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IL CRISTIANESIMO E LE RELIGIONI

Presentazione del documento
della Commissione Teologica Internazionale

S.E. Mons. Luis F. Ladaria, S.I.

 

Nel 1996 la Commissione Teologica Internazionale pubblicò il documento “Il Cristianesimo e le religioni”. Quando nel mese di dicembre del 1992 si riunirono per la prima volta, i membri della Commissione nominati per il quinquennio 1992-1997 proposero ad ampia maggioranza lo studio del problema teologico delle religioni. Il tema in quel momento era già oggetto di dibattito. Senza dubbio allora era una delle questioni teologiche che sollevava maggiore discussione; si spiega così l’interesse della Commissione Teologica nell’abbordarlo. Benché siano trascorsi già alcuni anni, l’interesse per il tema continua e il testo conserva in grande misura attualità. Per questo si dà seguito alla sua traduzione e riedizione in diverse lingue. Questa breve introduzione ha lo scopo di collocare il documento nel suo contesto e di offrire una breve guida per la sua lettura.

Contesto storico e dottrinale

Il concilio Vaticano II rappresentò un progresso e un approfondimento nella visione cattolica sulle religioni. Esse furono considerate in modo più positivo rispetto a quanto si facesse in precedenza, almeno nei documenti ufficiali della Chiesa. La migliore conoscenza delle culture e tradizioni religiose dei diversi popoli aveva contribuito senza dubbio a un cambio di mentalità di cui il concilio non poteva trascurare di farsi eco. Basta leggere i numeri 16-17 della costituzione dogmatica Lumen Gentium, la dichiarazione Nostra Aetate, il decreto Ad gentes 9.11. Tuttavia contro l’intenzione e la lettera stessa dei testi conciliari si diffuse in certi ambienti negli anni postconciliari un certo relativismo religioso, come se tutte le religioni fossero di uguale valore per raggiungere la salvezza; si perse in grande misura la spinta missionaria, fu messa in dubbio la stessa mediazione unica e universale di Cristo. Di fronte a questa situazione nel 1986, a venticinque anni di distanza dalla conclusione del concilio Vaticano II e dal decreto conciliare Ad gentes e a quindici anni dalla pubblicazione dell’esortazione apostolica Evangelii Nuntiandi di Paolo VI, il beato Giovanni Paolo II pubblicò l’enciclica Redemptoris Missio sulla validità del mandato missionario. In essa, mentre si conferma il dovere della Chiesa di annunciare Cristo, si trovano valutazioni profonde sulle culture e le religioni nel contesto della mediazione unica e universale di Cristo. Nel 1992 il Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso e la Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli pubblicarono congiuntamente l’istruzione Dialogo e Annuncio. Questi, e in particolare l’enciclica Redemptoris Missio, erano i riferimenti immediati che la Commissione Teologica doveva necessariamente tenere presenti per svolgere il suo lavoro. Una valorizzazione più aperta e positiva delle religioni non doveva in alcun modo giungere a relativizzare i contenuti della fede. E in effetti, se si analizzano attentamente le dichiarazioni magisteriali su questo tema a partire dal concilio Vaticano II, si vede chiaramente che esse partono dai dati indiscutibili della volontà salvifica universale di Dio e della mediazione unica e universale di Cristo. Si tratta precisamente di riflettere come possa questa salvezza di fatto raggiungere tutti e come Cristo e il suo Spirito si facciano presenti nel mondo intero. Al punto di partenza sta la convinzione che non c’è altra via che Gesù per giungere al Padre, e che solo nella Chiesa che è in Cristo sacramento, cioè segno e strumento dell’unione degli uomini con Dio e tra di loro (cf LG 1), e che sussiste nella Chiesa cattolica (cf ib. 8), si trova la pienezza dei mezzi di salvezza che nella sua infinità bontà Dio mette a disposizione degli uomini. Basandosi su queste verità fondamentali la Commissione Teologica affrontò lo studio di questo tema, anche con l’intenzione di esplorare, seguendo le indicazioni magisteriali, se si possa pensare a qualche apporto positivo delle religioni, pur con la chiara coscienza della sua ambiguità, per la salvezza dei loro adepti. Quattro anni dopo la pubblicazione di Il Cristianesimo e le religioni, nell’anno 2000, la Congregazione per la Dottrina della Fede pubblicò la dichiarazione Dominus Iesus, sull’unicità e l’universalità salvifica di Cristo e della Chiesa. In essa, con linguaggio diretto e chiaro, si espongono alcuni punti essenziali e irrinunciabili della dottrina cattolica sui temi indicati, mentre si segnalano alcuni campi di studio che dovrebbero proseguire. Data la diversità del genere letterario lo stile è diverso da quello del documento della Commissione Teologica. Quest’ultimo raccoglie più dati, discute diverse posizioni, si permette di suggerire qualche ipotesi. È chiaro che un documento magisteriale per sua natura deve essere più sobrio e scarno.

