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COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE

PROMOZIONE UMANA E SALVEZZA CRISTIANA*

(1976)

 

Introduzione

Il problema del rapporto tra la promozione umana e la salvezza cristiana ha assunto dappertutto una grande importanza. Ciò si verifica in modo particolare a partire dalla fine del Concilio Vaticano II, durante il quale la Chiesa s’è in maniera speciale interessata — sotto il profilo della responsabilità dei cristiani — alle questioni riguardanti l’organizzazione del mondo. In America Latina e altrove, diverse teologie della liberazione hanno attirato sempre più l’attenzione. Nella sua sessione annuale (4-9 ottobre 1976) la Commissione Teologica Internazionale s’è dedicata a questi problemi. Ma più che focalizzare la sua attenzione sui diversi saggi o tendenze recenti, essa l’ha concentrata sulle questioni fondamentali concernenti il rapporto tra il progresso umano e la salvezza cristiana. In tal modo ha attuato un disegno già antico: proseguire lo sforzo di ricerca iniziato dalla Gaudium et Spes.

Le pagine seguenti vanno considerate come un compendio dei punti principali acquisiti. Questa specie di rapporto finale tien conto delle difficoltà inerenti ai problemi studiati e dello stato attuale dei dibattiti fra teologi. Le tendenze teologiche di cui si tratta sono molteplici, soggette a molti cambiamenti; si correggono in continuazione. Inoltre esse sono strettamente legate alle condizioni economiche e sociali come pure alla situazione politica del mondo e delle diverse regioni particolari. Infine, non bisogna trascurare le controversie di cui tali saggi hanno costituito l’oggetto, e che sono state suscitate da diverse parti nel timore di veder queste ricerche teologiche tradursi in prese di posizione politiche, nuocendo all’unità della Chiesa.

La Commissione Teologica Internazionale auspica, in ogni caso, di apportare un contributo alla discussione, in vista d’un esame critico delle utilità e dei rischi insiti nelle tendenze in questione.

K. Lehmann
Presidente della sottocommissione

 

1. Le situazioni di povertà e d’ingiustizia come punto di partenza d’un movimento teologico

Il Concilio Vaticano II ha richiamato alla Chiesa l’obbligo permanente di « scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo » [1]. L’attuazione pratica di questa raccomandazione ha costituito oggetto di particolare insistenza nei documenti emanati dalla seconda Conferenza generale dell’episcopato dell’America Latina, tenuta nel 1968 a Medellín, in Colombia: la Chiesa ascolta il grido dei poveri e si fa interprete delle loro angustie. Le sollecitudini che ispira alla Chiesa diffusa nel mondo intero la sfida lanciata dall’oppressione e dalla fame si manifestano non soltanto negli atti pontifici Mater et Magistra, Pacem in Terris, Populorum Progressio, Octogesima Adveniens, ma anche nelle dichiarazioni del Sinodo dei vescovi riunito a Roma nel 1971 (La giustizia nel mondo) e nel 1974. Il papa Paolo VI ha ancora additato il dovere che incombe alla Chiesa in questa materia nell’esortazione apostolica L’evangelizzazione nel mondo d’oggi, dell’8 dicembre 1975 [2].

Bisogna tener conto di queste circostanze per comprendere i numerosi saggi teologici pubblicati in questi ultimi anni intorno a tali problemi. Anche se rivestono un carattere scientifico, essi tuttavia non si presentano per prima cosa come frutti d’una ricerca teorica, né prima di tutto come una teologia « scritta ». Essi intendono rimanere in stretto contatto con la vita quotidiana delle popolazioni vittime della miseria e col compito che la Chiesa deve adempiere in siffatta circostanza. Loro proposito è di far largamente sentire il grido del fratello povero e sofferente, i lamenti suscitati dalla fame, dalle malattie, dall’ingiusto sfruttamento praticato a scopo di lucro, dall’esilio forzato, dall’oppressione. Bisogna aggiungervi le inumane condizioni di esistenza imposte ad uomini che posseggono soltanto ciò che hanno addosso, che trascorrono la notte nelle strade, vivendovi e morendovi, senza usufruire neppure della più elementare assistenza medica.

Per il cristiano illuminato dal Vangelo, questi « segni dei tempi » costituiscono una delle sfide più provocanti; lo incitano a compiere, in nome della fede, tutti gli sforzi possibili per liberare questi suoi fratelli dalla loro inumana condizione. Quest’interessamento per i miseri e quest’alleanza con gli oppressi trovano espressioni particolarmente suggestive nelle parole bibliche di giustizia, liberazione, speranza, pace.

Questa testimonianza di sollecitudine verso i poveri, nutrita dal Vangelo di Cristo (cf. Lc 4, 18 ss.), costituisce come l’istanza spirituale costante di tutti i saggi dei teologi in questa materia; le considerazioni teologiche e le opzioni politiche sono ad esse chiaramente debitrici della loro ispirazione. Un’esperienza spirituale stimola lo sforzo intellettuale, che tende a tradurre i movimenti della carità cristiana in consegne efficaci d’azione mediante la riflessione umana e la cosiddetta analisi scientifica. I due momenti — quello d’un’esperienza spirituale di carattere fondamentale e quello del pensiero teologico e scientifico — sono complementari e formano un’unità vivente. Bisogna però guardarsi dal confonderli. Non s’ha dunque il diritto di opporre una critica negativa ai diversi sistemi teologici di cui si tratta, se non si resta attenti al clamore dei poveri e se non si ricerca una maniera migliore di rispondervi. Ma, d’altra parte, è lecito domandarsi se le elaborazioni teologiche più in auge al momento presente, così come si presentano di fatto, aprano l’unica via che porta a venire incontro, nella maniera più adeguata, all’aspirazione verso un mondo più umano e più fraterno. In realtà, ogni teologia che voglia essere efficace deve eventualmente accogliere le modifiche e i correttivi che vengono suggeriti, se questi la mettono in grado di meglio adempiere la sua missione fondamentale.

