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Non c’è riforma della Chiesa senza riforma della teologia

 

L’Osservatore Romano, 27 luglio 2023

  

Piero Coda, teologo nato a Cafasse in provincia di Torino, 68 anni, è segretario generale della Commissione teologica internazionale (CTI). Presbitero della diocesi di Frascati, ha insegnato per lunghi anni alla Lateranense ed ora è professore presso l’Istituto universitario Sophia di Loppiano, di cui è stato preside dalla fondazione nel 2008 sino al 2020. È stato presidente dell’Associazione Teologica Italiana dal 2003 al 2011 e attualmente è Direttore del Centro Studi Scuola Abbà dell’Opera di Maria/Movimento dei Focolari. Papa Francesco lo ha chiamato a coordinare la CTI nel settembre del 2021. I suoi studi, che lo hanno distinto nel panorama teologico, sono rivolti da anni al tema dell’Ontologia Trinitaria: per l’editrice Città Nuova ne cura un Dizionario Dinamico giunto già al quinto volume. Con monsignor Coda, «L’Osservatore Romano» prosegue la sua carrellata di interviste sulla necessità di una rifondazione teologica del pensiero. 

Potremmo intanto iniziare chiedendole un parere sullo stato attuale della teologia. C’è la sensazione che la teologia spesso stenti a tenere il passo con gli spunti innovatori proposti da Papa Francesco. Permane una certa autoreferenzialità della riflessione teologica, tanto in quella “conservatrice” che in quella “progressista”, che non sembra aver accolto quell’indicazione alla “missionarietà” della teologia richiesta da Papa Francesco in «Veritatis gaudium». 

Penso che l’impressione sia vera: c’è una certa inerzia, poca creatività e l’impasse causata dal rifiuto di liberarsi dal fardello di posizioni preconcette. Osservando le cose dalla postazione della Commissione teologica internazionale, istituita da Paolo VI sulla scia del Vaticano II, direi così: nei primi decenni dopo il Concilio, l’impegno teologico si è concentrato nel declinare le grandi direttrici di marcia emerse con nettezza e profezia dall’assise conciliare. Questo fatto ha comportato un complessivo riposizionamento: la teologia ha mutato volto, rinnovandosi nei contenuti e nella metodologia. Ora ci troviamo in una fase nuova, che è propiziata dal ministero di Papa Francesco ma risponde in senso più largo a ciò che lo Spirito dice oggi alla Chiesa e opera — non senza contrasti — nella storia. È una fase in cui la teologia sta cercando, con fatica, d’intercettare la lunghezza d’onda dello Spirito Santo. Spesso si rischia però di fare due passi avanti e uno indietro... Si tratta di accogliere e implementare con creatività le linee proposte dalla Costituzione apostolica Veritatis gaudium. È uno spirito che anima molti giovani teologi, che sono preparati, sinceramente ecclesiali, aperti, capaci d’istruire un dialogo su diverse frontiere. E ciò nell’ambito delle Chiese locali, in presa diretta coi diversi contesti culturali ma al contempo con sguardo alla “cosmopoli” — direbbe Bernard Lonergan — in faticosa gestazione. Così ad esempio in Italia, dove la teologia ha cominciato appunto a parlare con incisività in lingua italiana. Per questo, la prima volta che incontrai Papa Francesco gli dissi: «Lo sappia: la teologia italiana è con lei». Penso al dialogo, vivace, con la filosofia di matrice laica, una caratteristica della teologia italiana da almeno 30 anni. Intellettuali di rilievo come Severino, Cacciari, Galimberti, Vitiello hanno interloquito e interloquiscono con serietà e sincero interesse con il mondo teologico. Lo stesso accade in rapporto al mondo scientifico, anche se in forma incipiente: nelle scienze pecchiamo in genere di una preparazione approssimativa. E poi in rapporto al mondo dell’arte e dei nuovi linguaggi. Detto ciò, sarei insincero se non dicessi che il modo di fare teologia nelle facoltà e nei seminari è spesso vetusto. Una contraddizione che si rileva del resto nella stessa Veritatis gaudium: a un Proemio che apre a praterie sconfinate, segue una parte normativa di impianto quasi casistico, che non corrisponde agli intenti. 

