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INCONTRO DI PAOLO VI
CON I TECNICI LIBERATI DALLA PENA CAPITALE

Sabato, 8 giugno 1969

 

L’opera di intensissima carità spiegata dal Sommo Pontefice Paolo VI per la liberazione dei tecnici italiani, germanici e libanese dell’E.N.I. prigionieri in Nigeria e condannati a morte, ha un commovente epilogo nell’incontro tra il Papa e i beneficati dai suoi molteplici e reiterati interventi, alla mezzanotte dell’8 giugno.

Alle 22,30 di sabato 7 giunge in Segreteria di Stato un telegramma dal DC8 dell’Alitalia in volo verso Roma. Gli scampati all’eccidio di Kwale 3 e all’esecuzione di una terribile condanna si rivolgono al Papa con espressioni commoventi a dirgli tutta la loro riconoscenza per il suo intervento determinante e chiedono la grazia di poterlo vedere al più presto, per manifestargli di presenza i loro sentimenti. Ecco il testo del telegramma:

«A Sua Santità. - Nel momento in cui ci avviciniamo all’Italia, con animo commosso esprimiamo a Vostra Santità il nostro più vivo ringraziamento per quanto ha voluto fare a nostro favore. Ci permettiamo esprimere la nostra preghiera che Vostra Santità ci voglia concedere udienza collettiva per rinnovarle nostra imperitura gratitudine». Seguono le 18 firme dei quattordici italiani, tre tedeschi e un libanese.

Alle 23,40 il Signor Cardinale Segretario di Stato, Monsignore Sostituto della Segreteria di Stato, Monsignore Prefetto del Palazzo Apostolico con altri prelati e dignitari sono già in attesa nella sala Clementina. Poco dopo, gli scampati giungono alla seconda Loggia. Sono accompagnati da familiari, tra i quali alcuni bimbi di pochi anni, e da un gruppo di dirigenti dell’E.N.I. con l’ing. Cefis. Presenti anche Mons. Bayer e P. Byrne della «Caritas Internationalis» con il personale del loro ufficio, oltre a Monsignor Okoye, Vescovo di Port Harcourt in Nigeria: gli ecclesiastici che più di ogni altro si erano fatti interpreti attivi ed efficaci della sollecitudine del Papa.

A mezzanotte il gruppo entra nella sala del Trono.

La loro liberazione - dice subito Paolo VI dopo affettuoso e paterno saluto - è un successo del Vangelo, della dottrina di Cristo. In nome Suo, il Santo Padre si era indirizzato a chi poteva tutto nella dolorosa circostanza, Aveva supplicato, ricordando la parola di Gesù: «Quanto avrete fatto a uno di questi piccoli, l’avrete fatto a me». Aveva anche aggiunto: «Consideratelo fatto al Papa». Il Vangelo aveva vinto. (Mons. Bayer portava con sé una lettera del rappresentante speciale del Generale Ojukwu, che comunicava la grazia e il preciso desiderio che i 18 uomini fossero consegnati a Sua Santità attraverso i suoi rappresentanti).

Che a determinare la vittoria, senza sottovalutare altri preziosissimi interventi, fosse stata l’opera religiosa del Papa, questi uomini lo sapevano meglio di tutti gli altri. Per questo la loro commozione andava ben al di là di quella che pure prova ogni cristiano ammesso alla presenza del Vicario di Cristo.

Il Papa è rimasto in piedi per tutta la durata dell’udienza, alto su un gradino dell’antica cattedra di pietra addossata alla parete ed ha aperto l’incontro con parole improvvisate, piene di tenerezza. Egli esprime, anzitutto, la sua gioia per questo ritorno. Ringrazia i cari ospiti per essersi recati a trovarlo. Dice la sua gratitudine al Vescovo di Port Harcourt da Lui conosciuto in Nigeria che li ha accompagnati in Italia. Ricorda molte località della Nigeria ben familiari ai cari lavoratori. A ogni nome, i loro occhi si illuminano: c’è un legame di più tra essi e il Papa; Egli sapeva, aveva visto!

