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La Tradizione come principio proprio della teologia cattolica

Gerhard Card. Müller

 

1. Introduzione

Eminenze, Eccellenze, Signori e Signore, innanzitutto vorrei ringraziare gli organizzatori per aver lanciato lʼiniziativa di questo congresso dedicato al motu proprio Summorum Pontificum[1], dandomi lʼoccasione di offrire, come introduzione alla seconda parte della giornata, alcune riflessioni sulla Tradizione come principio proprio della teologia cattolica. 

Come ben sapete, la corretta celebrazione della liturgia è sempre stato un tema molto caro a Benedetto XVI, e non soltanto durante il suo pontificato, ma per tutta la durata, ormai più che sessantennale, della sua produzione teologica. Nella sua opera “Lo spirito della liturgia”[2] egli ci ha offerto, oltre a una sintesi della comprensione della liturgia cristiana, una serie di riflessioni sulle singole questioni che sorgono intorno al tema della liturgia; e queste riflessioni ci danno anche degli spunti importantissimi per la Summorum Pontificum.

Benedetto XVI, sapendo bene quanto fosse importante dare alla liturgia un orientamento di base, esprimeva già nella fase iniziale dei preparativi per la collana, ricca di 16 volumi, della sua “Opera omnia”, il desiderio di iniziarla con il volume sulla liturgia. Desiderio che, in qualità di editore, ho colto volentieri, facendo sì che la pubblicazione delle opere di Joseph Ratzinger potesse – come lui stesso ha detto – seguire l’”ordine delle priorità” [3] – oppure, come affermò in un’altra occasione  – l’“architettura“ del Concilio Vaticano II[4], che ebbe, come è noto, come primo documento promulgato proprio la Costituzione sulla liturgia, Sacrosanctum Concilium.[5]

Nella sua introduzione al volume sulla liturgia, Benedetto XVI scrive: “La liturgia della Chiesa è stata per me fin dall’infanzia la realtà centrale della mia vita e, alla scuola teologica di maestri come Schmaus, Söhngen, Pascher e Guardini, è diventata anche il centro del mio impegno teologico. La materia che scelsi fu la teologia fondamentale, perché prima di tutto volevo andare al fondo della domanda: perché noi crediamo? Ma in questa domanda fin dall’inizio era compresa intrinsecamente l’altra domanda, quella della giusta risposta da dare a Dio e quindi la domanda circa il culto divino“[6]. Nelle sue memorie, Joseph Ratzinger descrive il suo personale cammino con la liturgia come “un processo di continua crescita in una grande realtà che superava tutte le individualità e le generazioni (…). L’inesauribile realtà della liturgia cattolica mi ha accompagnato attraverso tutte le fasi della mia vita”[7].

Con queste poche osservazioni siamo già entrati nelle tematiche appartenenti alla Summorum Pontificum, come, ad esempio, la questione circa la liturgia come realtà che riceviamo e che va oltre una singola generazione, un singolo ambito culturale, ponendosi così in una continuità che lascia intravedere la domanda, ancora più grande, su Dio. Con ciò nasce anche la domanda sulla Tradizione della fede e il suo significato per la Chiesa.

Negli ultimi tempi, ricordando i 50 anni dalla promulgazione dei vari documenti conciliari, abbiamo potuto ripercorrere la via del Concilio Vaticano II in modo molto intenso. Con il suo significativo discorso alla Curia Romana in occasione della presentazione degli auguri natalizi del 2005, Papa Benedetto XVI ci aveva già dato le indicazioni fondamentali per la giusta lettura e comprensione dei documenti conciliari. Non mi soffermerò su questo tema, ma mi limito a sottoporvi la seguente osservazione.

Ciò che il Santo Padre nel 2005 definì “ermeneutica della riforma nella continuità”, è senza dubbio un’espressione specifica della comprensione cattolica della Tradizione. Vorrei ricordare una parola pronunciata dal Cardinale Alois Grillmeier in occasione del 1500° anniversario del Concilio di Calcedonia, che oggi suona quasi scandalosa, ma che proprio per questo continua a essere significativa per lʼermeneutica dei dogmi: “Studiare la storia dei vecchi concili e dei loro dogmi è come afferrare una catena che non può essere spezzata. Quando dico Calcedonia, intendo anche Efeso del 431, Costantinopoli del 381 e Nicea  del 325. In realtà, per i Padri del IV e V secolo esisteva un Concilio soltanto, sul quale hanno costruito tutti i concili seguenti: Nicea”.[8]