2. Un nuovo tipo di teologia. Le sue difficoltà

A) I saggi teologici di cui abbiamo già parlato prendono le mosse dalle condizioni d’oppressione nelle quali si trovano degli uomini asserviti ad altri in materia economica, sociale e politica, e che aspirano alla libertà. Questa situazione storica dell’umanità non viene considerata come un destino impossibile a essere cambiato; la storia infatti viene compresa come un processo « creativo » che deve condurre a maggior libertà in tutti i campi dell’esistenza e far sorgere finalmente « l’uomo nuovo ». Nel cambiamento delle situazioni inumane si scorge una domanda e una volontà di Dio: Gesù Cristo, che con la sua azione redentrice ha liberato gli uomini dal peccato in tutte le sue forme, conferisce un fondamento nuovo alla fraternità umana.

Questa considerazione, che sta all’origine di tali saggi teologici, conferisce anche ad essi la loro forma particolare, in certo modo nuova. Dio rivela il proprio mistero attraverso gli avvenimenti stessi; più il cristiano penetra le situazioni concrete e la loro evoluzione storica, meglio risponde alla Parola di Dio. Si coglie meglio così l’unità profonda che lega la storia divina della salvezza operata da Cristo agli sforzi compiuti in favore del bene degli uomini e dei loro diritti. Senza identificare puramente e semplicemente la storia profana e la storia della salvezza, si concepiscono tuttavia i loro mutui rapporti in termini d’unità. Non è più permesso di spingere la differenza che le distingue nel senso d’una specie di dualismo, nel quale la storia umana e la salvezza vengono supposte come indifferenti l’una all’altra. Al contrario l’attività umana acquista nuovo valore, propriamente teologico, nella storia proprio in quanto costruisce una società più umana. L’avvento di una società giusta è, in realtà, concepito come l’anticipazione della venuta del regno di Dio [3]. In conseguenza si concepisce la fede cristiana prima di tutto come una prassi storica che cambia e rinnova l’ordine sociale e politico.

Questo modo di pensare comporta molti elementi di gran valore; bisogna infatti che il cristiano percepisca più pienamente l’unità totale della sua chiamata alla salvezza [4]. Senza alcun dubbio la fede, intesa in senso biblico, raggiunge tutta la sua fecondità e la sua pienezza solamente nelle azioni. Il Concilio Vaticano II [5] ricorda a sua volta che lo Spirito Santo agisce nella storia del mondo; che anche fuori della Chiesa visibile si ritrovano, fino a un certo punto, i preamboli della fede, cioè le verità e le norme concernenti Dio e il bene comune, accessibili alla sana ragione e che costituiscono come la base della religione cristiana [6].

In parecchie correnti teologiche, tuttavia, questi dati elementari si ritrovano sottoposti a interpretazioni unilaterali, che si prestano quindi ad obiezioni. Così non si può ridurre l’unità fra la storia del mondo e la storia della salvezza a una concezione tendente a far coincidere la storia profana col Vangelo di Gesù Cristo. Questo è un mistero dell’ordine soprannaturale, e dunque realtà irriducibile ad ogni altra realtà, completamente trascendente la comprensione dell’intelligenza umana [7]. Né si può totalmente cancellare la frontiera fra la Chiesa e il mondo. Questo, come esiste storicamente, è, sì, il luogo in cui si svolge il disegno divino di salvezza, ma non fino al punto che la potenza e il dinamismo della Parola di Dio si limitino a promuovere il progresso sociale e politico. Di conseguenza la pratica della fede (praxis fidei) non può ridursi allo sforzo per migliorare la società umana. In realtà questa pratica della fede comporta, insieme con la denunzia dell’ingiustizia, la formazione della coscienza, la conversione delle disposizioni intime, l’adorazione del vero Dio e di Gesù Cristo nostro salvatore, in opposizione ad ogni forma di idolatria. Similmente la « fede come prassi » non dev’essere compresa come se l’impegno politico debba abbracciare e guidare in maniera totalitaria e « radicale » tutte le attività dell’uomo.

B) Peraltro vanno qui precisati due punti:

1. È necessario che il dibattito politico — il quale s’accompagna ordinariamente con un’opposizione di forze — non finisca col far perdere di vista o con lo svuotare l’obiettivo e il frutto proprio dell’attività cristiana, cioè la pace e la riconciliazione. Non può esser questione di accentuare le opposizioni e di lasciare il primato alle azioni violente.

2. Dev’essere sempre ben chiaro che, per il cristiano, « l’elemento politico » non costituisce il valore assoluto che conferisce alla vita intera il suo significato ultimo. Non è un assoluto nell’« eone » cristiano, ma resta sempre contrassegnato dal carattere di strumento fatto per servire. La dimenticanza di questo principio fa pesare sulla libertà degli uomini il pericolo inerente ai movimenti che favoriscono l’avvento di regimi dittatoriali. D’altra parte, anche se la teologia è in certo modo ordinata alla prassi, la sua funzione eminente consiste nel ricercare l’intelligenza della Parola di Dio. In qualunque modo essa si eserciti, dev’essere capace di distanziarsi dai condizionamenti concreti, che quasi sempre comportano pressioni e costrizioni d’ogni sorta in ordine all’agire. I principi della dottrina cattolica in materia di fede e di morale offrono agli uomini la luce che loro consente di formarsi un giudizio sul da farsi in vista dell’eterna salvezza, senza rischiare di perdere la libertà dei figli di Dio. Solo in queste condizioni la teologia si trova realmente sottomessa alla verità e pone in salvo l’autorità sovrana e il carattere singolare della Parola di Dio. Bisogna dunque guardarsi in maniera tutta particolare dal cadere in una visione unilaterale del cristianesimo, che intaccherebbe la cristologia, l’ecclesiologia, la nozione stessa della salvezza e dell’esistenza cristiana come pure il compito proprio della teologia.