Forse potremmo indicare anche un altro elemento che contraddistingue questa tendenza dei nuovi teologi: il partire dall’esperienza umana, più che dalla concettualizzazione metafisica. Alcuni criticano dicendo che è una teologia sociologica. Ma il ripartire dall’uomo, che è “gloria di Dio”, è segno precipuo della religione dell’Incarnazione.

Sì, questa sensibilità e questo stile mettono in soffitta una teologia astratta e remota dalla vita. Ma siamo solo a metà del guado. Dobbiamo ripartire dall’evento di Gesù, la Parola, il Figlio di Dio/Abbà che si fa carne nella storia, aprendoci senza remore al Soffio (lo Spirito Santo!) di questa decisiva novità che pulsa nell’esperienza umana e la ispira. Solo così si ritrova il nerbo ontologico dell’intelligenza della realtà donata in Gesù: il senso dell’essere che in Lui si dischiude nel “sempre più” e nel “sempre oltre”. Non è qualcosa di sovrapposto e accidentale rispetto all’umano: è ciò che — direbbe San Tommaso — lo porta a inaspettata eppure da sempre desiderata pienezza. Un limite nella teologia contemporanea è spesso la mancanza di audacia e vigore teor-etico: e cioè di visione e performatività. Il pensiero teologico è radicato nel novum dell’evento cristologico, e per questo deve avere la parresia e il coraggio della testimonianza convinta e persuasiva della verità sempre maior. Come diceva il cardinale Pellegrino: non essere uomo o cristiano ma uomo e cristiano, uomo in quanto cristiano. La teologia, oggi come sempre, ha da offrire il suo contributo insostituibile alla definizione di un nuovo umanesimo. Non più, solo, nella forma dell’umanesimo integrale immaginato da Jaques Maritain, ma di quell’umanesimo che il Vaticano II ha propiziato: l’umanesimo della relazione e dell’alterità, l’umanesimo di quella reciprocità che mi piace chiamare reciprocante, perché fa incontrare per andare fuori e oltre, insieme, in Cristo. Non basta declamare la novità del Vangelo, occorre pensarla e incarnarla in paradigmi di pensiero, di azione e di gestione della realtà che siano all’altezza della grazia di Cristo e della coscienza di oggi. 

Ripartire dall’uomo implica però un problema. L’incarnazione ha determinato nella teologia una certa fissità dell’umano nelle sembianze di Gesù di Nazareth. Ma l’uomo cambia. È sottoposto ad un processo evolutivo che solo in parte può influenzare. Cambia fisicamente, ma anche mentalmente e psicologicamente. Il cambiamento antropologico è evidente ad uno sguardo minimamente attento. Ed è anzi divenuto molto rapido. Pensi ad esempio alle relazioni tra i generi, oppure all’esternalizzazione della memoria — che, ricordiamolo produce l’identità — nelle intelligenze artificiali. E noi rischiamo, per dirla col cardinale Hollerich di parlare ad un uomo e una donna che non esistono più. Allora forse un rinnovamento della teologia, dovrebbe iniziare con una rivisitazione del pensiero antropologico. 