Il Concilio Vaticano II confermò questa visione dell’“ermeneutica della riforma nella continuità” e la applicò per assegnarle un posto proprio nella Chiesa. La Lumen gentium, per esempio, dice di proseguire seguendo l’esempio del Concilio Vaticano I[9], e anche la Costituzione Dogmatica sulla Divina Rivelazione, Dei Verbum, afferma di seguire le orme (inhaerens vestigiis) dei Concili Tridentino e Vaticano I. Traducendo il termine inhaerens vestigiis con lʼespressione “andando avanti sulle orme di tali Concili”[10], il grande teologo protestante Karl Barth ha colto mirabilmente il punto decisivo di questa regola. Nella sua lettera in occasione della pubblicazione del motu proprio Summorum Pontificum, il Santo Padre Benedetto XVI affermò di voler “aggiornare” lʼinsegnamento e la prassi adottata dalla Chiesa dopo il Concilio Vaticano II circa la liturgia, per giungere così ad una “riconciliazione interna della Chiesa”.[11]“Seguire le orme” e “andare avanti” sono i due movimenti che devono completarsi se si vuole giungere ad una giusta ricezione del Concilio Vaticano II, e sono questi i due poli attorno a cui devono anche formarsi i principi cattolici della Tradizione. 

2. Osservazioni sulla crisi della Tradizione come caratteristica dell’epoca moderna

Prima di poter affrontare queste questioni in dettaglio, dobbiamo far luce non solo sul loro sfondo ecclesiastico, ma anche su quello legato alla storia del pensiero, in quanto proprio da ciò risultano l’urgenza e l’attualità del nostro interrogativo circa la Tradizione come principio della teologia cattolica.

Vent’anni fa, lo scrittore tedesco Botho Strauß pubblicò un articolo, che suscitò discussioni assai accese in Germania. In esso, Strauß analizzava il clima culturale degli anni 90, scrivendo tra l’altro: “Che peccato, che peccato davvero per la Tradizione corrotta! Infatti, essa si sta corrompendo davanti alle porte come un carico di cibo prezioso, di cui il popolo deve fare a meno per colpa di qualche guaio con la dogana. La Tradizione si sta spegnendo davanti alle sbarre di una ibrida sopravvalutazione della contemporaneità”.[12]  Ricorrendo all’immagine eloquente dei cibi che vanno a male, il poeta esprime il suo rammarico per la perdita della Tradizione, la sua paura che ciò che le generazioni precedenti a noi hanno accumulato, purificato e reso utilizzabile, possa rimanere lì, inutilizzato e andare a male davanti ai nostri occhi. 

Oggi possiamo dire: negli ultimi ventʼanni, in cui, grazie alle tantissime possibilità tecniche fornite dai network sociali, alla comunicazione sincronica non sono più posti limiti, questo pericolo non è certo diminuito. La “contemporaneità” – come dice Botho Strauß –  ha acquistato un significato talmente grande che si rischia di sopravvalutarla, se non viene completata e valutata da una comunicazione diacronica, da uno scambio con il “carico” della storia. Per di più, al momento in Europa si assiste a un rifiuto offensivo della Tradizione propriamente cristiana. La cancellazione consapevole della propria tradizione vorrebbe staccare l’Europa dalle sue radici ebraiche e cristiane. La portata di questi processi – si pensi soltanto ai tentativi preoccupanti intrapresi in alcuni paesi di cancellare tutti gli elementi legati allʼeredità ebraico-cristiana dallʼagenda della pubblica istruzione – è stata riconosciuta soltanto da pochi. 

Quali sono le ragioni di una tale sopravvalutazione della contemporaneità e della corruzione della Tradizione?

Alla radice di questi sviluppi non troviamo soltanto finalità geopolitiche, ma anche argomentazioni del pensiero filosofico europeo. L’affermazione avanzata da Theodor W. Adorno, che la Tradizione sarebbe in contraddizione con la razionalità[13], è diventata il credo che la critica moderna oppone a tutto ciò che viene tramandato.  In questo modo, Adorno nutrì lo scetticismo che la Tradizione ha incontrato sin dai tempi dell’Illuminismo, facendola apparire come qualcosa di “assolutamente inaccettabile per l’uomo dotato di spirito critico, e cioè anche di intelletto”[14]; qualcosa che “entra in contrasto con i valori moderni dell’autonomia, dell’emancipazione, della libertà individuale, dell’uguaglianza, della cogestione democratica e dell’oggettività scientifica di una ragione indipendente”[15].

Nella discussione teologica abbiamo troppo spesso visto come questo modo di vedere, per lo più quando non è stato sufficientemente meditato, veniva adottato anche nella Chiesa. In questo modo, la fonte della Rivelazione, raccolta nella Scrittura e nella Tradizione, diviene praticamente sigillata, facendo sì che, normativamente, non è più lʼavvicinarsi alla Tradizione con la fede che, sotto la guida dei successori degli Apostoli, introduce il popolo di Dio alla fede autentica indicandogli il modo di vivere oggi come popolo eletto da Dio. E allora ciò che diventa normativo sono le realtà fattive e le loro interpretazioni individuali. Oggi si può spesso osservare come la parola “tradizione”, accompagnata dai termini “tradizionalismo” e “tradizionalisti”, viene praticamente screditata. In questo modo si omette che la Tradizione non è affatto contrapposta alla ragione, ma soltanto al razionalismo e allʼempirismo moderni, che sopravvalutano prima se stessi e poi il presente, ponendosi in un rapporto sbagliato con esso.