C) Le accuse profetiche lanciate all’ingiustizia, gli appelli che invitano a far causa comune coi poveri si riferiscono a situazioni molto complesse, maturate in un dato contesto storico e determinate da certe condizioni sociali e politiche. Il giudizio profetico da pronunziare intorno alle situazioni del momento non può esso stesso essere formulato senza l’applicazione metodica di criteri sicuri. Per questo i diversi saggi teologici sulla liberazione si riferiscono a teorie derivanti dalle scienze sociali, le quali esaminano in maniera oggettiva ciò che è espresso dal « grido dei popoli ». Per sé la teologia è incapace di dedurre dai suoi principi specifici norme concrete d’azione politica; similmente il teologo non è abilitato a risolvere coi suoi lumi i dibattiti fondamentali in materia sociale. I saggi teologici orientati verso la costruzione d’una società più umana devono tener conto, quando attingono alle teorie sociologiche, dei rischi inerenti a queste utilizzazioni. Bisogna vagliare nei singoli casi il grado di certezza di queste teorie, giacché, di fatto, spesso esse si riducono a delle semplici congetture, né è raro che contengano elementi ideologici, espliciti o impliciti, fondati essi stessi su presupposti filosofici discutibili o sopra un’erronea concezione antropologica. È il caso, ad esempio, d’una notevole parte delle analisi ispirate al marxismo e al leninismo. Se si ricorre a teorie ed analisi di questo genere, bisogna rendersi conto che esse non acquistano nessun supplemento di certezza per il fatto che la teologia le inserisce nella trama delle sue enunciazioni. Piuttosto la teologia deve riconoscere il pluralismo delle interpretazioni scientifiche della realtà sociale, e non legarsi semplicemente a nessuna delle analisi sociologiche concrete.

3. Aspetti di teologia biblica

Poiché i saggi di cui parliamo si appellano spesso alla Sacra Scrittura, conviene vedere più da vicino ciò che l’Antico e il Nuovo Testamento dicono del rapporto che collega la salvezza al benessere e ai diritti dell’uomo. Qui è solo possibile uno studio parziale, è ovvio. D’altra parte bisogna evitare un anacronismo che introduce nella Bibbia concetti odierni.

a) L’Antico Testamento

Ai nostri giorni, per determinare il rapporto esistente tra salvezza divina e promozione umana, si fa quasi sempre ricorso al racconto dell’Esodo. In realtà l’uscita dall’Egitto (cf. Es 1-24) è veramente il principale avvenimento di salvezza nell’Antico Testamento: è la liberazione che affranca da una dominazione straniera e dai lavori forzati. Tuttavia l’Antico Testamento non fa consistere tutta la « liberazione » nel trarre il popolo fuori dall’Egitto e ricondurlo dall’esilio. Questa liberazione è ordinata al culto dell’Alleanza celebratasi al Sinai (cf. Es 24); in mancanza di questa finalità essa perderebbe il suo significato specifico. Anche i Salmi, quando parlano di miseria e di lamenti, di soccorso e di ringraziamento, s’esprimono in formule di preghiera che menzionano la salvezza religiosa e la « liberazione » (cf., per es., il Salmo 18). La miseria non è semplicemente identificata con una condizione sociale di estrema povertà, ma anche con l’inimicizia, l’ingiustizia, la colpa e le conseguenze a cui questa conduce: la comminazione della morte e il vuoto che con essa si apre. L’oggetto dei bisogni avvertiti nei diversi capi particolari è un elemento di minore importanza; elemento prevalente è l’esperienza in virtù della quale ci si aspetta solo da Dio la salvezza e il rimedio. Non si può dunque parlare di questo genere di salvezza, in quanto concerne i diritti e il benessere dell’uomo, senza fare al tempo stesso una riflessione teologica globale secondo cui è Dio, non l’uomo, a cambiare le situazioni. Del resto, per tutta la durata dell’esodo, Dio ha provveduto soprattutto alla liberazione e alla purificazione spirituale del suo popolo.

Esempio impressionante d’un’impresa ispirata da una rivelazione divina per tentare di migliorare le condizioni dell’esistenza umana è quello rappresentato dalle invettive dei profeti riguardanti le condizioni sociali, così come si ritrovano soprattutto in Amos (2, 6 s.; 3, 10; 5, 11; 6, 4 ss.; 8, 4 ss.). I profeti successivi riprendono e sviluppano il tema iniziale di Amos, per esempio quando maledicono i grandi proprietari terrieri (cf. Is 5, 8 s.; Mic 2). Osea rinfaccia energicamente ai suoi contemporanei la mancanza di solidarietà (4, 1 s.; 6, 4 e 6; 10, 12); Isaia elenca in modo particolare, tra gli esseri umani che reclamano protezione, le vedove e gli orfani (1, 17 e 23; 10, 1 s.), e profferisce questa minaccia: Dio farà sparire da Gerusalemme « il forte ed il potente », cioè gli alti dirigenti della società (cf. 3, 1 ss.; 1, 21 ss.; 10, 1 ss.). Egli deplora l’accaparramento dei beni nelle mani dei pochi (cf. 5, 8) e, più in generale, l’oppressione di cui i poveri sono vittima da parte dei ricchi (cf. 1, 21 ss.; 3, 14 ss.). Ma, al tempo stesso, resta estraneo a una provocazione alla rivolta contro gli oppressori, anche se un tema del genere si riscontra in certi scritti veterotestamentari (cf. Gd 9, 22 s. e 1 Re 12). La prospettiva del disastro imminente non consente di stabilire un progetto di società più giusta (cf. un inizio ih Gl 3, 1 s.).

Nel pensiero dei profeti, i rimedi ai mali sociali possono venire attraverso le vie più diverse; tuttavia in essi si percepisce più uno scetticismo che si domanda se l’uomo sia veramente capace di costruire un mondo diverso da com’è, che non un ottimismo che alcuni credono fondato sopra una teologia della storia. Una cosa è però certa: essi pongono come esigenza previa un atteggiamento che è propriamente quello della conversione interiore e della giustizia. « Cessate di fare il male! Imparate a fare il bene, ricercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova » (Is 1, 16 s.). Ancora: è necessario che Dio accordi agli uomini la possibilità di realizzare una maggiore giustizia nei rapporti sociali; in fin dei conti solo Dio può provvedere efficacemente ai diritti e al vero bene degli uomini, soprattutto degli oppressi (cf. Is 1, 24 ss.; Es 3, 7-9; Sal 103, 6; 72, 12 ss.; Dt 10, 17 ss.). Dio opera la salvezza al di là delle iniziative buone o cattive degli uomini.