Fatte queste brevi considerazioni di carattere generale e tracciato brevemente il contesto storico, percorriamo le diverse parti del documento, soffermandoci però un momento sul titolo Il Cristianesimo e le religioni. Con questa formulazione si evitava il problema, se il cristianesimo sia o non sia una religione in più, e se si possa, in questo senso, equipararlo alle altre. D’altro lato si parla delle “religioni”, cioè si evita di parlare di religioni non cristiane per non definire le altre a partire da ciò che non sono.

Parte prima: status quaestionis

Al tempo della redazione del documento era necessario alludere ai tentativi comunemente usati per classificare le posizioni teologiche sulle religioni: mentre alcuni parlavano della relazione del cristianesimo con le religioni come del “compimento” delle aspirazioni umane, e vedevano in esse momenti o spunti di speranza, ma anche di inciampo e di caduta, altri con maggiore ottimismo parlavano della “presenza” in esse di elementi di salvezza, in quanto in esse si dà espressione sociale alla relazione con Dio, e in questo senso potrebbero essere di aiuto per accogliere la grazia. Questo maggiore “ottimismo” non impediva peraltro di parlare di elementi di ignoranza, di peccato e perfino di perversione (n. 4). L’ambiguità del fenomeno religioso, anche con diverse sfumature, era riconosciuta dai teologi più significativi.

La maggioranza dei teologi cattolici, con le differenze che abbiamo ricordato, si muoveva nella linea cristocentrica, partiva cioè dalla convinzione che Gesù è il salvatore di tutti, che solo in lui si realizza la volontà salvifica di Dio e che pertanto la sua mediazione unica può raggiungere tutti gli uomini nella situazione, anche religiosa, in cui si trovano. Si parlava così di una tendenza “inclusivista”, in quanto la salvezza di Cristo è in linea di principio accessibile a tutti gli uomini, poiché la grazia divina, in un modo o in un altro, può raggiungere tutti (n. 11).

A questa tendenza si opponeva una linea “esclusivista”, chiamata da altri “ecclesiocentrica”, che già a quei tempi non era difesa dai teologi cattolici perché i pronunciamenti magisteriali non permettevano più un’interpretazione stretta del principio extra Ecclesiam nulla salus (n. 10). Viceversa risultava già problematica la tendenza “pluralista”, che ammetteva, con diverse sfumature, una pluralità di mediazioni di salvezza. Gli autori che propugnavano questa linea pensavano che il cristocentrismo fosse insufficiente, e che solo il “teocentrismo” potesse dare ragione dell’incomprensibilità di Dio e della sua trascendenza. Nessuna mediazione concreta può pretendere l’esclusiva della rivelazione. Possono esserci manifestazioni complementari del Logos divino, che in nessuna religione potrebbe essere pienamente espresso (n. 12). È chiaro che si entrava nel cuore del dibattito cristologico e teologico. E che non si poteva accantonare la questione della verità (nn. 13-15) come nemmeno quella dell’annuncio esplicito di Cristo nell’epoca del dialogo (nn. 23-26).

Di fronte a questo panorama la Commissione Teologica proponeva tre compiti fondamentali alla teologia cristiana delle religioni (cf n. 7): a) il cristianesimo dovrà comprendere se stesso nel contesto di una pluralità di religioni, e in concreto dovrà riflettere sull’universalità che rivendica; b) dovrà studiare il senso e il valore delle religioni nel quadro della storia della salvezza; c) si dovranno esaminare i contenuti concreti delle religioni per confrontarli con la fede cristiana. Questo terzo compito non poteva essere affrontato nel documento. Mancavano nella Commissione Teologica specialisti capaci di portarlo a termine. Neppure gli altri due temi sono trattati sistematicamente, si diedero però elementi fondamentali per il loro studio. Tanto il senso dell’universalità del cristianesimo quanto il valore delle religioni nella storia della salvezza sono affrontati in diversi momenti dell’esposizione.

