna Liturgia: anche là i pochi pani d’orzo e farro, offerti come primizia al profeta Eliseo, bastarono per sfamare cento persone ed anzi, a pasto finito, risultarono anche sovrabbondanti. Non diversamente nel Vangelo che abbiamo appena ascoltato, dopo che la folla – in questo caso si trattava di diverse migliaia di persone – ebbe mangiato a sazietà, si poterono riempire ben dodici canestri con i pezzi di pane avanzati.

Abbondanza dunque; possibilità offerta a tutti di mangiare a sazietà. Sta qui il messaggio essenziale della Liturgia di oggi. In essa riecheggia un annuncio caratteristico dei profeti, i quali avevano parlato dei tempi del futuro Messia come di un periodo di grande abbondanza: “I poveri mangeranno e saranno saziati”, era detto nel Salmo 21 (Sal 21,27). E il profeta Isaia, a sua volta, aveva predetto: “Il Signore degli eserciti preparerà su questo monte / un banchetto di grasse vivande, per tutti i popoli, / un banchetto di vini eccellenti / di cibi succulenti, di vini raffinati” (Is 25,6).

2. Questo il messaggio. Noi lo raccogliamo nel nostro cuore e vi riflettiamo sopra in atteggiamento di fede. Sappiamo che il pieno avveramento di questa predizione profetica si avrà soltanto al compimento del periodo escatologico, che la venuta di Cristo sulla terra ha appena inaugurato.

Quando Cristo tornerà nella gloria per concludere solennemente la storia del mondo, allora finalmente l’umanità raggiungerà quell’abbondanza di ogni bene, nella quale troveranno appagamento tutte le attese dei “poveri”.

La “piena sazietà” è dunque una meta verso la quale anche l’umanità di oggi, umanità dell’era messianica, è ancora in cammino. Questo non toglie, tuttavia, che già nel tempo presente qualcosa di quella pienezza debba poter essere sperimentata. Il tempo escatologico, infatti, è già cominciato, anche se, come ho detto, esso “non” si è “ancora” pienamente realizzato.

La conseguenza di ciò è evidente: è dovere dei cristiani, i “figli del Regno” (Mt 13,38), impegnarsi con generosa sollecitudine perché già ora chi manca dei beni necessari alla vita riesca a venirne quanto prima in possesso, così da poter sfamare se stesso ed i membri della propria famiglia.

3. Il problema della fame nel mondo si pone oggi con tragica urgenza, anche perché la sua soluzione, non che avvicinarsi, col passare del tempo sembra invece allontanarsi sempre più. Lo squilibrio economico tra le nazioni sviluppate e le altre continua, infatti, a registrare una preoccupante progressione.

Sono molte ormai le voci che si levano a denunciare lo scandalo di questa situazione, in cui una minoranza di persone fortunate prospera e si arricchisce ignorando una maggioranza di sventurati esposti spesso, oltre che all’umiliazione del sottosviluppo e della dipendenza economica, all’esperienza stessa del deperimento organico e della morte prematura per mancanza di una alimentazione sufficiente. È ormai necessario ed urgente che dalle parole si passi ai fatti con iniziative concrete, tra le quali non dovrà mancare quella del “raccogliere i pezzi avanzati” secondo l’ammonimento evangelico, perché una delle ragioni dei paurosi squilibri ai quali ho appena accennato è da ricercarsi nello sperpero delle risorse disponibili, a cui si abbandonano da anni i popoli ricchi, storditi dall’abitudine ad un consumismo sfrenato.

Bisogna giungere ai fatti, come singoli e come comunità. Gesù saziò concretamente degli uomini che avevano fame, offrendo con tale gesto un esempio normativo alla sua Chiesa, che nei secoli ha sentito di non potersi disinteressare di chi aveva fame e sete, di chi era nudo o pellegrino, di chi era infermo o carcerato (cf. Mt 25,35-36), di chi in una parola pativa la carenza di qualche bene vitale, senza con ciò venir meno alle attese del suo Signore. La Chiesa, oggi come sempre, ha la vocazione nativa di mettersi al servizio dei poveri, per continuare ad essere, anche nel mondo contemporaneo, un “segno” per tutti coloro che, con la fame del pane terreno, portano in cuore l’aspirazione ai beni eterni.

