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VISITA DEL SEGRETARIO DI STATO A BERGAMO E A SOTTO IL MONTE
NEL 50° ANNIVERSARIO DELL'ELEZIONE DEL BEATO GIOVANNI XXIII

DISCORSO DEL CARDINALE TARCISIO BERTONE

Bergamo
Sabato, 5 aprile 2008

Eccellenze,
distinte Autorità,
cari amici,

1. Omaggio a un degno figlio della vostra terra

Ho accolto molto volentieri l’invito ad incontrare la comunità ecclesiale e civile di Bergamo nel ricordo del suo figlio più illustre, il Beato Giovanni XXIII, la cui memoria è rimasta viva nel cuore di tutti noi che lo abbiamo conosciuto, ammirato ed amato. Ho l’onore di recarvi fin da questa sera il saluto e la benedizione di Papa Benedetto XVI, il quale auspica che la commemorazione del cinquantesimo della elezione alla cattedra di Pietro di questo indimenticabile suo Predecessore costituisca per tutti una speciale opportunità di rinnovamento “ecclesiale e civile”. Al saluto del Santo Padre unisco subito il mio augurio perché l’intera comunità che vive in questa Città, nella diocesi e nella provincia di Bergamo, confermi quella solidale e proficua convivenza di tutte le sue componenti, che le è meritatamente riconosciuta, attingendo motivazioni sempre nuove dalla fecondità delle sue radici cristiane. E si tratta di radici molto profonde che hanno visto germogliare un così degno figlio della vostra terra come il beato Giovanni XXIII, il quale in breve tempo dalla sua elezione a Papa venne ritenuto padre, pastore, amico e fratello non solo nel mondo cattolico ma, potremmo dire, dall’intera umanità. Ora è lui stesso ad alimentare quelle radici con la linfa della sua intercessione presso il Signore, perché nella sua terra natale cresca la fedeltà al patrimonio spirituale che lo ha generato; si estenda quell’“apertura universale”, di cui egli fu maestro, conservando l’identità e l’appartenenza a Cristo e alla Chiesa; si imiti sempre più la capacità che egli aveva di leggere i segni dei tempi e si riscopra la semplicità di chi si consegna a Colui, al Quale “nulla è impossibile” (cfr Lc 1,37).

2. Il mio saluto ai bergamaschi

Prima di passare al tema: “Giovanni XXIII e il Vaticano II”, che ci condurrà al “cuore” del contributo offerto da Papa Roncalli alla Chiesa e alla storia, permettetemi una parola di sentito ringraziamento al vostro Vescovo Monsignor Roberto Amadei per l’invito che mi ha rivolto a presiedere questa commemorazione, invito che ho molto gradito, e per la cordiale accoglienza. Porgo al tempo stesso i miei saluti alle Autorità e a tutti voi qui presenti. Ringrazio il Signore che mi dà la possibilità di condividere qui, a Bergamo e a Sotto il Monte, la gioia di commemorare Papa Giovanni, vero dono della Provvidenza all’umanità del secolo XX. La Chiesa e la società continuano a beneficiare della sua azione profetica, e in maniera singolare, del Concilio Ecumenico Vaticano II, scaturito dalla sentita fedeltà alla grande Tradizione ecclesiale, che ha contrassegnato la figura e l’opera stessa di Papa Roncalli. Il mio rendimento di grazie trova espressione particolare in questa visita alla diocesi di Bergamo. Ma vi confido di averlo anticipato fin dalla Santa Messa che ho celebrato con i “bergamaschi di Roma” agli inizi del mio servizio di Segretario di Stato di Sua Santità, l’11 ottobre 2006, all’altare della Basilica di San Pietro che custodisce le venerate spoglie del vostro illustre Conterraneo. E attendo con gioia di confermarlo, sempre in San Pietro, martedì 28 ottobre 2008, quando celebrerò la Santa Eucaristia con il vostro Vescovo per i componenti del pellegrinaggio diocesano. Così, alla stessa ora e nello stesso giorno dell’annuncio dato 50 anni or sono alla Città di Roma e al mondo per l’elezione di Giovanni XXIII scioglieremo insieme l’inno di lode al Signore. Mi avvio ora a toccare il tema di quest’incontro: Giovanni XXIII e il Concilio Vaticano II.