Parte seconda: i presupposti teologici fondamentali

La risposta alle questioni sollevate in relazione alla posizione del cristianesimo nell’universo delle religioni e il valore che a queste si possa attribuire dipendono da una serie di questioni teologiche fondamentali. Il documento le tratta in questo ordine: l’iniziativa del Padre nella salvezza; la mediazione unica di Cristo; l’universalità dell’azione dello Spirito Santo; la Chiesa come strumento universale di salvezza.

Non c’è bisogno che ci fermiamo molto sul primo punto. Neppure lo fa il documento (nn. 28-31). Segnaliamo solo l’importanza del contesto di 1 Tim 2,3-6: Dio salvatore vuole che tutti gli uomini si salvino e giungano alla conoscenza della verità, e questa volontà universale è legata alla mediazione unica di Gesù Cristo. Il Padre ha concepito il disegno di salvezza in Cristo prima della creazione del mondo e lo vuole portare a termine ricapitolando tutto in lui (cf Ef 1,4-10). Il Padre non solo è all’inizio dell’opera di salvezza ma è anche il fine a cui essa tende (cf 1Cor 15,28).

Più spazio occupa la trattazione della mediazione unica di Gesù (nn. 32-49). Alcune tendenze degli anni ’90 attribuivano la mediazione universale solo al Logos eterno, non al Figlio fatto uomo, morto e risuscitato. Questa tesi è in contraddizione con alcuni testi capitali del Nuovo Testamento (cf 1 Tim 2,5; At 4,12). Si deve mantenere l’universalità della salvezza in Gesù, il Figlio incarnato. Il significato universale di Cristo si trova affermato a vari livelli. In primo luogo, la salvezza di Cristo si dirige a tutti gli uomini, a tutti deve essere annunciato il Vangelo (cf Mt 28,16-20, Mc 16,15-18; At 1,8). Ci possiamo però chiedere se non possiamo scoprire questa universalità anche a un altro livello, previo all’accoglienza del suo messaggio da parte di coloro che lo ricevono. Non mancano indizi di questo nel Nuovo Testamento: Gesù è non solo il mediatore della salvezza, ma anche della creazione; le due dimensioni risultano collegate (cf Col 1,15-20); il parallelismo paolino Adamo-Cristo mostra un significato di Gesù per tutti (cf Rom 5,12-21, 1Cor 15,20-22.44-49). Secondo Gv 1,9 Gesù è la luce che venendo nel mondo illumina ogni uomo. Già abbiamo fatto riferimento al testo di 1 Tim 2,5. In termini che certamente dovranno essere definiti e precisati, il Nuovo Testamento ci parla di una rilevanza e un significato di Gesù di Nazaret, il Figlio incarnato, morto e risorto, per tutti gli uomini. Perciò il documento può concludere: «Né una limitazione della volontà salvifica di Dio, né l’ammissione di mediazioni parallele a quella di Gesù, né un’attribuzione di questa mediazione universale al Logos eterno non identificato con Gesù risultano compatibili con il messaggio neotestamentario» (n. 39).

Il documento continua ricuperando alcuni motivi della teologia patristica, tra quelli di cui il recente magistero, in specie il concilio Vaticano II e il beato Giovanni Paolo II, si sono serviti in diverse occasioni per parlare della presenza universale di Gesù: i semina Verbi, di cui hanno parlato san Giustino e Clemente Alessandrino, che dicono che a tutti gli uomini è potuto giungere qualche frammento della verità che si incontra piena solo in Gesù, il Logos nella sua totalità; l’idea dell’unione del Figlio di Dio con ogni uomo nell’incarnazione; la dimensione cristologica dell’immagine di Dio che il concilio Vaticano II ricorda (GS 22) citando un noto passo di Tertulliano[1]. Tutti questi motivi di tradizione sembrano presupporre che il valore salvifico di Cristo non si restringe a coloro che lo conoscono. Perciò il documento segnala che solo nel contesto dell’azione universale di Cristo e dello Spirito ha senso interrogarsi sul valore e sul senso delle religioni in ordine alla salvezza; si sottolinea con chiarezza che la salvezza è la stessa per tutti gli uomini, che non ci sono economie diverse per coloro che credono in Gesù e per coloro che seguono un’altra religione o non credono in lui, e che non può esserci nessuna via per andare a Dio che non confluisca nell’unica via che è Cristo (cf Gv 14,6) (cf. n. 49).