L’antropologia teologica così come spesso la rappresentiamo — non ho timore di affermarlo — è in gran parte da archiviare: non certo nella sostanza, ma nell’interpretazione che ne è data. Perché è astratta e idealistica. Presenta una visione del mondo e dell’uomo da esculturazione. Occorre riviverla e ripensarla e riproporla: nella fedeltà certo all’ispirazione evangelica e alla tradizione, ma proprio in virtù di ciò capace di farsi appassionante e storicamente incidente. E cioè di dire ciò che è perenne e imperdibile nel modo in cui oggi è chiamato a prendere forma. Non promette Gesù: «lo Spirito vi guiderà nella verità tutta intera» (Gv 16,13)? La ragione del ritardo è che non abbiamo recepito nel discorso teologico (malgrado le sollecitazioni di Papa Francesco che ci ricorda che il tempo è superiore allo spazio) la percezione della realtà in quanto segnata oggi dalla scoperta della “quarta dimensione”, per cui lo spazio prende senso nella misura in cui è dinamizzato dal tempo: quello che è stato definito il “cronotopo”. Uno spazio senza tempo, alla fine, implode su stesso. La percezione della “quarta dimensione” aiuta a intuire come l’evento di Gesù ha trasfigurato in toto la situazione del nostro essere. Dire che la dimensione del tempo è introiettata nella dimensione dello spazio, significa ad esempio recuperare il significato della memoria collegandola al kairós che viviamo e aprendoci all’avvento di ciò che ci raggiunge dal compimento cui siamo destinati, e che ci è dato «una volta per sempre» (Eb 9,12) nella pasqua di Gesù asceso al Seno del Padre per «attirare tutti a Sé» (cfr. Gv 12,32). Fossilizzare la figura di Gesù è una contraddizione in termini. È in relazione all’avvento sempre nuovo del Regno di Dio che Gesù era, è, e sarà. Non dobbiamo avere paura della costatazione incontrovertibile e perciò interpellante che il cristianesimo oggi, dopo 2000 anni, sta entrando in una fase nuova. L’uscita dalla cristianità non è l’uscita dalla comunione col Padre grazie allo Spirito Santo nel Figlio fatto carne. Memoria, presenza e profezia riconfigurano il tempo introiettandolo nello spazio e dandogli forma. È l’avvento di Dio in Gesù che si realizza nella relazione con il prossimo, l’altro, colui che invoca la mia cura, chi in qualunque modo è ai margini della vita. 

Questo discorso sul “cronotopo” come condizione per la realizzazione del Regno ci porta a un altro ambito ‘debole’ della teologia, quello dell’escatologia. Paolo in «Atti» 17 nel discorso all’Aeropago lega i due aspetti. Con il segno della profezia dice che Dio ha creato lo spazio e il tempo perché potessimo cercarlo, seppure a tentoni. E non a caso nel discorso lega questa constatazione (che incredibilmente anticipa di due millenni le scoperte del secolo scorso) alla Resurrezione di Gesù. Allora, nella logica di un ripensamento anche della escatologia, viene da chiederle: visto che la scienza è concorde nell’affermare l’esistenza di più dimensioni spazio-temporali, è immaginabile che l’“oltre”, quello che chiamiamo il Regno, sia configurabile in un’altra dimensione spazio-temporale? 

Penso di sì. È un’ipotesi di ricerca che dobbiamo prendere in considerazione e che non contrasta con il deposito della fede ma lo dischiude a un senso più realistico e coinvolgente: perché l’oltre mi raggiunge qui ed ora, nel rapporto e nell’apertura a di più. 

Abbiamo la necessità di uscire da una narrazione favolistica tanto del momento creativo che di quello escatologico. Questo sicuramente darebbe nuova credibilità alla fede per l’uomo moderno. 

È un impegno su cui siamo indietro e su cui dobbiamo lavorare: ma prima occorre sperimentarlo. È così che si mette in gioco la valenza missionaria della teologia che Papa Francesco chiede, per ridare orizzonte e speranza a chi è confuso e sfiduciato davanti alle sfide, davvero epocali, che c’interpellano. Occorre dischiudere — per dirla con Antonio Rosmini impiegando un lemma pregnante — l’ontologia e cioè la verità e la bellezza della realtà che è partorita dalle viscere della Rivelazione. Gesù ha inaugurato quel nuovo modo d’essere in cui siamo tutti — tutti! — inseriti per dono. Come insegna il Concilio nella Gaudium et spes al n. 22, «dobbiamo ritenere (il latino è forte: tenere debemus) che lo Spirito Santo dia a tutti la possibilità, nel modo che Dio conosce, di venire associati al mistero pasquale di Cristo», che è il centro della storia. C’è un “cronotopo” cristico, pneumatico, pancosmico (come si è ingegnato a illustrarlo Theillard de Chardin) che è lo spazio/tempo in cui viviamo, crediamo, amiamo, pensiamo, agiamo. Entrare in questa dimensione di vita e di pensiero — e dimorarvi in fraternità e convivialità con l’universo creato — è oggi un imperativo per la teologia: non c’è riforma della Chiesa senza riforma della teologia.