3. La storicità della Rivelazione come terreno del principio cattolico della Tradizione

Per poter comprendere la Tradizione nel suo specifico senso biblico, bisogna guardare alla Rivelazione biblica stessa. In primo luogo, la Tradizione nella Chiesa non è un termine antropologico-culturale. Piuttosto vale che, secondo il pensiero ebraico-cristiano, il fatto che la Tradizione esiste abbia a che fare con l’impronta rigorosamente storica della Rivelazione. Ciò che la Lettera agli ebrei puntualizza fin da subito, esprime il proprium della comprensione ebraico-cristiana della Rivelazione e può essere considerato come legge fondamentale del pensiero biblico: “Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio…“ (Eb 1,1.2a). L’enfasi si trova sul parlare di Dio, ma non nel senso di singole comunicazioni di un sapere soprannaturale, bensì nel senso di un parlare nella storia, che si distingue dal tacere: “È sufficiente che Dio parli e non taccia”.[16] Il fatto che Dio sia stato cercato e riconosciuto dagli uomini di un determinato tempo e in determinati luoghi, che Dio “parlò”  – per dirlo nel senso della teologia della Rivelazione – , sta all’inizio della fede biblica, in quanto esso è un processo storico, la base di ogni Tradizione.

Alla soglia del “Giubileo della misericordia” ci sia concesso ricordare che per i Padri la Rivelazione divina è lʼatto fondamentale della Sua misericordia. Misericordia e giustizia non sono contrapposti, soltanto perché non dicono la stessa cosa. Il dono della Torah sul monte Sinai, il dono delle tavole con la Legge, accompagnato dalla raccomandazione di “fare ciò che è giusto”, nonché la Rivelazione nella storia dʼIsraele fino a Gesù e agli Apostoli, sono i dati fondamentali della misericordia di Dio.

Per questo, lʼAntico Testamento in ebraico non parla di Rivelazione, ma innanzitutto di “dono della Torah”, in modo che, nel linguaggio liturgico, Dio è Colui che rivela proprio perché Egli è il donatore della Torah.[17] Secondo quanto testimoniato dalla Scrittura, la misericordia divina in senso proprio non è questo o quel singolare atto di misericordia, non è primariamente il perdono per la defezione del Suo popolo che diffidava della Sua guida, ma piuttosto il fatto che Dio non ha permesso che la ricerca dellʼuomo fosse vana, che Egli ha risposto, che Egli ha parlato.

Una bizzarra, ma significativa interpretazione rabbinica afferma che sul monte Sinai si sia sentito nientʼaltro che lʼaleph della prima parola pronunciata da Dio: anochí – “io”, e cioè soltanto lʼocclusione laringale della prima lettera dellʼalfabeto ebraico.[18] Qui emerge chiaramente in quale modo radicale il monoteismo basato sulla testimonianza biblica venga applicato: la misericordia divina si realizza nellʼannuncio che Dio fa di sé allʼuomo che lo cerca e lo vuole ascoltare. Ed è per questo che, da parte della Chiesa, lʼatto fondamentale di misericordia è far conoscere agli uomini questa Rivelazione e il modo di vivere che ne deriva.

Nella sua enciclica Lumen fidei Papa Francesco cita una parola di santʼIreneo di Lione, il quale descrive questo rapporto tra ingegno umano e risposta divina in modo molto eloquente, quando dice “che Abramo, prima di ascoltare la voce di Dio, già lo cercava ‘nell’ardente desiderio del suo cuoreʼ, e ‘percorreva tutto il mondo, domandandosi dove fosse Dioʼ, finché ‘Dio ebbe pietà di colui che, solo, lo cercava nel silenzioʼ”[19].

La Rivelazione come storia è un processo profondamente legato allʼatto di comprendere e alla ragione. Il rinvio alla storia, di cui fa parte anche lo sguardo sul mondo come Creazione, è la caratteristica di questo pensiero sulla Rivelazione.[20] Senza una comprensione della Rivelazione strettamente storica, la Tradizione nel senso specificamente biblico è impensabile.