La Commissione Teologica dedica attenzione anche all’universalità del dono dello Spirito Santo (nn. 50-61). In realtà l’azione universale di Gesù non si capisce senza l’opera dello Spirito, che universalizza l’opera di Cristo. Lo Spirito Santo era stato già presente nell’Antico Testamento, ma come dono del Signore risorto è comunicato alla Chiesa e agli uomini in pienezza. Lo Spirito è sceso al Giordano su Cristo come capo dell’umanità, perché da lui l’unzione potesse passare ai membri del suo corpo. Senza lo Spirito non giunge agli uomini la salvezza di Cristo. La Chiesa è il luogo privilegiato dell’azione dello Spirito, ma già nel Nuovo Testamento vediamo che la sua azione precede la predicazione (cf At 10,19.44-47). L’evento di Pentecoste (At 2,1ss) deve essere visto sullo sfondo e come superamento della divisione di Babele (cf Gn 11,4), e di conseguenza come fermento di unità tra i popoli. Questo dono pertanto ha una proiezione universale. Ma soprattutto il documento sottolinea che il dono dello Spirito viene dal Signore risorto e asceso al cielo alla destra del Padre. Questa è una dottrina costante del Nuovo Testamento. Lo Spirito è stato dato a noi come Spirito di Cristo, del Figlio morto e risorto. Non c’è una “economia” dello Spirito Santo più ampia di quella di Gesù: «Perciò non si può pensare un’azione universale dello Spirito che non sia in relazione con l'azione universale di Gesù» (n. 58). La dichiarazione Dominus Iesus è tornata a insistere su questo particolare. Lo Spirito è di Cristo e conduce tutti a Cristo. L’umanità di Cristo è il luogo della presenza dello Spirito nel mondo e il principio della sua effusione. L’azione dello Spirito nella Chiesa e la sua presenza universale si devono distinguere, ma non separare.

Precisamente questa universalità porta a trattare della Chiesa come sacramento universale di salvezza (nn. 62-79). Si pone il problema se la Chiesa abbia significato solo per coloro che appartengono a essa o anche per gli altri. Dato che la seconda risposta è quella che si considera giusta, la necessità della Chiesa per la salvezza si intende in un duplice senso: la necessità dell’appartenenza a essa e la necessità del ministero della Chiesa a servizio della venuta del regno di Dio. Perciò la vecchia questione dell’extra Ecclesiam nulla salus è affrontata a partire dalle nuove prospettive aperte a partire dal concilio Vaticano II, del legame con la Chiesa corpo di Cristo di tutti i giustificati e soprattutto della missione salvifica della Chiesa nel suo triplice aspetto di martyria, leitourgia e diakonia. In forza della sua testimonianza la Chiesa annuncia a tutti gli uomini la Buona Novella. Nella sua liturgia celebra il mistero pasquale e compie così «la sua missione di servizio sacerdotale in rappresentanza di tutta l’umanità. Questa rappresentanza, secondo la volontà di Dio, è efficace per tutti gli uomini e rende presente Cristo, che “Dio trattò da peccato in nostro favore” (2Cor 5,21)» (n. 77). Nel servizio al prossimo della sua diaconia dà testimonianza del donarsi amoroso di Dio agli uomini. È chiaro che segnalando questi aspetti della funzione della Chiesa come sacramento universale di salvezza non si pretende di aver esaurito un tema tanto complesso.

Parte terza: alcune conseguenze per una teologia cristiana delle religioni

Fino a questo punto non si è detto ancora nulla in concreto del valore delle religioni in quanto tali. Però si sono poste le basi per poter affrontare il problema. A partire da questi presupposti la Commissione vuole offrire alcune linee di riflessione, certamente non dare soluzioni definitive.

Il problema che aveva occupato maggiormente l’attenzione nella teologia delle religioni era il possibile valore di salvezza che queste potevano avere. È il primo punto che la Commissione Teologica studia (nn. 81-87). Né i documenti conciliari né l’enciclica Redemptoris missio si erano pronunciati in modo esplicito su questa tesi, benché si fosse parlato della presenza nelle culture e nelle religioni di semi del Verbo, di raggi della verità e anche di azione dello Spirito. La Commissione Teologica si domanda se questa presenza e azione di Cristo e dello Spirito possano avere altra funzione che quella di aiutare gli uomini a conseguire il loro fine ultimo, la salvezza. A partire da questa considerazione fondamentale la Commissione formula cautamente alcune conclusioni. Si citano alla lettera alcuni dei paragrafi più significativi:

«A motivo di tale esplicito riconoscimento della presenza dello Spirito di Cristo nelle religioni, non si può escludere la possibilità che queste, come tali, esercitino una certa funzione salvifica, aiutino cioè gli uomini a raggiungere il fine ultimo nonostante la loro ambiguità. Nelle religioni viene messo in rilievo esplicitamente il rapporto dell’uomo con l'Assoluto, la sua dimensione trascendente…» (n. 84). «Nelle religioni agisce lo stesso Spirito che guida la chiesa; tuttavia la presenza universale dello Spirito non si può equiparare alla sua presenza particolare nella chiesa di Cristo. Anche se non si può escludere il valore salvifico delle religioni, non è detto che in esse tutto sia salvifico: non si può dimenticare la presenza dello spirito del male, l'eredità del peccato, l'imperfezione della risposta umana all'azione di Dio, ecc. Soltanto la chiesa è il corpo di Cristo, e soltanto in essa è data con tutta la sua intensità la presenza dello Spirito: perciò non può essere affatto indifferente l'appartenenza alla chiesa di Cristo e la piena partecipazione ai doni salvifici che si trovano soltanto in essa. Le religioni possono esercitare la funzione di “praeparatio evangelica”, possono preparare i popoli e le culture ad accogliere l'evento salvifico che è già avvenuto; ma la loro funzione non si può paragonare a quella dell'Antico Testamento, che fu la preparazione allo stesso evento di Cristo» (n. 85). «La salvezza si ottiene grazie al dono di Dio in Cristo, ma non senza la risposta e l'accettazione umana. Le religioni possono anche aiutare la risposta umana, in quanto spingono l’uomo alla ricerca di Dio, a operare secondo coscienza […] Pertanto le religioni possono essere, nei termini indicati, un mezzo che aiuta la salvezza dei propri seguaci, ma non si possono equiparare alla funzione che la chiesa realizza per la salvezza dei cristiani e di quelli che non lo sono» (n. 86). «L’affermazione che possono esistere elementi salvifici nelle religioni non implica, per sé, un giudizio sulla presenza di tali elementi in ognuna delle religioni» (n. 87).

Se da una parte le affermazioni magisteriali che parlano della possibile presenza dello Spirito e dei semi del Verbo nelle religioni portano a affermare la possibilità che esistano in esse elementi di salvezza, la cautela è anche doverosa data l’ambiguità del fenomeno religioso. In ogni caso si evita di identificare espressamente nelle religioni questi elementi. Solo nella religione di Israele, in quanto in essa si riconosce l’autentica rivelazione divina, possiamo affermare con sicurezza la loro esistenza.

Si passa così al tema della rivelazione, altro dei problemi che si affrontano in questa terza parte dedicata ad alcuni punti centrali della teologia delle religioni (nn. 82-92). L’affermazione fondamentale è che «solamente in Cristo e nel suo Spirito, Dio si è dato completamente agli uomini; quindi soltanto quando questa autocomunicazione si fa conoscere, si dà la rivelazione di Dio in senso pieno» (n. 88). Oltre ai libri del Nuovo Testamento, anche quelli dell’Antico, che testimoniano un’autentica rivelazione, sono “parola di Dio”, benché solo alla luce di Cristo essi raggiungano la pienezza del loro senso. Solo i libri canonici devono essere considerati “ispirati” e “parola di Dio”.

A fronte della posizione pluralista a cui già abbiamo fatto riferimento, urge affrontare, nella relazione e nel dialogo con le religioni, il problema della “verità” (nn. 93-104). Se in qualche momento si è potuto dare l’impressione di accantonare tale questione, il documento insiste sulla necessità che di essa si tenga conto direttamente: si deve evitare ogni relativismo. L’insegnamento della Chiesa sulle religioni ragiona a partire dal centro della verità della religione cristiana. Valorizzando ciò che c’è di buono negli altri, non attribuisce alla pretesa di verità delle altre religioni lo stesso valore che alla propria fede. A fronte della teologia “pluralista” la Commissione Teologica ricorda che il concilio Vaticano II ha mantenuto una visione differenziata delle religioni: se tutte hanno in comune lo sforzo di rispondere alle inquietudini più profonde del cuore umano, non si possono misconoscere le differenze fondamentali tra esse. Se da un lato la Chiesa non rifiuta nulla di ciò che vi è di vero e santo in queste religioni, dall’altro ha il dovere di annunciare Cristo, via, verità e vita (Gv 14, 6), l’unico in cui gli uomini incontrano la pienezza della propria vita religiosa (cf n. 100). Una teologia differenziata delle religioni è la base di ogni incontro e dialogo interreligioso serio. Il dialogo non può invalidare i contenuti della propria fede e dell’etica che in essi si fonda. Nel rispetto dell’ “alterità”, il cristiano non può prescindere dal cuore della propria fede nel Dio uno e trino, rivelato in Cristo. Talvolta si taccia questo atteggiamento come pretesa di superiorità o arroganza. Ma la verità di Gesù Cristo è sempre servizio all’uomo; non si può mai presentare con un atteggiamento di superiorità o di dominio.