In questo i profeti ravvisano l’esistenza di qualcosa come un « sistema perverso », ma nel loro spirito non è consentito di ridurre ogni cosa al punto in cui il male non sarebbe nient’altro che il segno e l’effetto di strutture sociali ingiuste, e in cui l’abolizione degli abusi potrebbe risultare dalla sola abolizione delle forme esistenti di proprietà. Bisogna pure tener presente l’elemento personale che, secondo l’Antico Testamento, determina il processo di « liberazione », e che è soprattutto messo in luce e confermato dal principio della responsabilità individuale (cf. Ez 18; Ger 31, 29 ss.).

In molti passi importanti dell’Antico Testamento ci si imbatte in intuizioni di una società nuova, non più organizzata secondo le strutture dappertutto in vigore a quell’epoca (cf. per es., Is 55, 3-5; Ez 34; 40-48; Ger 31, 31 ss.). Parecchi Salmi parlano esplicitamente di Dio come liberatore degli oppressi e difensore dei poveri (cf. Sal 9; 10; 40; 72; 76; 146; Gd 9, 11). Quando libera dall’oppressione il popolo d’Israele, Dio esige da esso che s’interdica ogni forma di oppressione dell’uomo (cf. Es 22, 10; Lv 19, 13.18 e 33; Dt 10, 18; 24, 14; Sal 82, 2-4). Il regno di Dio, che ben dovrà venire alla fine, eliminerà ogni dominazione dell’uomo sull’uomo. Per l’Antico Testamento, per lungo tempo, questa speranza non è rimasta sufficientemente distinta dalla storia concreta né si appunta su realtà che la trascendano. Fino ai giorni nostri, numerose ideologie d’una salvezza « secolarizzata » attendono l’attuazione di queste promesse divine solo all’interno dei limiti della storia e dell’azione umana. E tuttavia, come abbiamo visto, siffatte idee sono respinte dall’Antico Testamento.

Bisogna sottolineare, infine, che, nei passi apocalittici della fine dell’Antico Testamento, la speranza d’una vita futura al di là dell’esistenza presente e la teologia della storia proclamano con singolare insistenza l’esperienza della debolezza umana e l’onnipotenza di Dio.

b) Il Nuovo Testamento

Il Nuovo Testamento riprende alcuni elementi molto importanti dell’Antico (cf. per es., il libro d’Isaia, 61, 1, in Lc 4, 16 ss.), o li suppone (cf. Mc 12, 29 ss. e Lv 19, 18). Il discorso sulle beatitudini (cf. Mt 5, 1 - 7, 29, specialmente 5, 3-12) dimostra in modo tutto speciale come le esigenze dell’ Antico Testamento circa la conversione e il rinnovamento del cuore dell’uomo si trovano ribadite con maggior forza, e possono essere realizzate nella Nuova Alleanza mediante la forza dello Spirito Santo. Tuttavia — come s’è fatto notare in molte occasioni — resta l’impressione che il Nuovo Testamento si interessi di meno alle realtà sociali e alla vita collettiva degli uomini. L’inaudita novità del messaggio cristiano ha forse inizialmente moderato l’interessamento portato ai doveri concernenti la vita del mondo. L’importanza trascendente dell’amore personale del Dio incarnato verso il suo nuovo popolo appariva tale da far passare al secondo posto i problemi posti dall’esistenza temporale (cf. il tema della vicinanza del regno di Dio). Alla luce proiettata dal mistero del Signore sofferente e risuscitato, i bisogni umani hanno potuto assumere un carattere di minore urgenza. D’altra parte la situazione politica dell’impero romano distoglieva i cristiani dal dedicare deliberatamente un grande interessamento al mondo.

Tuttavia non è necessario dilungarsi sul fatto che la Buona Novella del Cristo e l’etica del Nuovo Testamento hanno apportato molte norme direttive e modelli di condotta atti, per loro natura, ad ispirare una « critica sociale ». Basta pensare al precetto dell’amore verso il prossimo e verso il nemico (cf. Lc 6, 35; Mt 25, 31-46), agli avvertimenti e alle minacce profferite nei riguardi dei ricchi e dei sazi (per es. Lc 6, 24 ss.; Mt 6, 24; 1 Cor 11, 20 ss.; Gc 2, 1 ss.; 5, 1 ss.), all’obbligo di prendersi cura dei poveri e dei malati (cf. Lc 6, 20; 1 Cor 12, 22 ss.), al comando dato indistintamente a tutti di soccorrere gli altri (Mc 10, 21; Lc 12, 33), alla diffida di ogni dominazione dell’uomo sull’uomo (cf. Mc 10, 42-45; Mt 20, 25-28; Lc 22, 25-27) a motivo della fraternità universale degli uomini (cf. Mt 23, 8; 25, 41 ss.).

Il Nuovo Testamento mostra pure nei fedeli una disposizione ad accogliere forme « istituzionali » di carità cristiana, di cui si hanno esempi nelle collette organizzate a favore di Gerusalemme (cf. 2 Cor 8, 1 ss.), e nel dispositivo dei ministeri di « diaconia » e d’assistenza caritativa (cf. 1 Cor 12, 28; 15, 15; Rm 12, 7; 16, 1; Fil 1, 1; 1 Tim 3, 8 e 12). Evidentemente almeno agli inizi, tali forme « istituzionali » d’assistenza non oltrepassano i limiti e il livello delle comunità né sono ancora molto sviluppate.