È significativo come l’ebraismo e ancora di più il cristianesimo, in ambiti di impronta religiosa, abbiano sempre rischiato di perdere proprio questa dimensione e cioè di barattarla con una dimensione in apparenza più profonda e più preziosa. Di tanto in tanto, questa tentazione si è affacciata nelle diverse varianti della gnosi che affermò di conoscere le presunte “dottrine segrete” degli Apostoli.[21]

Nel nostro tempo, lʼinteriorizzazione soggettivistica della comprensione della fede e la spiritualizzazione del cristianesimo considerano la Tradizione come qualcosa di ampiamente inutile, anzi, un ostacolo sulla via verso una vita riuscita e lʼappagante incontro con Dio – ammesso che lʼimmagine di Dio che ci è stato tramandata venga ancora accettata. Questa moderna variante della gnosi vuole farci credere che il rifiuto della Tradizione (come processo) e l’ignorare ciò che viene tramandato (come contenuto) non solo sarebbero di più in sintonia con lʼautonomia e la ragione degli uomini, ma sarebbero anche più inerenti alla comprensione della Rivelazione, in quanto rinunciano alla mediazione. Come in seguito spiegherò in modo più dettagliato, è ovvio che questo modo di pensare non si colloca più nellʼambito della comprensione biblica della Rivelazione e della Tradizione.

4. Dimensione della Tradizione: radice nellʼAntico Testamento – sequela – umiltà

San Paolo evidenzia il principio della Tradizione proprio in relazione ai due contenuti della fede della comunità cristiana, alla risurrezione di Gesù dai morti, nonché alla celebrazione di ciò che Gesù fece nella sua ultima sera. In modo quasi concordante scrive alla comunità di Corinto circa la tradizione pasquale e la tradizione dellʼUltima Cena: “Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso …” (1 Cor 11,23; cfr. 1 Cor 15,3).

A tale riguardo, nel secondo volume della sua trilogia su Gesù di Nazareth, Joseph Ratzinger/Papa Benedetto XVI, scrive: “Paolo si pone qui consapevolmente dentro la catena di ricezione e trasmissione. Qui, trattandosi di cosa essenziale, dalla quale tutto dipende, è richiesta soprattutto fedeltà. E Paolo, che sempre sottolinea fortemente la sua testimonianza personale del Risorto e il suo apostolato ricevuto direttamente dal Signore, insiste qui con grande rilievo sulla fedeltà letterale nella trasmissione di ciò che ha ricevuto, insiste sulla comune tradizione della Chiesa sin dagli inizi. (…) Da questo legame con la tradizione risalente agli inizi derivano sia l’obbligatorietà universale che l’uniformità della fede”[22].

È soprattutto nel racconto dell’Ultima Cena, tratto dalla prima lettera ai Corinzi, che la forma della Tradizione e il suo contenuto vengono ad incrociarsi. Ciò che viene tramandato è ciò che era successo nella notte del tradimento: “Il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese il pane, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: "Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me"!” (1 Cor 11,23b.24). La fedeltà alla Tradizione è fedeltà a un evento nella storia che si distingue radicalmente dalle “leggende di culto eziologiche dei misteri che sono atemporali e cioè che rimandano ad un tempo mitico primordiale”[23].

Nelle sue affermazioni sulla ricezione e la trasmissione della Tradizione, san Paolo si colloca interamente all’interno della terminologia rabbinica. Con i verbi paralambáno e paradídomi, usati da san Paolo, la parádosis neotestamentaria segue i termini tecnici della comunità ebraica di lingua greca, laddove parla del processo fondamentale della  ricezione (qibbel) e trasmissione (masar) di una tradizione. I proverbi dei Padri, una parte della mishna del Rabbino, descrivono la via della Rivelazione con questi termini: “Mosè ricevette la Torah dal Sinai e la trasmise a Giosuè, Giosuè agli anziani, gli anziani ai profeti, i profeti la trasmisero agli uomini della Grande Assemblea”.[24]

In questa rappresentazione della Tradizione come “fiume dell’insegnamento che non finisce mai”[25], è racchiusa anche un’altra dimensione: la trasmissione dell’insegnamento, la Tradizione, è un processo che si svolge da persona a persona. Allo stesso modo in cui l’insegnamento di Mosè “confluì” a Giosuè e agli anziani, il Vangelo, così afferma Dei Verbum (art. 7),  viene “conservato sempre vivo e integro”, perché gli apostoli hanno lasciato ai loro successori il loro magisterium. Il principio della Tradizione e il principio della successione vanno di pari passo. La fede non è informazione astratta, ma viene guidata da persone. Commentando questo passo della Costituzione sulla Divina Rivelazione, Joseph Ratzinger coniò la concisa formula: “La sequela è la forma della Tradizione, la Tradizione è il contenuto della sequela”.[26]