È un compito immane, che necessita una buona dose di coraggio. Perché occorre ricominciare il pensiero fin dal suo inizio. Per esempio la teologia del peccato originale. 

Una realtà trasversale. Anni addietro la Congregazione per la Dottrina della Fede lavorò a un documento sul peccato originale. Ma non se ne fece niente. La meditazione responsabile e aperta sulla realtà della tentazione, della caduta e della redenzione è senz’altro centrale — come mostrano il racconto della Genesi e il compimento della sua promessa in Gesù — e va rimessa in circolo con un’ermeneutica adeguata, partendo dall’affermazione della Lettera ai Romani di Paolo: «dove è abbondato il peccato è sovrabbondata la grazia» (cfr. Rom 5,20). La chiave di tutto è la grazia di Dio, che è amore ed è misericordia. Il dato — che è dono — della libertà della creatura umana, della sua vulnerabilità e della serietà del male, va decifrato in questa luce. Che è quella di Gesù crocifisso, sino a patire la notte dell’abbandono, e di lì per sempre risorto, primogenito tra i molti fratelli e sorelle, primizia di cieli nuovi e terra nuova. 

E messa in relazione anche al passo sempre paolino sulle “doglie del parto”, cioè a quella fragilità dell’umano che è integrata alla creazione, all’uomo essere perfettibile. Una fragilità che l’uomo moderno vede oggi, alla luce dell’evoluzionismo darwiniano, con un occhio diverso. 

Non possiamo più accodarci a una lettura semplificata della questione dell’evoluzione del cosmo e della crisi ecologica che — con l’avvento dell’antropocene — assume oggi proporzioni tali da mettere in pericolo la sopravvivenza dell’umanità e della casa comune che la ospita ed è confidata alla sua cura. Fa difetto una riflessione approfondita sulla connessione tra la coscienza della vocazione umana, e quindi dello sviluppo del cosmo in cui essa si dà, e la sfida della libertà. È il tema fondamentale della modernità. La libertà è condizionata non solo da quell’ignoranza che può essere persino invincibile, ma anche dalla cattiva coscienza: e cioè da quel peccato contro lo Spirito che — attesta Gesù — è l’unico a non essere perdonabile. Occorre pensare e gestire la fragilità e la vulnerabilità della condizione umana prendendo sul serio la tentazione della cattiva coscienza: e cioè la forza tragica del male che scaturisce da una libertà esercitata contro la verità dell’uomo, del creato, di Dio. È il mistero della libertà. E il mistero della grazia.

La psicanalisi nel secolo scorso, e le scoperte delle neuroscienze in questo secolo, sembrano aver inficiato la concezione di libertà alla base del pensiero cristiano. Nel senso che l’uomo sarebbe assai meno libero di quanto siamo abituati a credere.

