VISITA PASTORALE A PERUGIA ED ASSISI
DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
AI RAPPRESENTANTI DEL MONDO DEL LAVORO
Salone dell'Oasi di Sant'Antonio
Domenica, 26 ottobre 1986
Fratelli e sorelle!
1. Desidero anzitutto manifestare la mia grande gioia per questo incontro con voi, carissimi lavoratori e imprenditori, e vi esprimo il mio sentimento di profonda stima, di amicizia, di grande rispetto per l’opera che voi, uomini e donne del lavoro, siete chiamati a compiere in favore di tutti. Vi ringrazio anche per le parole di cordiale benvenuto che mi avete rivolto.
Il cristianesimo e la Chiesa incontrano il mondo del lavoro senza difficoltà e senza paura. Il Papa sta bene con voi e ben ricorda di avere lavorato egli stesso nelle cave di pietra di Zakrzówek, vicino alle caldaie della Solvay in Borek Falecki. È attraverso questa esperienza del lavoro che ho meditato profondamente e quasi in una rinnovata luce il Vangelo. È così che mi sono accorto quanto fortemente nel Vangelo sia incisa la problematica contemporanea del lavoro umano e come solo nella prospettiva del messaggio di Cristo sia possibile risolverla adeguatamente, in modo degno per l’uomo e per ogni lavoratore.
2. La Chiesa nutre una profonda simpatia per quello che siete e per quello che fate. Talvolta negli ambienti di lavoro è diffusa l’opinione contraria. La Chiesa, si dice, si occupa soltanto dei valori spirituali e non si interessa dei problemi economici e pratici del lavoro.
Vi risponderò con tutta franchezza che questa obiezione non ha ragione d’essere. La Chiesa si è sempre occupata del mondo del lavoro e ha asserito con coraggio che i diritti fondamentali dei lavoratori devono coinvolgere tutta la sfera sociale ed etica. La Chiesa vuole anzi che le forze di tutte le componenti della società si colleghino e cooperino unitariamente per promuovere nel miglior modo possibile gli interessi di tutti i lavoratori e ritiene che, entro i debiti termini, le stesse leggi e l’autorità dello Stato debbano impegnarsi a questo scopo. Sono questi i principi che noi troviamo espressi nella dottrina di Leone XIII, il Papa della Rerum Novarum, al quale vogliamo oggi rendere un doveroso e corale omaggio in questa città in cui per lunghi anni egli è stato vescovo. Qui a Perugia egli meditò sulla condizione operaia del suo tempo e profuse la ricchezza della sua vita di pastore, di maestro e di padre.
“Perché dopo tanti anni - mi chiedevo nel 1981 - la Chiesa ricorda ancora la Rerum Novarum? Molte sono le ragioni. Innanzitutto la Rerum Novarum costituisce ed è la magna charta dell’operosità sociale cristiana . . . essa è altresì dimostrazione irrefutabile della trepida e solerte attenzione della Chiesa per il mondo del lavoro”.
In quella circostanza ho voluto sottolineare il coraggio col quale la Rerum Novarum ha avviato una sfida a favore dell’uomo: “La voce di Leone XIII si levò coraggiosa in difesa degli operai, degli oppressi, dei poveri, degli umili, degli sfruttati, e non fu che l’eco della voce di Colui che aveva proclamato beati i poveri e gli affamati di giustizia”.
“La Chiesa del XIX secolo si trovava di fronte a una sfida decisiva. Per secoli essa era rimasta radicata in una società di tipo agricolo. Ma si scoprì allora annunciatrice del Vangelo a una nuova forma di società, quella industriale. Le toccò il compito di smascherare le nuove strade dell’egoismo, della cupidigia e della volontà di potenza”. Nell’enciclica c’è il coraggio di accettare e affrontare le “novità” dei tempi senza paure e impazienze; c’è il coraggio di farsi carico della questione operaia: Leone XIII si impegna nella difesa dei deboli e così dimostra che al di sopra di tutto sta la dignità umana, la persona dell’uomo.
Nella Rerum Novarum c’è il coraggio di richiamare a tutti l’originalità del Vangelo: “Le umane generazioni si succedono; ma le pagine della loro storia si rassomigliano grandemente, perché gli avvenimenti sono governati da quella Provvidenza suprema la quale volge le umane vicende a quel fine che ella si prefisse nella creazione dell’umana famiglia”. In un’epoca illuminista e positivista, Leone XIII offrì l’insegnamento del Vangelo per combattere alla radice le disparità sociali e per ricondurre le trame della convivenza sociale alle interiori responsabilità della coscienza umana: “Lo spirito è quello che porta scolpita in sé l’immagine e la somiglianza divina e in cui risiede quella superiorità in virtù della quale fu imposto all’uomo di signoreggiare le creature inferiori” (Rerum Novarum).