Questa frase non è soltanto una bella formula; in essa si descrive ciò che è un principio  fondamentale della teologia cristiana e una sfida per ogni teologo – proprio in un’atmosfera spirituale che rifiuta la Tradizione non solo formalmente, ma anche materialmente. Il teologo può indicare la freschezza, la vitalità e lʼessere presente della Tradizione soltanto entrando lui stesso nella “forma” della Tradizione. La definizione della “sequela come forma della Tradizione, Tradizione come contenuto della sequela”, ci ricorda che, laddove il teologo non riesce ad indicare quella forma di vita della Tradizione che significa “sequela di Gesù”, non la conosce e non la realizza con la sua propria vita, il solo ricorso alla Tradizione degenera, trasformandosi in tradizionalismo morto, nostalgia estetica, oppure in un rigido fissarsi su ciò che è abituale.[27] I grandi rivelatori biblici, da Abramo a Mosè e fino a Gesù, hanno sempre insistito sullʼurgenza dellʼesodo personale e comunitario, sullʼabbandonare e farsi raccogliere, sul partire verso il divenire di un popolo, di cui ancora non si sa quale volto avesse. Nella Tradizione dellʼEsodo, Mosè si recò ben 4 volte dal faraone, riferendogli che la venerazione del Dio dʼIsraele comportava lʼesodo da un ambiente sicuro e fino a quel momento familiare.[28] Nella predicazione di Gesù, questa consapevolezza della chiamata alla conversione si riaffaccia nella chiamata alla conversione (cfr. Mc s.). Ed è proprio qui che subentra la particolare responsabilità di coloro che si sentono vincolati alla Tradizione. La plausibilità dellʼargomento cristiano in favore della Tradizione dipende soprattutto dallʼautenticità della forma di vita di coloro che tramandano, che non si limitano a difendere un principio dallʼesterno, ma sottomettono se stessi e il loro stile di vita allʼesigenza della dedizione, dellʼabbandono, della negazione di sé e della conversione interiore ed esteriore. A questo proposito, lʼafricano Tertulliano ci mette in guardia, usando una parola ancora oggi provocatoria: “Cristo ha voluto chiamarsi “verità”, non “abitudine”[29] . Niente sarebbe più sbagliato che scambiare la Tradizione con un insistere su ciò che ci è familiare e caro.

E qui subentra un secondo pensiero: adottare la tradizione richiede il coraggio dell’umiltà. Allʼinterno della Rivelazione biblica esiste un primato della ricezione.[30] Ed è per questo che anche lʼingresso nel processo della Tradizione è dapprima un ricevere. Il termine Tradizione implica che ci siano due partner, due parti: colui che tramanda e colui che riceve.[31] Non si tratta però di un semplice scambio tra due partner alla pari, di una semplice conversazione, un dialogo con un impatto reciproco[32], ma dellʼatto del tramandare. Come annotato da Josef  Pieper, nellʼatto del tramandare, in un certo senso, colui che tramanda e colui che riceve il tradendum, non sono contemporanei. Pieper afferma: “Non sono coetanei”[33]. “Colui che riceve un traditum ascoltando, lo riceve come membro o rappresentante della generazione a venire; anche se dovesse essere più anziano di colui che tramanda, egli è comunque il ʻdiscepoloʼ, lʼerede, colui al quale il tradendum viene affidato in vista del futuro.”[34] Non si tratta perciò di ciò che oggi viene generalmente chiamato “conversazione da pari a pari”.  Non ha niente a che fare con la questione della dignità delle persone che non può essere pensata in altro modo che con la tradizione materiale stessa.

È vero che ciò non costituisce una definizione esauriente del rapporto tra magistero e popolo di Dio, ma è piuttosto così che la trasmissione e la definizione autorevoli, lʼumile ascolto e la ricezione fanno parte del principio fondamentale della trasmissione della Rivelazione nella storia.

A questo punto vorrei gettare uno sguardo sull’impatto che questa comprensione della Tradizione ha sulla liturgia. Abbiamo visto come san Paolo sviluppa la sua comprensione della Tradizione attorno a due elementi della confessione cristiana: la fede nella risurrezione di Gesù e lʼistituzione dellʼEucaristia. Il luogo vero e proprio della Tradizione è la liturgia, non la cattedra o la catechesi. La confessione allʼinterno della celebrazione della comunità dʼIsraele è il luogo primordiale della memoria e della Tradizione. E questo vale anche per la liturgia cristiana. Laddove si abbandona il legame intrinseco con la Tradizione del Popolo di Dio nel nome di un aggiornamento appiattito, la liturgia diventa qualcosa di moralizzante e banale, nientʼaltro che una manifestazione insignificante per lʼuomo, che non gli segnala nulla che egli stesso non abbia portato. 