Nel campo della liberazione, il Nuovo Testamento offre un altro elemento importante da considerare. Bisogna, infatti, esaminare con particolare attenzione in qual senso è compresa tale liberazione. Ciò, per esempio, che san Paolo dice della nuova libertà è strettamente associato al messaggio concernente la giustificazione; così la liberazione in quanto tale non costituisce un tema separato dagli altri. L’opera salvifica del Cristo ha schiusa l’intimità stessa del cuore umano; così è facile sbagliarsi su quanto costituisce veramente la negazione della libertà e la vera schiavitù dell’uomo. Con estrema penetrazione l’annunzio della giustificazione mostra che l’uomo è sottoposto a potenze malvage. Non si potrebbe avere autentica e intera libertà senza che prima intervenga quella liberazione (cf. Rm 5-7) che affranca dalla morte e dalla caducità (sarx), dal potere del peccato come dalla legge (senza dimenticare gli « elementi del mondo »). « Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi » (Gal 5, 1). Ora, la liberazione che ci affranca da tali potenze ci arreca una libertà nuova, la quale ci rende capaci di agire nello spirito di Gesù Cristo, secondo la carità e al servizio dei nostri fratelli (cf. Gal 5, 6 e 13). Indubbiamente c’è in questo un’anticipazione di ciò che Dio compirà, come dono da lui conferito ai giusti, quando pronunzierà il suo giudizio su tutta la storia umana. La giustizia di Dio, mediante lo Spirito e la sua potenza, ci accorda un’azione liberatrice nella quale siamo capaci di operare il bene, e che raggiunge la sua perfezione suprema nella carità. Così, dunque, quando il Nuovo Testamento parla di « liberazione che libera » (cf. Gal 5, 1), che è grazia, stimolo morale e promessa escatologica, tali enunziati s’inseriscono nell’annunzio della giustificazione e, conseguentemente, trovano in essa il loro fondamento, da essa ricevendo tutta la loro forza ed autorità. Solo considerando le cose a questo livello profondo si possono comprendere e rendere efficaci i dinamismi che i cristiani ritrovano nel Nuovo Testamento in vista d’un’azione liberatrice.

La luce irradiata dallo stesso Nuovo Testamento mostra che non c’è vero cambiamento della società senza riconciliazione dell’uomo con Dio e con gli altri uomini. La vita umana può assumere, in maniera sufficiente e costante, una piega migliore solo se gli uomini diventano « nuove creature » mediante la conversione e la giustizia. I diritti, il benessere, la liberazione dell’uomo si collocano dunque non nell’ordine dell’« avere », ma primordialmente all’interno dei limiti che definiscono l’« essere », e, ovviamente, con le conseguenze che ne derivano quanto alla riforma di tutte le condizioni dell’esistenza umana.

4. Considerazioni sistematiche e teologiche

a) Dio come liberatore e l’azione liberatrice dell’uomo

Com’è già stato notato, non tutti gli enunziati dell’Antico Testamento in materia di liberazione potrebbero continuare a valere sotto ogni rispetto nello stato di cose instaurato dal Nuovo Testamento. La Rivelazione di cui siamo stati gratificati nel Cristo divide il corso ininterrotto della storia della salvezza in tempo di promessa e in tempo di attuazione. Ciò che unisce i due Testamenti è l’assicurazione che solo Dio, signore supremo e sovranamente libero, procura il bene degli uomini; lui solo è il liberatore nel senso vero della parola. Evidentemente, per comprendere quest’affermazione della fede occorre convenire che i bisogni dell’uomo non sono ridotti alle sole difficoltà economiche e materiali; occorre tener presente la totalità di quanto comporta la sua condizione di pericolo e di perdizione. Tuttavia questa ferma asserzione che Dio solo libera veramente non dev’essere presa come un’affermazione analoga a un mito (come se si trattasse d’un deus ex machina); ricorrere a un mito del genere significa piuttosto favorire l’inerzia, l’immobilismo e il torpore negli uomini che si trovano in miseria. Dalla fede genuina le condizioni inumane d’esistenza non possono attendersi né scusanti né complicità. Dio non interviene nel tumulto d’una rivoluzione, ma la sua grazia fortifica lo spirito e il cuore degli uomini, affinandone la coscienza e spingendoli a lavorare, sostenuti dalla fede viva, alla costruzione d’un mondo più giusto.

A tal fine bisogna che tutt’intero l’uomo venga liberato da tutte le potenze malvage. Perciò una conversione che sia autenticamente efficace (metánoia) e il rinnovamento della carità verso Dio e verso il prossimo sono gli elementi che conducono realmente alla liberazione. La liberazione completa, tuttavia, secondo la fede cristiana, non si compie durante il corso degli avvenimenti terreni, cioè nella storia. Questa, in effetti, conduce alla « nuova terra » e alla « città di Dio »; di conseguenza, durante questa fase, ogni azione liberatrice è contrassegnata da un carattere transitorio e soggetta a divenire materia d’un verdetto al tempo dell’ultimo giudizio (cf. Mt 25).

Le nostre considerazioni non si restringono all’esigenza d’una riforma spirituale e dell’assistenza da portare a singoli individui. Esiste un tipo d’« ingiustizia che assume una forma istituzionale »; fin quando essa domina, la situazione stessa reclama un progetto della giustizia e delle riforme. Gli uomini d’oggi non credono più che le strutture sociali rappresentino un dato di natura e, come tali, siano « volute da Dio » o che siano la risultante di certe leggi anonime dell’evoluzione. Il cristiano è sempre tenuto a ricordare che le istituzioni sociali sono scaturite dalla stessa coscienza sociale e che sono oggetto d’una responsabilità morale. Ci si può senza dubbio domandare se sia consentito di parlare di « peccato istituzionale » o di « strutture di peccato », dal momento che il termine biblico di peccato designa anzitutto una decisione espressa e personale della libertà umana. È indubitabile, tuttavia, che in forza del peccato il disprezzo e l’ingiustizia possono insediarsi nelle strutture sociali e politiche. Per questo — l’abbiamo già notato — lo sforzo di riforma deve vertere anche sulle situazioni e sulle strutture ingiuste. Ne abbiamo una consapevolezza nuova, giacché in passato non si potevano percepire con la stessa chiarezza di oggi le responsabilità al riguardo. Da questo punto di vista, la giustizia significa il riconoscimento fondamentale dell’uguale dignità di tutti gli uomini, il felice sviluppo e la tutela dei diritti umani essenziali [8], ed una sicura equità nella ripartizione dei principali mezzi di sussistenza [9].

b) Come definire il rapporto concreto tra la promozione umana e la salvezza operata da Dio

La riflessione sul rapporto tra la salvezza operata da Dio e l’azione liberatrice dell’uomo mostra la necessità di definire con maggiore esattezza i rapporti esistenti tra la promozione umana e questa salvezza, tra la costruzione del mondo e la consumazione escatologica.