3. È importante questo nostro incontro per affermare ancora una volta che “il lavoro umano è una chiave, e probabilmente la chiave essenziale, di tutta la questione sociale, se cerchiamo di vederla veramente dal punto di vista del bene dell’uomo. E se la soluzione, o piuttosto, la graduale soluzione della questione sociale, che continuamente si ripresenta e si fa più complessa, deve essere cercata nella direzione di “rendere la vita umana più umana”, allora appunto la chiave, che è il lavoro umano, acquista un’importanza fondamentale e decisiva” (Laborem Exercens, 3).
Nessuno può nascondersi le imponenti paure e le gravi difficoltà della nostra epoca. Ricordavo già nella mia prima lettera enciclica la “grande paura” che fa soffrire l’umanità intera: “L’uomo d’oggi sembra essere sempre minacciato da ciò che produce, cioè dal risultato del lavoro delle sue mani, e, ancor più, del lavoro del suo intelletto, delle tendenze della sua volontà. I frutti di questa multiforme attività dell’uomo, troppo presto e in modo spesso imprevedibile, sono non soltanto e non tanto oggetto di "alienazione", nel senso che vengono semplicemente tolti a colui che li ha prodotti; quanto, almeno parzialmente, in una cerchia conseguente e indiretta dei loro effetti, questi frutti si rivolgono contro l’uomo stesso. Essi sono, infatti, diretti, o possono essere diretti contro di lui. In questo sembra consistere l’atto principale del dramma dell’esistenza umana contemporanea, nella sua più larga e universale dimensione. L’uomo, pertanto, vive sempre più nella paura. Egli teme che i suoi prodotti, naturalmente non tutti e non nella maggior parte, ma alcuni e proprio quelli che contengono una speciale porzione della sua genialità e della sua iniziativa, possano essere rivolti in modo radicale contro lui stesso; teme che possano diventare mezzi e strumenti di una inimmaginabile autodistruzione, di fronte alla quale tutti i cataclismi e le catastrofi della storia, che noi conosciamo, sembrano impallidire” Redemptor Hominis, 15).
4. Anche le vostre zone e questa bella città di Perugia stanno vivendo una fase di transizione, stimolante ma tribolata. Rendo onore al vostra impegno, alla vostra laboriosità, alla vostra intraprendenza. Apprezzo la vostra passione per la giustizia, il senso e il gusto della famiglia che, pur nella grave crisi attuale, rimangono in voi profondamente radicati. Constato con gioia che i valori autentici del mondo rurale, prevalente non molto tempo fa, li avete portati con voi, sia nelle rinnovate e molteplici aziende agricole, sia nelle numerose e solerti aziende artigiane, sia nelle imprese industriali e nelle nuove attività del terziario.
Oggi però affiora anche in questa regione la minaccia di un rallentamento dei ritmi operativi e di una diminuzione di obiettivi e di spazi di mercato. La transizione comporta pure tra voi l’alto costo umano della disoccupazione specialmente giovanile e femminile; comporta, in generale, il rischio dell’emarginazione di intere categorie di persone.
Sappiamo bene che lo sviluppo scientifico e tecnico non si arresta; come cristiani siamo anzi convinti che esso è frutto dell’ingegno umano, è il riflesso della luce del Creatore e, se posto a servizio dell’uomo, corrisponde al disegno di Dio. Ma sappiamo anche e affermiamo con intensità che il messaggio cristiano “lungi dal distogliere gli uomini dal compito di edificare il mondo, lungi dell’incitarli a disinteressarsi del bene dei propri simili, li impegna, piuttosto, a tutto ciò con un obbligo ancora più stringente” (Gaudium et Spes, 34). Bisogna impegnarsi, quindi, tutti insieme, a sfruttare anche le nuove possibilità offerte dalla transizione. Dobbiamo, insieme, creare nuove risposte operative alle esigenze della cultura, della sanità, del tempo libero, delle aggiornate richieste dei preziosi servizi di carattere civile e familiare.
Bisogna confrontarsi tra responsabili di tutti i livelli e ambiti per fare ciascuno tutto il possibile. Indispensabili sono, evidentemente, sia il coinvolgimento dei giovani e delle donne, sia le coraggiose e mirate aperture del mondo della scuola. Le capacità umane delle vostre genti, le intuizioni creative, l’accentuarsi delle attenzioni del mondo intero verso le bellezze artistiche e verso il fascino culturale delle vostre città, sono ricchezze autentiche che possono stimolare concrete opere di lavoro, anche nel rinnovato e impegnativo contesto dell’economia di Perugia, degna capitale della Regione Umbria.