L’ultimo tema che il documento studia è quello del dialogo interreligioso (nn. 105-113), già insinuato parlando della verità. Non si è voluto trattare con ampiezza questo tema, che già è stato oggetto di attenzione da parte di altri documenti. Due sono i temi fondamentali su cui il cristiano è interpellato: Dio e l’uomo. Sappiamo che le nozioni di Dio o dell’Assoluto delle diverse religioni sono molte e molto diverse. È pertanto fondamentale tenere conto di ciò che gli interlocutori intendono per Dio e la sua relazione con l’uomo. Anche la visione dell’uomo può essere diversa; ma nel dialogo si ha un incontro tra esseri umani, non una semplice comunicazione verbale. L’incontro si colloca nella comune condizione umana di ricerca della salvezza. Questo produce una situazione di uguaglianza più profonda di quella di un semplice dialogo umano. Tutti i problemi umani lungi da essere una distrazione dal dialogo interreligioso propriamente detto sono un terreno propizio per esso. La costante che soggiace sempre a tutti i problemi della condizione umana è quella della morte. E d’altra parte è in essa che risuona con la massima intensità la chiamata del Dio vivente. La testimonianza fondamentale del cristiano sarà quella del Cristo risorto, nell’attesa della sua seconda venuta.

Conclusione: logo e missione della Chiesa

Il dialogo si colloca nell’ambito della missione della Chiesa (nn. 114-117). Ha la sua origine e il suo fine nella santa Trinità. Manifesta e attualizza la missione del Logos eterno e dello Spirito Santo nell’economia della salvezza. Non anzitutto i cristiani sono inviati a compierlo, ma la Chiesa. Perciò non presentano le proprie idee ma Gesù Cristo. Lo Spirito Santo, più che la capacità umana di convinzione, toccherà i cuori. Perciò, benché non si debbano distinguere il dialogo e l’annuncio evangelico, il primo non deve essere privato del suo valore di testimonianza. Può essere così una “preparazione evangelica”, «è già una parte integrante della missione della chiesa, come irradiazione dell'amore diffuso in essa dallo Spirito Santo» (n. 117).

Riflessione finale

Da un lato il documento cerca di accogliere e rispettare i valori delle religioni, seguendo l’esempio che appunto aveva dato il magistero più recente. Insieme però evita ogni relativismo, non parla delle religioni come vie di salvezza, benché affermi la possibilità che per alcuni aspetti possano aiutare in questo senso i loro adepti. Rimane chiaro in ogni momento che non vi è solo del bene, ma anche insufficienze, ambiguità e errori. Benché possano riflettere qualche raggio della verità, non le illumina la Verità completa.

Ma soprattutto si afferma con chiarezza che ciò che in esse possa esserci di valido e buono viene da Cristo e dallo Spirito che egli ha effuso dopo la sua risurrezione. La mediazione unica dell’«uomo Cristo Gesù» (1 Tim 2,5) deve essere sempre mantenuta. Egli è l’unica via che conduce al Padre (cf Gv 14,6), e non sono vere vie quelle che non confluiscono in lui. Non esistono vie parallele o complementari. Per questo motivo l’incontro con Cristo e l’inserimento nella Chiesa che è suo corpo non possono essere indifferenti per nessuno. E anche per questo la Chiesa ha il dovere di annunciare incessantemente Cristo a coloro che non lo conoscono fino alla sua manifestazione gloriosa alla fine dei tempi per giudicare i vivi e i morti.


[1] De res. mort. 6,3: «Quodcumque limus exprimebatur, Christus cogitabatur, homo futurus».

 

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