Ciò che consente di penetrare la relazione tra la libertà e la grazia è il tempo ed è la relazione. Abbiamo pagato un prezzo alto a una certa oggettivizzazione e cosificazione della grazia. Come se si trattasse di un contenuto o di uno stato che viene assegnato a priori, e la libertà fosse semplicemente la facoltà di accettarlo o rifiutarlo. La verità è più profonda. Si tratta di aprirsi, accogliere e lasciarsi plasmare da una relazione viva e personale: con Dio, in Cristo e, in Lui, con gli altri. La grazia si dà negli incontri che ci occorrono lungo l’esistenza. Per rispondere alla sua domanda: bisogna mettere allo scoperto il nucleo profondo della libertà che attraversa certo, nel suo esercizio, una serie di condizionamenti culturali e storici, senza però esser estinta nella sorgente da cui sprizza: che tale è perché vive del contatto vivo con la grazia, e cioè nella relazione con quel Qualcuno che la vuole, la fa essere, la libera, la introduce – per dirla con la Dei Verbum — alla comunione di vita con Sé nell’abisso della sua Vita che è Luce e Amore. Un Qualcuno (con la maiuscola) che s’esprime sempre attraverso un qualcuno (con la minuscola). Se perdiamo questo senso della libertà, perdiamo l’umano. E il creato. Psicoanalisi e neuroscienze sono benedette nel darci conto della nostra condizionatezza, ma — come insegna un maestro della filosofia come Luigi Pareyson — la condizionatezza propria dell’umano è un’antenna che permette d’interpretare nella libertà la Verità e di plasmare alla sua Luce l’esistenza. La condizione e condizionatezza storica e culturale non è mai lo schiacciamento o persino l’annichilimento della libertà. Un Dio che non consegnasse alla libertà la sua creatura produrrebbe degli automi. Egli stesso sarebbe un automa. Non il Dio vivente come lo percepiamo a tentoni ma con incoercibile sentire. E come Si è rivelato e a noi donato sino alla fine in Gesù.

Il tema dei condizionamenti ci porta inevitabilmente alle considerazioni etiche e morali. Tra queste ad esempio occorrerebbe accendere una luce sul tema dell’influenza del sociale sui comportamenti dell’individuo, in primis l’imprinting che la famiglia, come primo nucleo sociale, esercita sul nostro agire. Ma anche questo, in progressione coi cambiamenti antropologici di cui parlavamo prima, va cambiando. La famiglia (quando c’è) non è più quella che idealizziamo ancora nella nostra pastorale. Pensi per esempio alla mobilità delle famiglie di oggi. O agli enormi cambiamenti intervenuti nel rapporto uomo-donna.

Anche la sociologia induce a un ripensamento di alcuni assiomi che davamo per immutabili, e che interferiscono con la dottrina etica insegnata dalla Chiesa. Il tema della relazione uomo-donna è paradigmatico. Per dirla un po’ provocatoriamente, penso che oggi più che una “questione femminile” ci troviamo ad affrontare una “questione maschile”! Mi riferisco alla perdita d’identità dell’uomo maschio, che non riesce ad adeguarsi all’emancipazione irreversibile — e benedetta! — del femminile. Il maschio era abituato a idealizzare — e imprigionare — la donna: nei ruoli della madre, della sorella, della sposa o… dell’amante, e in tutti i casi, troppo spesso, della serva. E lui gestiva questi ruoli. Ma non si relazionava con la donna come amica. La straordinaria bellezza della categoria dell’amicizia, meravigliosamente evocata nel Cantico dei cantici, non rientrava nello schema dei rapporti tra i sessi. Oggi la donna finalmente si rifiuta d’essere ingabbiata dentro questo schema riduttivo e persino distorto, approntato dai soli maschi. E l’uomo non sa più che pesci prendere. Occorre ritrovare e implementare la dimensione originaria della reciprocità. Che è più e altro dalla complementarietà. È uno stato di crisi, quello attuale, che influisce sull’opacità e indeterminatezza dell’identità sessuale. Recuperare la freschezza e gioia della reciprocità da ambedue i sessi, dunque, per recuperare la pienezza della persona nel vivere affetti, libertà e solidarietà. La nostra arretratezza nel leggere questo fenomeno viene erroneamente attribuita alla fissità anacronistica di una idealizzazione della “sacra famiglia”. Che in verità rappresenta piuttosto un modello che, liberato dalle incrostazioni devozionali che gli abbiamo ritagliato addosso, riluce come lo scrigno delle relazioni umane fondate sull’affettività, la libertà e solidarietà. Non scordiamo che Gesù non solo assume la sua umanità da Maria ma la matura anche dalla relazione con Giuseppe. Queste considerazioni valgono non solo per la famiglia, ma anche per le comunità di vita religiosa: che non sono meno in crisi delle famiglie. La famiglia di Nazareth è modello per tutti, chi è sposato e chi vive la verginità, entrambi nella logica dell’avvento del Regno. L’evanescenza del ruolo paterno che registriamo è oggi spesso penetrata anche tra i chierici, che non sanno più essere padri, essendo figli e fratelli. Uno dei meriti di Papa Francesco è quello di suggerire uno sguardo nuovo sulla presenza della figura di Giuseppe padre e di Maria madre nella nostra vita di discepoli. Ma c’è molto cammino da fare.