Come si deduce dalle considerazioni precedenti, bisogna anzitutto farsi un’idea corretta dei rapporti tra l’attività umana e la speranza cristiana. Bisogna evitare di separarle totalmente, quasi che da un lato vi fosse soltanto il mondo terrestre e dall’altro solo la vita futura ad esso completamente estranea. Ma bisogna altresì evitare un certo « ottimismo evoluzionista », che identifica completamente il dominio di Dio con l’azione umana di costruzione del mondo nel suo svolgimento.

La stessa costituzione pastorale Gaudium et Spes opera una distinzione tra l’accrescimento del regno di Dio e il progetto umano, tra l’opera di divinizzazione e quella di umanizzazione, come pure tra l’ordine della grazia divina e quello dell’attività umana [10], anche se prima tratta degli elementi che accostano reciprocamente questi due ordini di cose. Il servizio degli uomini sulla terra prepara «da materia del regno celeste » [11]. Nel regno di Dio ritroveremo i buoni frutti della nostra attività, ma purificati da ogni sozzura, illuminati, trasfigurati, sì che rimangano non solo la carità (cf. 1 Cor 13, 8), ma anche la sua opera [12].

La speranza escatologica deve esprimersi anche attraverso le strutture della vita secolare [13]. Per questo il Concilio non parla soltanto del carattere passeggero di questo mondo, ma anche della sua trasformazione [14]. La città terrestre e la città celeste devono compenetrarsi, sotto la guida della fede, nel rispetto della loro distinzione come pure della loro unione armoniosa [15]. Questi insegnamenti si ritrovano riassunti nel decreto Apostolicam Actuositatem sull’apostolato dei laici: « L’opera della redenzione di Cristo, mentre per natura sua ha come fine la salvezza degli uomini, abbraccia pure l’instaurazione di tutto l’ordine temporale. Per cui la missione della Chiesa non è soltanto di portare il messaggio dì Cristo e la sua grazia agli uomini, ma anche di animare e perfezionare l’ordine temporale con lo spirito evangelico [...]. Questi ordini, [spirituale e temporale] sebbene siano distinti, tuttavia nell’unico disegno divino sono così legati, che Dio stesso intende ricapitolare in Cristo tutto il mondo per formare una nuova creatura, in modo iniziale sulla terra, in modo perfetto nell’ultimo giorno » [16].

Questi testi c’invitano a considerare le lotte per la giustizia, come pure la partecipazione alla trasformazione del mondo, « come un elemento costitutivo dell’annunzio della fede » [17]. Questa stessa espressione, ratio constitutiva, è ancora oggetto di controversia; sembra esigere un’interpretazione più precisa secondo la quale, attenendosi al senso stretto delle formule, designa una parte integrante, ma non essenziale. In generale, si spiega ordinariamente il testo del Concilio Vaticano II come quello che suggerisce piuttosto un’armonia tra lo sforzo umano di costruzione del mondo e la salvezza escatologica, rispondendo così ad una dicotomia abusiva. Oggi, pur mantenendo con fermezza l’affermazione d’un’unità fra i due termini, conviene piuttosto discernere con maggior chiarezza e rigore ciò che li differenzia. La stessa resistenza che le situazioni terrestri oppongono ai cambiamenti positivi in senso buono, la forza del peccato, certi effetti ambivalenti del progresso umano [18], ci insegnano a riconoscere più distintamente, fin nell’unità della storia della salvezza, una differenza permanente tra il regno di Dio e la promozione umana, come pure il mistero della Croce, senza la quale non si attua nessuna azione veramente salutare [19].

Quando si mette in luce questa differenza — senza d’altra parte dimenticare il legame che unisce i due termini — non s’introduce nessuna specie di « dualismo », come alcuni pretendono. Al contrario, questa visuale più completa aiuta ad adempiere con maggior pazienza, costanza e fiducia, il dovere di promuovere il bene e la giustizia; essa premunisce contro lo smarrimento che potrebbe nascere nel caso di sforzi rimasti senza risultato.

Quest’unità di connessione, e così pure la differenza che contrassegna il rapporto tra promozione umana e salvezza cristiana, nella loro forma concreta devono certamente essere oggetto di ricerche e di analisi nuove; è questo, indubbiamente, uno dei compiti principali della odierna teologia. Il carattere fondamentale della unità in questione non potrà, quindi, essere trascurato, radicato com’è — si può dire — al centro stesso della realtà.

Da una parte la storia concreta è in certo modo il luogo in cui il mondo viene trasformato al punto da toccare il mistero stesso di Dio. Perciò « permangono » la carità e il suo frutto. Questa è la ragione ultima della possibilità d’un elemento che leghi il benessere e il diritto con la salvezza, anche se non si ha unione piena giacché l’avvenimento escatologico viene ad « abolire » e a « far passare » la storia concreta.

Dall’altra parte il regno di Dio « dirige » la storia e sorpassa in maniera assoluta tutte le possibilità d’un’attuazione terrestre; si presenta quindi come l’azione di Dio. Ciò implica una rottura per rapporto a questo mondo, qualunque sia la perfezione che a questo si riconosca. Nella storia di ogni individuo tale discontinuità è risentita come morte, ma, in quanto « trasformazione », essa riguarda l’intera storia, come « andare in rovina » del mondo.

Siffatta dialettica, espressa in questi due principi irriducibili, non trova soluzione; essa non può né deve essere evacuata dalla vita presente, nello stato di « viatore ». Il compimento escatologico, che è ancora oggetto dell’attesa (« riserva escatologica »), è la causa per cui il rapporto tra il regno di Dio e la storia non può enunziarsi né sotto forma di un monismo né sotto quella d’un dualismo; per conseguenza la definizione di tale rapporto non può, per sua natura, se non restare come in sospeso. D’altronde la relazione dell’annunzio della salvezza escatologica alla costruzione dell’avvenire nel tempo storico non può essere determinata in maniera univoca, secondo una linea unica, cioè non tenendo conto se non dell’armonia o della differenza. Forse così si possono spiegare queste parole riferite da Luca: « Il regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione, e nessuno dirà: Eccolo qui, o eccolo là. Perché il regno di Dio è in mezzo a voi » (Lc 17, 20 ss.). La costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo indica un’altra conseguenza di questo rapporto fondamentale tra la storia e la salvezza: « Noi ignoriamo il tempo in cui avranno fine la terra e l’umanità, e non sappiamo il modo con cui sarà trasformato l’universo » [20].