4. Sì, anche l’aspirazione ai beni eterni. Infatti “non di solo pane vive l’uomo”, è detto nel Vangelo (cf. Mt 4,4). Lo sviluppo ed il benessere non bastano a colmare le attese del nostro cuore. I bisogni dell’uomo trascendono l’ambito puramente temporale e sconfinano nell’eterno.

Non a caso, pertanto, l’evangelista Giovanni ha fatto del racconto della moltiplicazione dei pani un “segno”, un’immagine anticipatrice dell’Eucaristia: i termini che egli usa (“prese i pani e, dopo aver reso grazie, li distribuì”) trovano un esatto riscontro nel racconto della Cena. Dal miracolo avvenuto sul pendio della montagna di Galilea siamo così portati a riflettere su quest’altro convito, che Gesù imbandisce sulla mensa dell’altare per noi, pellegrini in cammino sulle strade del mondo.

Il pane, che qui viene offerto, è il corpo di Cristo e il vino è il suo sangue: un “alimento” che può sfamare il nostro cuore per l’eternità. Un “alimento”, tuttavia, che ci impegna già durante il tempo della nostra vita quaggiù: “Colui che mangia di me vivrà per me”, ha detto Gesù (Gv 6,57). “Vivere per Gesù” significa adempierne i comandamenti e, in particolare, il “comandamento massimo”, quello dell’amore. Come potrebbe non amare Cristo e, in lui, i fratelli e le sorelle che vivono nel mondo chi, sedendo alla stessa mensa con loro, consuma il medesimo pasto divino?

5. Quanto opportune appaiono, allora, le esortazioni che ci ha rivolto san Paolo nella seconda lettura della Messa odierna! Egli ci ha raccomandato di comportarci “con ogni umiltà, mansuetudine e pazienza, sopportandoci a vicenda con amore, cercando di conservare l’unità dello Spirito per mezzo del vincolo della pace” (Ef 4,2s).

Non si è trattato di un generico invito alla comprensione fraterna. San Paolo ha messo espressamente in evidenza il fondamento ontologico di tale esortazione all’amore vicendevole: ricordiamo bene quella martellante serie di “un solo” (“un corpo solo, un solo Spirito, una sola speranza, un solo Signore, un solo battesimo”, ecc.), da cui l’Apostolo ha tratto la giustificazione del dovere di coltivare l’unione fraterna. In un’altra lettera, la prima ai Corinzi, egli ha completato la serie con l’appello all’“unico pane”, partecipando al quale tutti diventiamo “un solo corpo” (cf. 1Cor 10,17).

Il cristiano sconfessa se stesso, se non sa essere un uomo di unità e di pace. Qui la riflessione si fa necessariamente personale ed intima: ciascuno deve interrogare se stesso, sottoponendo la propria vita (quella di famiglia, di lavoro, di società) al giudizio della Parola di Dio, per vedere fin dove essa è in sintonia con le esigenze che scaturiscono dalla vocazione all’unità nell’amore.

È chiamato in causa il settore dei pensieri e dei sentimenti, delle parole e dei giudizi, degli atteggiamenti e delle iniziative concrete. Lasciamoci guidare da Cristo in questa salutare “revisione di vita”. Sarà talvolta un’esperienza piuttosto scomoda, da cui potranno essere messe in questione certe abitudini mentali ed operative che ritenevamo acquisite. Ma sarà un’esperienza “liberante”, grazie alla quale ci sarà dato di scoprire nuove possibilità di superamento del nostro egoismo e di incontro con gli altri, che è come dire nuove possibilità di gioia. Non ha detto infatti Gesù che “vi è più gioia nel dare che nel ricevere” (At 20,35)? Perché dunque non provare a prenderlo in parola?
 

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