La liturgia, però, vuole proprio il contrario. Essa, attraverso i riti, i canti, la Scrittura e la sua interpretazione per lʼoggi dei credenti, i segni sacramentali, i colori, la musica, nonché il carattere festivo, vuole attirare lʼuomo, rendendolo partecipe della gioia e della sofferenza incontrata sulla via che Dio percorre con il suo popolo[35]. Essa vuole – come afferma la Summorum Pontificum – rafforzare tanti popoli nella virtù di religione, “fecondando la loro pietà”. La giusta celebrazione della liturgia nella forma di una “festa”, per quanto piccola e misera possa essere, non ci conduce fuori dal mondo, ma ci colloca nella realtà della presenza di Dio, che è la realtà vera che ci indica da dove noi, come popolo di Dio, veniamo, e quale sia la vocazione dei nostri fratelli. Facendo così, essa edifica la Chiesa e si mostra come il vero locus theologicus. Al riguardo, Y. Congar ha evidenziato lʼuso classico cristiano del termine latino imbuere, che significa “impregnare”, “umettare”, “immergere” “abituarsi a” etc.: la funzione religiosa non vuole ammaestrare lʼuomo, ma piuttosto “impregnarlo”, “immergerlo” nella storia di Dio con il suo popolo, attirandolo. In questo processo, Congar vide “un’azione particolarmente efficace della ʻTradizioneʼ”[36]. Questo, però, presuppone che la liturgia si collochi allʼinterno della Tradizione della Chiesa, e che si celebri, nellʼunità di vita e culto, come quella logikē latreia corrispondente alla Rivelazione biblica.

5. La Tradizione e il presente della Chiesa 

La parola chiave dellʼ“azione particolarmente efficace della Tradizione” ci conduce allʼultimo punto di questa riflessione, che rimanda al nostro presente. Sembra utile, anche dal punto di vista della storia della Chiesa, evidenziare perché e come la Tradizione sia un “principio cattolico” vero e proprio.

Tutti conosciamo i significativi contributi ottocenteschi elaborati da John Henry Newman, dalla scuola cattolica di Tubinga e dalla scuola romana, circa il superamento di una concezione della Tradizione riferita esclusivamente alle autorità. Infatti, proprio su questo punto si è riuscito, sebbene tardi, a trovare una risposta alla critica che lʼIlluminismo rivolse alla Tradizione.[37]

Vorrei però ricordare un evento ancora più lontano nella storia, e ciò la disputa con i donatisti e la controversia sul battesimo amministrato dagli eretici, che si accese nel IV e V secolo in una delle regioni più fiorenti del cristianesimo, nel nord dellʼAfrica. Il pericolo non era lʼimporsi di una dottrina errata – in questo caso la negazione del battesimo impartito dagli eretici –, ma soprattutto la divisione della Chiesa in due Chiese fondamentalmente diverse, e cioè, da una parte, la Chiesa dei puri, rappresentata dai donatisti, e, dallʼaltra, la catholica. SantʼAgostino era il combattente più perspicace in questa causa, nel corso della quale, in determinati periodi, soltanto una minoranza dei vescovi si battè per la catholica. SantʼAgostino, avendo colto fin da subito la dimensione fondamentale della controversia, a parte pochissime eccezioni, non parlò di una Chiesa donatista, ma soltanto della pars Donati.[38] Egli vide giustamente la contrapposizione tra Chiesa e particolarismo.

Nella sua omelia incentrata sul salmo 21, santʼAgostino sottolinea lʼuniversalità del mandato dei cristiani. Il donatismo, così afferma santʼAgostino, deve essere respinto, in quanto “a Colui che possiede lʼintero globo terrestre, viene offerta solo una parte” [39], perché a Colui, che è il Giudice universale, non viene mostrato il mondo intero, ma soltanto una piccola parte di esso. E ciò comportava il rischio che la delimitazione regionale del particolarismo africano-numidico sboccasse definitivamente in una teologia particolare. Non si trattava di chiarire la questione della verità secondo criteri di spazio. Ma la “ritirata” ad una regione geografica circoscritta e a un determinato numero di diocesi fece emergere chiaramente quale fosse il pericolo che incombeva sul popolo di Dio e portava alla luce una tendenza che avrebbe attraversato tutta la storia della Chiesa, e che ancora oggi non è scongiurata.

Nella correzione del donatismo si affacciò un altro problema, che, nel nostro contesto, riveste ancora più importanza. Appellandosi a Cipriano di Cartagine, la grande autorità africana tra i Padri della Chiesa, i donatisti mettevano in campo una loro arma davvero potente, in quanto proprio Cipriano aveva contestato la validità del battesimo impartito dagli eretici. SantʼAgostino, diversamente dai suoi predecessori, che avevano spesso ignorato questo appello alle autorità, nel suo De baptesimo affrontò in modo perentorio questa argomentazione avanzata da parte dei donatisti. Egli sottolinea la nota umiltà del vescovo di Cartagine che, in un primo momento, aveva semplicemente seguito lʼopinione di un suo diretto predecessore e che  – se allʼepoca la Chiesa intera avesse già emanato una decisione conciliare circa questa questione – si sarebbe senza dubbio fatto convincere dal concilio della Chiesa intera, abbracciando il suo insegnamento. SantʼAgostino, guardando allʼopera e alla vita di Cipriano, rileva come la posizione di Cipriano fosse interamente orientata alla Chiesa e lancia il seguente appello ai cristiani donatisti e ai loro vescovi: “Smettetela di tormentarci con lʼautorità di Cipriano per giustificare il battesimo, ma seguite piuttosto, assieme a noi, lʼesempio di Cipriano, in modo che possiamo preservare lʼunità!”[40]