Tale è certamente la soluzione formale del nostro problema, appoggiata dai fatti principali della Rivelazione. Ma nel progresso concreto di questa relazione si possono percepire diverse maniere secondo cui lo stesso rapporto si traduce nei fatti, e che danno luogo a forme particolari diverse tra loro. Per scegliere correttamente le modalità d’applicazione di questa soluzione nel corso della storia e, per esempio, nelle regioni appartenenti rispettivamente al vecchio, al nuovo e al terzo mondo, bisognerà procedere in maniera diversa. Ciò che è valido per i Paesi dell’Europa e dell’America del Nord, i più avanzati nello sviluppo industriale stimolato dal profitto, non ha il medesimo valore per i continenti e per le zone la cui popolazione, in gran maggioranza, soffre la penuria. Tuttavia, a qualsiasi grado si verifichi questa diversità, non è consentito derogare al rapporto fondamentale riconosciuto più sopra tra promozione umana e salvezza cristiana. Per questo si hanno criteri esenti da ambiguità. Si compromette, per esempio, tale rapporto fondamentale se si privilegia l’azione per la liberazione sociale e politica al punto da relegare in secondo piano il culto verso Dio, la preghiera, l’Eucaristia e gli altri sacramenti, l’etica individuale, i problemi dei fini ultimi (la morte e la vita eterna), la lotta austera da sostenere nella storia contro i poteri delle tenebre [21]. Ma, d’altra parte, in situazioni di peccato e d’ingiustizia, bisogna proclamare e mettere in pratica le verità della fede or ora ricordate. In tal modo si rende giustizia al regno di Dio e si svuota l’obiezione spesso formulata, secondo cui la Chiesa getta un velo sulla miseria degli uomini, e addormenta i poveri nel loro stato di bisogno. Apportare un vero conforto e fomentare una speranza falsamente consolatrice, che si limita ad attutire il senso della sofferenza, sono due cose totalmente diverse.

c) Rapporto tra promozione umana e salvezza nella missione della Chiesa

Insistendo sull’importanza di ciò che la Chiesa rappresenta per il mondo, si sottolinea al tempo stesso che la comunità ecclesiale è sempre situata in determinate condizioni concrete in cui certe opzioni politiche si trovano già prese. La Chiesa può ben costituire una comunità d’un tipo particolare; essa non può mai dimenticare che vive costantemente in questa specie d’arena dove sono in competizione i candidati al potere, o in cui il potere s’esercita effettivamente in questa o in quella maniera concreta, dove regnano le ideologie che vi si riferiscono. A motivo della sua origine, del suo carattere soprannaturale e della sua missione religiosa, come pure della sua speranza escatologica, la Chiesa « non si lega in modo esclusivo e indissolubile a nessuna stirpe o nazione, a nessun particolare modo di vivere, a nessuna consuetudine antica o recente » [22]. Essa non può venir confusa con nessun altro sistema sociale né esservi associata a titolo necessario e irrevocabile.

Pur dovendosi guardare dall’esser compromessa negli intrighi di coloro che cercano il potere, essa tuttavia non deve adottare un atteggiamento puramente « neutrale » e « indifferente », né appartarsi in una riserva totalmente « apolitica ». Certamente, al momento attuale, in parecchie regioni del mondo, le sue possibilità d’azione sono così strettamente limitate, che essa è spesso chiamata a testimoniare la propria fede in altre forme, che non sono tuttavia meno profetiche, fra cui spicca la sofferenza nella sequela di Nostro Signore e nel silenzio imposto con la forza. Alla Chiesa non è consentito ammettere, come fanno le forze politiche, certe astuzie e manovre, ma essa deve prevedere attentamente la portata politica dei suoi passi e delle sue omissioni. Può capitare che le si muova il rimprovero di complicità se non denunzia la situazione dei poveri, degli oppressi, delle vittime dell’ingiustizia, ancor più se dissimula tale stato di cose e se si astiene dall’occuparsene. Secondo l’esempio di profeti dell’Antico Testamento, la Chiesa deve affinare la propria coscienza per poter criticare, alla luce della fede, le situazioni sociali. Dev’essere solidale coi poveri: questo termine va inteso in tutta la sua accezione, che comprende, per esempio, gli uomini afflitti da miseria spirituale, psicologia o materiale. L’assistenza efficace da assicurare a tali poveri costituisce, certo, fin dall’antichità uno degli impegni principali della Chiesa e dei suoi membri. Ma oggi il suo esercizio è divenuto la testimonianza più palese d’una fede viva e, per un gran numero di uomini estranei alla Chiesa, un criterio inestimabile della sua credibilità.

L’edificazione e la riforma dell’ordine sociale e politico incombono certamente ai laici a titolo particolare [23]. Ma tutt’intera la Chiesa — che è rappresentata principalmente dai ministeri del Sommo Pontefice, dei vescovi, dei preti e dei diaconi — non ha il diritto di tacere nei casi in cui vengono calpestati la dignità umana e i diritti elementari dell’uomo. Stando così le cose, la Chiesa può essere tenuta, nel suo insieme, ad esprimere il proprio pensiero senza ritardi e con vigore. D’altronde, in numerose circostanze particolari, è lasciata al cristiano la possibilità d’operare liberamente una propria scelta tra maniere diverse di tendere allo stesso scopo comune [24]. Per conseguenza, è impossibile evitare totalmente tra cristiani controversie in materia sociale e politica. « Ai cristiani che sembrano, a prima vista, opporsi partendo da opzioni differenti, [la Chiesa] domanda uno sforzo di reciproca comprensione per le posizioni e le motivazioni dell’altro » [25]. Senza dissimulare le proprie opinioni personali, ciascuno sarà sollecito di contribuire all’attuazione dell’obiettivo comune, mediante le proprie raccomandazioni e i propri incoraggiamenti. Nella diversità dei modi di pensare, i cristiani non dimenticheranno mai quell’assioma del Concilio Vaticano II: « Sono più forti le cose che uniscono i fedeli che quelle che li dividono » [26].