Alla luce di un ripensamento sui connotati della grazia occorrerebbe trattare anche degli strumenti principali di sua espressione: i Sacramenti. In una recente intervista al nostro giornale Elmar Salmann ha detto che più ancora dei numeri dei fedeli lo preoccupa il declino della prassi sacramentale.

Il linguaggio sacramentale, così come lo proponiamo, risulta sempre più ostico e indecifrabile per le nuove generazioni: che pure — e forse come mai — sono assetate dell’acqua viva che ne scaturisce. Anche i teologi che dichiarano di voler innovare rimangono spesso prigionieri di un’autoreferenzialità sconcertante. Occorre una rivisitazione, nello spazio di quella ri-semantizzazione dell’esperienza viva dell’avvento del Regno che si realizza in Gesù e che, appunto, si verifica grazie alla mistagogia sacramentale. Dovremmo semplicemente ripartire sperimentando con stupore e gioia che l’evento della Pasqua del Cristo si fa attuale attraverso questi gesti santi di prossimità che ne mostrano e agiscono la grazia nella nostra vita. Come scriveva Dietrich Bonhoeffer, dal campo di concentramento, nei suoi pensieri per il giorno del battesimo riportati postumi in Resistenza e Resa: «L’antico spirito, dopo il tempo del suo misconoscimento e della sua effettiva debolezza e dopo un periodo di ritiro, di ripensamento interiore, di prova e di guarigione, saprà creare a se stesso forme nuove … non dobbiamo aver fretta, dobbiamo saper aspettare … nelle parole e nei gesti della tradizione intuiamo qualcosa di totalmente nuovo e di sconvolgente, senza tuttavia riuscire ad afferrarlo e a esprimerlo».

Riarrotolando il nastro di questa conversazione: siamo partiti dal peccato originale: da ripensare; poi la grazia: da ripensare; poi la libertà: da ripensare; poi i sacramenti: da ripensare. Fossimo nei suoi panni monsignor Coda, pensando al lavoro che c’è da fare — nell’assunto che non c’è riforma della Chiesa senza riforma della teologia —, ci tremerebbero i polsi…

In verità, il compito cui sono stato chiamato da Papa Francesco a servizio della CTI, e ora anche nella Commissione teologica del Sinodo, lo vivo con serenità e passione, e non mi sembra poi così gravoso o drammatico. Che anzi mi entusiasma. Perché — dal punto di vista personale — è in linea con la chiamata che mi è stata fatta ormai molto tempo fa: vivere e imparare insieme con gli altri a camminare nella sequela di Gesù, oggi, guardando con occhi di amore al mondo che siamo. La missionarietà della teologia invocata da Papa Francesco mi è di conferma in quanto ho cercato di vivere, nel piccolo, nell’esercizio del ministero teologico. Due gli elementi che mi hanno sempre ispirato, perché li vedevo troppo poco presenti e attivi: la relazione e il tempo, e cioè la fraternità e la storia. Amare Dio con l’intelligenza per amare con intelligenza l’uomo e il creato, che sono il suo amore. Amore che chiede oggi un surplus d’intelligenza e discernimento. Questa la sfida per la teologia.

Una ricerca senz’altro attraente e oggi, diciamo, avventurosa per il suo carico innovativo pur nel solco della tradizione. Però alla fine c’è il magistero….