È qui che la già menzionata formula “sequela come forma della Tradizione, Tradizione come contenuto della sequela” rivela la sua implicazione ecclesiologica: la trasmissione della fede non avviene come semplice flusso di informazione, ma nella forma della sequela, voluta da Gesù come sequela comunitaria, come ekklesía. Preservare l’unità con la Chiesa intera nel mondo contemporaneo, diviene un criterio che si pone accanto al criterio della conformità alla Scrittura, stando in un rapporto dialettico con essa. Perché in ultima analisi, chi ha prodotto questa Scrittura è soltanto il popolo di Dio, che, in quanto soggetto, può anche portare la sua interpretazione autentica e trovare, attingendo a detta Scrittura, delle risposte alle domande di oggi. Perciò, non si può né contrapporre la Scrittura alla Chiesa, che sottostà alla Parola di Dio (cfr. Dei Verbum Art. 10), né contrapporre la Chiesa antica alla Chiesa di oggi.

Camminare e credere assieme a questa Chiesa è tuttʼoggi la pietra di paragone della  Tradizione autentica.[41] Qui non si tratta di un’accettazione a-critica di ciò che esiste, perché la Chiesa è soprattutto colei che sta in „religioso ascolto“ della parola di Dio, come afferma la Dei Verbum (art. 1), e cioè colei che deve farsi misurare sulla parola di Dio, e che ha imparato a distinguere tra il grande flusso della Tradizione e le singole tradizioni. E con questo l’unità con “la Chiesa” non viene semplicemente messa al di sopra della questione della verità, ma la Chiesa stessa è collocata all’interno della storia, dovendo, sempre di nuovo, trovare l’armonia con la sua origine.

Il rifiuto del riconoscimento della Chiesa contemporanea, del suo insegnamento e della conoscenza da lei acquisita, però, comporta, anche se il motivo è sublime e mira alla preservazione della Tradizione, non solo la separazione formale, ma anche lʼeresia. E il dramma dei piccoli gruppi del nostro tempo nasce proprio quando si riferiscono esclusivamente ai concili più antichi, ignorando quelli posteriori, o quando loro, la presunta avanguardia, vanno oltre i concili, imboccando vie particolari della dottrina e della prassi della fede.   

Il principio della Tradizione invece esprime lʼalternativa: in una dinamica sempre nuova esso cerca il nesso con lʼorigine, così come viene testimoniato in tutta la Scrittura e contemporaneamente cerca anche oggi lʼunità di quel popolo divenuto portatore dellʼunica Rivelazione divina. Fedele alla massima lex orandi – lex credendi – lex vivendi, la Summorum Pontificum vuole dare il suo contributo per mantenere la Chiesa in questa Tradizione vivente, conducendola alla sua forma perfetta.  