Il Papa prosegue ricordando che tutta l’Italia, tutto il mondo si era interessato alla loro sorte: ma che il Vicario di Cristo aveva motivi speciali per interessarsene, quelli della paternità, dell’amore cristiano, dell’urgenza di essere presente dovunque è in pericolo una vita umana o è compromessa la causa della pace. Ed ora è oltremodo soddisfatto che quanti ieri erano in grave pericolo siano restituiti alla patria, alla famiglia, al lavoro. Non manca un acuto dolore al pensiero dei colleghi rimasti vittime dell’eccidio. Purtroppo sono le conseguenze di ogni guerra, senza che sia sempre possibile attribuire chiare e specifiche responsabilità: perché è la guerra il grande male, alla radice di molti altri. Possiamo riflettere al merito del loro sacrificio innocente, di persone che non facevano nulla di male e ciò nonostante erano state colpite. Il Papa si unisce ai presenti che l’indomani avrebbero onorato i loro fratelli di lavoro a Metanopoli, durante il rito funebre; sarebbe stato tra loro con il cuore e la preghiera di suffragio.

A questo punto Sua Santità tiene a confermare che il suo interessamento non era stato certo effettuato per escludere altri, per interesse, per ragioni politiche che possano indurlo a parteggiare in questo conflitto, o per ragioni di pubblicità, come qualcuno potrebbe pensare. Soltanto l’affetto per questi suoi figli sottoposti a una prova tremenda lo poteva spiegare. Dopo aver ricordato l’istituzione alle cui dipendenze gli scampati lavorano, la cui conoscenza diretta risale agli anni del suo ministero pastorale a Milano e dopo aver espresso speciale gratitudine agli uomini della «Caritas Internationalis», il Papa riconferma il suo impegno di portare la pace dov’è la guerra, il nutrimento dove c’è la fame, il soccorso dov’è la sofferenza: in una parola, l’impegno di compiere il bene derivante dagli insegnamenti di Nostro Signore. Sua Santità conclude riaffermando la convinzione che questa liberazione, questo felice epilogo di un evento che poteva essere dramma luttuoso è dovuto alla forza della parola di Gesù, parola alla quale bisognerà sempre conformare la vita, se si vorrà impostarla nella linea della bontà e rettitudine.

Uno dei tecnici liberati, a questo punto, prende la parola, frenando a stento la commozione. Come aveva parlato davanti al Presidente del Gabon, della Costa d’Avorio e al Governatore di São Tomé, così ora intende parlare al cospetto del Papa, scusandosi di non saper esprimere tutto quanto avrebbe voluto, a nome suo e dei compagni. Egli tiene a sottolineare che la speranza cominciò veramente ad accendersi in tutti quando il Vescovo Monsignor Okoye portò loro a nome del Papa un ricordino da Lui benedetto. Fu quello il segno di una grande presenza e la certezza di un’azione che sola forse avrebbe potuto salvarli.

Dopo questo indirizzo, che ha raggiunto nella sua semplicità vertici di commozione, il Santo. Padre si avvicina a ciascuno dei protagonisti dell’udienza, stringe le loro mani, li ascolta singolarmente, e dona loro un Crocifisso dicendo che chi aveva sperimentato così duramente la croce era giusto che ricevesse dal Papa un Crocifisso a suo conforto. Anche le donne e i bambini presenti ricevono doni simbolici e parole paterne. Infine, rivolgendosi all’Ing. Cefis e ai dirigenti dell’E.N.I. che erano con lui, Sua Santità aggiunge altre parole di affettuosa paternità. Poi l’udienza è finita.

Con l’animo ricolmo di indicibile consolazione i lavoratori dell’E.N.I. lasciano il Vaticano per far ritorno all’aeroporto di Fiumicino da cui un apparecchio speciale li porterà a Metanopoli.

                                



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