L’unità della Chiesa, invece, corre un serio pericolo se le differenze esistenti tra le « classi » sociali sono assunte nel sistema della « lotta di classe ». Non si possono del tutto evitare certe contese là dove esistono disuguaglianze tra le « classi ». Il cristiano si distingue anzitutto per la maniera con cui cerca di risolvere tali conflitti: non preconizza il ricorso alla violenza contro la violenza, ma si sforza d’ottenere un cambiamento della situazione con mezzi diversi, quali la formazione delle coscienze, lo scambio di vedute, l’appoggio accordato ad azioni non violente.

Neppure è consentito ai cristiani di trascurare l’obiettivo principale: la riconciliazione. Si eviterà anche che le opposizioni in materia sociale e politica prendano il sopravvento sul resto, al punto — per esempio — che cristiani militanti per opzioni diverse non celebrino più insieme l’Eucaristia e si escludano vicendevolmente da essa. L’opzione politica non ha il diritto di farsi tanto combattiva da compromettere l’universalità dell’annunzio cristiano della salvezza, il quale dev’essere recato a tutte le genti, compresi i ricchi e gli oppressori. La Chiesa non può escludere nessun uomo dalla sua carità. Perciò deve costantemente richiamare e tener viva la sollecitudine di rifiutare al fattore politico un valore quasi assoluto. Ora, una scelta politica esclusiva, intollerante nei confronti di una opzione diversa, diviene tirannica ed altera la natura stessa della politica.

La Chiesa ha l’imprescindibile dovere di opporsi alle rivendicazioni dittatoriali di uno Stato che pretendesse regolare da sé e in esclusiva tutte le dimensioni dell’esistenza. Indubbiamente, in circostanze siffatte, è talvolta difficile o impossibile per la Chiesa far conoscere pubblicamente il proprio pensiero. Essa tuttavia soddisfa in maniera eminente al proprio dovere quando, alla sequela del suo Signore, protesta coraggiosamente contro gli abusi in questione, come pure quando soffre in silenzio o anche quando subisce ogni sorta di martiri.

Ma la genuina liberazione cristiana, che conduce alla libertà, non può venire ostacolata neppure in queste situazioni estreme. Ciò costituisce la nostra suprema consolazione e il cardine principale della nostra fiducia.

Conclusione

L’esame di questi problemi pone in singolare rilievo la diversità delle situazioni delle diverse Chiese locali in seno alla Chiesa cattolica. Questa stessa diversità, tuttavia, non cessa d’essere preoccupante. Può accadere che talvolta il peso delle ineguaglianze sociali, culturali e politiche si aggravi al punto che quanto costituisce la unità e il centro della nostra fede comune appaia incapace a far sormontare la tensione e le rotture. Le discussioni e gli studi condotti in seno alla Commissione Teologica Internazionale hanno essi pure chiaramente evidenziato quanto differiscano le diverse condizioni dei diversi popoli.

Ma, in seno alla Chiesa, nessuno parla soltanto per sé. Bisogna che tutti sentano il grido dei loro fratelli, in qualsiasi parte del mondo siano; di tutti coloro che subiscono trattamenti ingiusti, che sono schiacciati dalla sofferenza, che sopportano la povertà e il tormento della fame. In ciò noi dobbiamo imparare gli uni dagli altri, per non applicare una volta di più, sotto nuova forma, quelle soluzioni sbagliate che, nel corso della storia della Chiesa e delle società umane, vennero attuate a prezzo di molte sofferenze. Come dimenticare quale esempio rappresenti, al riguardo, l’esaltazione radicale della dimensione politica?

In questo sforzo noi ci troviamo uniti mediante l’azione dello Spirito del Cristo. A tale riguardo l’unità e la cattolicità della Chiesa nella varietà dei popoli che la formano, così come nella varietà dei tipi di civilizzazione umana, costituiscono per noi un dono e un’esigenza.

Quanto è stato laboriosamente acquisito non deve venir messo in pericolo alla leggera. Ciò vale in maniera del tutto particolare per tutti quei problemi posti dal rapporto tra promozione umana e salvezza cristiana.


* Testo della dichiarazione approvata «in forma specifica» dalla Commissione Teologica Internazionale.

[1] Gaudium et Spes, n. 4.

[2] Cf. nn. 30-38.

[3] Talvolta si rimanda alla Gaudium et Spes, n. 39 (Terra nuova e cieli nuovi).

[4] Cf. Gaudium et Spes, nn. 10, 11, 57, 59, 61; Ad Gentes, n. 8; Enc. Populorum Progressio, nn. 15-16.

[5] Cf. Gaudium et Spes, nn. 22, 26, 38, 41, 57; Dignitatis Humanae, n. 12.

[6] Cf. Conc. Vatic. I, Cost. Dogmatica Dei Filius; DS 3005.

[7] Cf. ivi.

[8] Cf. lo schema della Pontificia Comm. Iustitia et Pax: The Church and Human Rights, Città del Vaticano 1975.

[9] Cf. Enc. Populorum Progressio, n. 21.

[10] Gaudium et Spes, nn. 36, 38, 39, 40, 42, 43, 58; Apostolicam Actuositatem, n. 7.

[11] Cf. Gaudium et Spes, n. 38.

[12] Cf. Gaudium et Spes, n. 39.

[13] Cf. Lumen Gentium, n. 35.

[14] Cf. Gaudium et Spes, nn. 38, 39.

[15] Cf. Lumen Gentium, n. 36.

[16] Apostolicam Actuositatem, n. 5; cf. anche il n. 7.

[17] Sinodo dei Vescovi 1971, La giustizia nel mondo, Introduzione

[18] Apostolicam Actuositatem, n. 7.

[19] Gaudium et Spes, nn. 22, 78.

[20] Gaudium et Spes, n. 39.

[21] Gaudium et Spes, n. 13 b.

[22] Gaudium et Spes, n. 58; cf. ivi, n. 42; Lumen Gentium, n. 9.

[23] Apostolicam Actuositatem, n. 7; Lumen Gentium, nn. 31, 37; Gaudium et Spes, n. 43.

[24] La Gaudium et Spes, n. 43, sviluppa questo punto di vista.

[25] Paolo VI, Lettera Apostolica Octogesima Adveniens, n. 50.

[26] Gaudium et Spes, n. 92.

 

 

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