 
[1] Benedetto XVI, Lettera Apostolica motu proprio Summorum Pontificum, in: AAS 99 (2007) 777-781.
[2] J. Ratzinger, Lo spirito della liturgia, in: Opera omnia, vol. 11, 23-217.
[3] Benedetto XVI, Prefazione al volume iniziale dei miei scritti, in: Opera omnia, vol. 11, 6.
[4] Cfr. J. Ratzinger, Die Ekklesiologie  der Konstitution Lumen gentium, in: JRGS  Bd. 8/1, 573-596; 574.
[5] Anche le traduzioni nelle altre lingue seguono questo ordine di precedenza: il volume sulla liturgia figura come primo volume sia nella versione italiana (2010) che polacca (2012) dell’“Opera omnia”.
[6] ibid.
[7] J. Ratzinger, La mia vita, San Paolo, Binisello Balsamo 1997, 18.
[8] A. Grillmeier, Das Konzil von Chalcedon und der Geist des Christentums. Zur 1500-Jahrfeier (451-1951) einer Glaubensentscheidung, in: GuL 24 (1951), 404-414; 406.
[9]Haec Sacrosancta Synodus, Concilii Vaticani primi vestigia premens…” ( Lumen gentium art. 18)
[10] K. Barth, Ad limina apostolorum, Zurigo 1967, 49.
[12] B. Strauß, Anschwellender Bocksgesang, in: Der Spiegel no. 6, 1993, 2007.
[13] Vgl. J. Pieper, Überlieferung. Begriff und Anspruch, Monaco 1970, 43.
[14] Loc.cit. 45.
[15] G. L. Müller, Dogmatica cattolica. Per lo studio e la prassi della teologia, San Paolo, Cinisello Balsamo 1999, 96.
[16] E. Grässer, An die Hebräer (Hebr 1-6) (EKK XVII/1), Zurigo 1990, 26.
[17] Cfr. H. Cohen, Die Religion der Vernunft aus den Quellen des Judentums, Lipsia 1919, 97.
[18] Cfr. A. Sh. Bruckstein, Die Maske des Moses: Studien zur jüdischen Hermeneutik, Berlino 2001, 74s.
[19] Papa Francesco, Enzyklika Lumen fidei no. 35; citazione tratta da santʼIreneo di Lione, Demonstratio apostolicae praedicationis 24; SC 406, 117.
[20] Cfr. W. Pannenberg (Hrsg.), Offenbarung als Geschichte, Göttingen 1961; 51982.
[21] Cfr. G. L. Müller, Dogmatica cattolica, cit., 99.
[22] J. Ratzinger/Benedetto XVI,  Gesù di Nazaret. Seconda parte: Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, LEV, Città del Vaticano 2011, 278.
[23] W. Schrage, Der erste Brief an die Korinther (1 Kor 11,17-14,40) (EKK VII/3), Zurigo 1999, 31.
[24] Pirqe Avot 1,1: Die Sprüche der Väter, traduzione e commento di S. Bamberger, Basilea 2003.
[25] Cfr. A. Buckenmaier, Der gerettete Anfang. Schrift und Tradition in Israel und der Kirche, Bad Tölz 2002, 33 s.
[26] J. Ratzinger, Einleitung und Kommentar zu Dei Verbum, in: JRGS 7/2, 715-791; 753; cfr. anche J. Ratzinger, Primat, Episkopat und Successio Apostolica, in: K. Rahner / J. Ratzinger, Episkopat und Primat, (QD 11), Friburgo 1961, 37-59; 49.
[27] Cfr. Congregazone per la Dottrina della Fede, Istruzione sulla vocazione ecclesiale del teologo (24 maggio 1990) (VAS 98), Bonn 1990, in particolare no. 11.
[28] Cfr. J. Ratzinger,  Lo spirito della liturgia, cit., 34.
[29] Tertullian, De virginibus velandis, I,1.
[30] Cfr. J. Ratzinger, Einführung in das Christentum, in: JRGS Bd. 4, 244-246.
[31] Cfr. J. Pieper, Überlieferung 21.
[32] Cfr. loc.cit. 22.
[33] Loc.cit. 24.
[34] Loc.cit. 25.
[35] Cfr. Y. Congar, Die Wesenseigenschaften der Kirche, in: MySal 4/1, 357-599; 381; cfr. ders., La Tradition et les traditions, vol. II, Parigi1963, 111-136; 183 s.; circa imbuere cfr. 24 e 267, nota 47.
[36] MySal 4/1, 357-599; 381.
[37] Il nome collettivo “Römische Schule” [scuola romana], coniato da H. Schauf, ma affermatosi in seguito solo grazie alla dissertazione di Walter Kasper, rimanda al dibattito generale nato nellʼOttocento intorno al termine “Tradizione”. Lʼaccento posto da J. H. Newman e la scuola di Tubinga, rappresentata da noti personaggi come J. S. Drey e J. A. Möhler, ha indubbiamente evidenziato la vivacità della Tradizione, in un tentativo di cogliere la sfida lanciata dallʼIlluminismo e dare anche una risposta alla spiegazione storica che esso dà della Tradizione stessa. La scuola romana invece, rappresentata da G. Perrone, C. Schrader e C. Passaglia, va intesa come un movimento contrapposto al pensiero che si sta allontanando dallʼorigine storica. Anche la teologia romana, però, come dimostra lo studio di Kasper, era aperta a proposte, in modo che non si avessero semplicemente due concetti della Tradizione. Cfr. W. Kasper, Die Lehre von der Tradition in der Römischen Schule  (WKGS vol. 8), Friburgo – Basilea – Vienna 2011.
[38] Cfr. É. Lamirande, Désignations des Donatistes, in: BAug 32 (1965) 726 s.
[39] Cit. di: H. Weber, Augustinus und die Einheit der Kirche, dargestellt nach seiner Homilie über Psalm 21, in: ThGl 50 (1960), 93-101; 94; Augustinus, enarr. in Ps. XXI, II,1 (CCL XXXVIII, 122).
[40] SantʼAgostino, Bapt. II,7,12.
[41] Cfr.: A. Buckenmaier, Wahrheit, Einheit und Gegenwart der Kirche. Augustinus‘ Argumentation gegen die Schismatiker als Anregung für eine Konzilshermeneutik, in: IKaZ Communio 42 (2013), 510-520.

 

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