La spinta innovativa di Papa Francesco è sotto gli occhi di tutti, anche se in modo non scontato. Perché chiede di vivere in uno stato di perenne conversione. Come del resto chiede il Vangelo. Ma c’è da ricordare che la Dei Verbum al n. 8 mette il magistero al terzo posto tra i fattori che dinamizzano quel cammino del Popolo di Dio che felicemente sperimentiamo oggi come cammino sinodale: il primo è lo studio della Parola di Dio, e cioè la sua intelligenza nella fede e nella pratica dell’agape; il secondo è l’esperienza della vita di fede attraverso il sensus fidei e i doni dello Spirito Santo; il terzo appunto è il magistero. Perché il magistero non fa altro che recepire, con il carisma di verità e di guida di cui è dotato per servire, i frutti portati dalla Parola vissuta nello Spirito dal Popolo di Dio. A proposito del percorso sinodale, voglio aggiungere una cosa: la teologia non si limita a studiare la sinodalità, la teologia si fa sinodalmente. Sono convinto che il Sinodo sulla sinodalità sarà fra 50 anni guardato come oggi guardiamo al Vaticano II. Un passaggio epocale nella storia della Chiesa. Nella Commissione Teologica Internazionale — fin dalla sua istituzione — si cerca di assumere questo stile di lavoro sinodale che crea condivisione e genera fecondità. Stiamo lavorando proprio sui temi del cambiamento antropologico di cui dicevamo; e poi, nella ricorrenza dei 1700 anni dal Concilio di Nicea, abbiamo avviato una riflessione sul significato permanente e profetico della confessione di fede nicena; stiamo infine studiando la teologia della creazione nella chiave di un’ecologia integrale alla luce della Laudato si’.

Monsignor Coda, lei ha dedicato gran parte dei suoi studi all’Ontologia Trinitaria. Perché?

L’Ontologia Trinitaria è vivere, pensare e gestire il senso della nostra esistenza e della realtà in cui viviamo alla luce di Dio che in Gesù si dice Amore e ci dona il soffio del suo Spirito «senza misura». La preghiera di Gesù al Padre non è forse stata: «Padre, che tutti siano uno come Io e Te: Io in Te e Tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo creda che tu mi hai mandato» (Gv 17,21)? Dunque, camminare sotto lo sguardo di Dio Trinità e vedere ogni cosa in questa luce. Immediatamente dopo il Concilio, Jean Daniélou – in quel gioiello che è il suo La Trinità e il mistero dell’esistenza — scriveva che il fondo dell’essere è la comunione. «Una rivelazione prodigiosa — esclamava —. Pare inverosimile che i cristiani, in possesso di questo segreto ultimo delle cose, capaci di penetrare con lo sguardo di Cristo nell’abisso del mistero nascosto in cui tutto è immerso, non siano maggiormente coscienti dell’importanza fondamentale del messaggio che devono trasmettere… La pienezza dell’esistenza personale coincide, nella Trinità, con la pienezza del dono dell’uno all’altro». Di qui una spinta, penso discriminante, a leggere con occhi nuovi ciò che è in gestazione nel parto di proporzioni panumane e cosmiche che investe il nostro tempo. Un’avventura appassionante e bella, concreta e tempestiva. Basti guardare — ripeto — al processo sinodale in cui oggi è impegnata la Chiesa cattolica, ma con l’abbraccio universale, gratuito e invitante, proposto dal Vaticano II, rilanciato da Papa Francesco e intrapreso con speranza dal Popolo di Dio. C’è bisogno di un nuovo pensare perché la Chiesa, Popolo di Dio e Corpo di Cristo in quanto segno e strumento di unione con Dio e di unità del genere umano (cfr. Lumen gentium, 1), diventi ciò che è per grazia. Come intuisce Papa Francesco: «La Chiesa è “un popolo che deriva la sua unità dall’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” (LG 4). Per questo, nella realtà che denominiamo “sinodalità” possiamo localizzare il punto in cui converge in modo misterioso ma reale la Trinità nella storia».

 

di ANDREA MONDA e ROBERTO CETERA