5. Desidero vivamente ricordare, anche in questo incontro, qualche indicazione orientativa che può inserirsi nelle quotidiane preoccupazioni per i vostri problemi e le vostre attese. Innanzitutto è mia convinzione che ogni lavoro, dal più semplice al più difficile, dal meno retribuito al più compensato, “costituisce una fondamentale dimensione dell’esistenza umana sulla terra”. L’accoglienza serena di questa verità, che dà nobile risalto all’opera di ogni creatura umana, può e deve giustamente cambiare molti rapporti tra coloro che pur operano all’unico e universale banco di lavoro, sia pure con posizioni e con profitti diversi e talora contrastanti.
a) Il lavoro è sempre un fatto che attinge la persona: nasce e matura nella persona. Sempre, poi, il lavoro coinvolge gli altri; è quindi un fatto sociale, perché entra nel circolo vitale dei beni e dei servizi e raggiunge e tenta di risolvere i bisogni di molte creature. Per questo il lavoro, come fatto personale e sociale, attinge sempre i valori morali: supera cioè il mero livello tecnico e influisce nella sfera della vita umana, sia individuale che comunitaria.
b) Il lavoro è finalizzato al bene e non al male.
c) Il lavoro dell’uomo impegna sempre le sue personali responsabilità: l’uomo ne risponde con la sua coscienza, ne rende conto alla sua famiglia e alla più ampia comunità degli uomini.
d) Il lavoro ha un “senso” e dà senso alla vita; stimola dignità, creatività, solidarietà. Il valore unico, perché personale, di ogni lavoro deve costituire il criterio delle valutazioni, delle decisioni, dei rapporti che animano la convivenza sociale.
Di qui nasce il diritto-dovere del lavoro: all’effettivo lavoro di ogni uomo. Di qui nasce il coinvolgimento sociale nei confronti del capitale, privato o socializzato o statalizzato: esso deve infatti subordinarsi, in modo certamente ragionevole e conveniente, al servizio delle persone che lavorano a vari livelli e delle persone che ancora non lavorano. Di qui nasce, infine, l’insopprimibile esigenza che qualsiasi formula di socializzazione non espropri l’uomo del lavoro della sua responsabilità, della sua capacità di rischio, della sua forza progettuale.
6. È la verità del lavoro, che scaturisce dalla verità dell’uomo che lavora, che detta le esigenze della giustizia. Alla radice dei rapporti sociali di ogni genere, infatti, sta una verità: la verità sull’uomo.
Questo è il “principio” fondamentale per qualsiasi iniziativa a favore della giustizia sociale e distributiva. Al principio sta lui, l’uomo che lavora.
Al principio sta lui, perché all’inizio della storia sta la precisa definizione di quello che è ogni creatura umana: “vivente immagine di Dio creatore”. Come il Creatore, l’uomo può amare il suo simile e può dominare e usare ogni realtà a lui sottomessa. Le cose, le macchine, il mondo, l’universo intero sono ordinati all’uomo e raggiungono il loro fine autentico e la loro perfezione soltanto se servono all’uomo, a ogni uomo.
Cari uomini del lavoro, questo ritorno alle nostre radici io l’ho altre volte presentato quale “Vangelo del lavoro”. Esso afferma la dimensione verticale e religiosa di ogni uomo che lavora, che è libero e responsabile collaboratore di Dio creatore. Dio ha bisogno di lui. Noi siamo invitati a meditare ancor oggi con profondo stupore l’annuncio evangelico dell’ineffabile grandezza dell’uomo che lavora.
Dalla parola di Cristo i rapporti sociali nel mondo del lavoro sono radicalmente rinnovati: rinnovati dalla Verità incarnata che esprime lo spessore della dignità del lavoro e dell’uomo che lavora.
Gesù Cristo, per trent’anni - quasi tutta la vita! - si è impegnato in un lavoro manuale, comune, non molto valorizzato. Qui sta la lezione di vita che egli offre a noi tutti: chi lavora deve sentirsi unito a Dio che lo ama; chi lavora imitando Dio può sempre amare. L’uomo del lavoro (artigiano, contadino, professionista, operaio, impiegato, imprenditore), deve sconfiggere la falsa civiltà dell’isolamento e delle chiusure egoistiche, e deve impegnarsi per la civiltà della solidarietà, della pace, dell’amore.
7. Alla luce del messaggio cristiano gli uomini e le donne che lavorano devono perciò sentirsi e chiamarsi fratelli. Essi lo sono, infatti, perché nel lavoro promuovono un bene unico e destinato a tutti, come il Creatore ci ha insegnato, affidando a noi la terra da lui creata; fratelli perché nel lavoro si esprime l’esigenza fondamentale che all’uomo sia ripartito con giustizia il pane quotidiano, e si tende a fare in modo che i bisogni fondamentali di tutti i popoli siano appagati e garantiti; fratelli perché lavorando attestiamo la centralità della persona umana in ogni espressione del lavoro e affermiamo, anche nell’evolversi della moderna tecnica, che la persona umana è il centro e la finalità ultima dell’attività; fratelli, secondo la fede cristiana, perché nel lavoro ci uniamo a Cristo, il Figlio di Dio fattosi uomo, il quale volle imparare da Giuseppe il lavoro umano.
A tutti voi quindi, lavoratori e imprenditori qui raccolti, ai vostri fratelli e amici, a tutti coloro che ascoltano queste mie parole, come alle vostre famiglie e alle vostre imprese imparto di cuore la mia benedizione.
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