3. L’annuncio del Concilio: 25 gennaio 1959

È comunemente ammesso che il 28 ottobre 1958, con l’elezione di un Papa anziano come Roncalli, il Collegio cardinalizio avesse optato per un pontificato di transizione. I primi tempi parvero confermare queste aspettative, quando, nemmeno tre mesi dopo, nella Basilica di S. Paolo giunse del tutto inaspettato l’annuncio della convocazione di un Concilio Ecumenico. L’annuncio parve subito una decisione definitiva, che il S. Padre non era disposto a rimettere in discussione perché frutto di una scelta personale di cui si assumeva la piena responsabilità, quale Pastore Supremo della Chiesa. Nei mesi precedenti, Giovanni XXIII si era limitato ad alcuni accenni in colloqui riservati con i cardinali Ruffini e Urbani. Qualche giorno prima dell’annuncio ufficiale ne aveva parlato col Segretario di Stato Tardini, ottenendone l’assenso, anche se verosimilmente la decisione era già stata presa.

L’annuncio improvviso e inatteso fa del Vaticano II un Concilio in qualche modo unico in tutta la storia della Chiesa. Le precedenti convocazioni conciliari si erano solitamente concretizzate dopo lunghe trattative, oppure si erano rese necessarie per il sopraggiungere di gravi errori dottrinali. Nulla di tutto questo all’origine del Vaticano II: non c’erano pressioni di sorta, né errori che non fossero già stati condannati, ma solo la decisione solitaria di un vegliardo.

Ci si è a lungo interrogati per chiarire i motivi ispiratori di questa scelta. Sembra insostenibile la tesi che valuta superficiale la decisione del Papa, ritenendolo non del tutto consapevole della portata del gesto. Quanto meno si può ricordare che la scelta si riallacciava a due progetti di convocazione conciliare, presi in considerazione da Pio XI all’inizio degli anni Venti e da Pio XII dopo la seconda guerra mondiale, entrambi con lo scopo di completare il Vaticano I, forzatamente interrotto con l’annessione di Roma al Regno d’Italia nel 1870. Ambedue i progetti erano però stati abbandonati per la complessità dei problemi che presentavano, sia di contenuto che di carattere organizzativo.

4. Le finalità assegnate al Vaticano II

I motivi che indussero Giovanni XXIII a superare la ritrosia dei predecessori furono la percezione dei tempi nuovi e l’emergere di esigenze che richiedevano alla Chiesa l’elaborazione di risposte diverse da quelle tradizionali. Queste esigenze venivano sempre più avvertite mano a mano che il lavoro di preparazione procedeva e si infittivano i colloqui del pontefice con i vescovi e le personalità ecclesiastiche più in vista. Si arricchivano progressivamente le motivazioni espresse in modo chiaro nel radiomessaggio dell’11 settembre 1962 e nel discorso di apertura del Concilio: Gaudet Mater Ecclesia (11.10.1962). Pensati con ardente convincimento dall’anziano Papa, questi due interventi mostrano in modo eloquente come egli avesse preceduto gran parte dell’episcopato nell’acquisizione di una lucida ed organica visione della natura e degli scopi del Vaticano II. Nel citato radiomessaggio l’evento conciliare affonda le sue ragioni nel cuore stesso del mistero ecclesiale. La Chiesa è debitrice della sua vitalità al rapporto che la lega indissolubilmente al suo Fondatore, il quale la vivifica e la rinnova in continuazione. Quest’opera di rigenerazione non può limitarsi alla comunità ecclesiastica, ma deve estendersi all’intera umanità. Perciò, illuminata da Cristo, la Chiesa diffonde la sua luce nel mondo intero: lumen Christi, lumen Ecclesiae, lumen gentium, sono le espressioni usate dal Papa, alle quali si ispirerà poi il Concilio. L’assise conciliare doveva effettivamente rappresentare un momento intenso di questo rapporto col Cristo rigenerante la Chiesa in vista della salvezza del mondo. Diceva il Papa: “Che è mai infatti un Concilio Ecumenico se non il rinnovarsi di questo incontro della faccia di Gesù Risorto, re glorioso e immortale, radiante su tutta la Chiesa, a salute, a letizia e a splendore delle genti umane?” (Discorsi, Messaggi, Colloqui del Santo Padre Giovanni XXIII, IV vol., p. 521). Da questa impostazione emerge l’intuizione che la Chiesa non esiste per se stessa, ma per il mondo, sul quale deve irradiare la luce di Cristo mediante un rinnovamento dell’evangelizzazione. L’interesse per i problemi dell’umanità fa parte della missione evangelizzatrice della Chiesa, la quale deve farsi carico delle difficoltà e dei travagli che hanno caratterizzato le vicende storiche del secolo ventesimo. Oltre al tema prediletto della pace, Giovanni XXIII enumera una serie di altri temi: “L’eguaglianza fondamentale di tutti i popoli nell’esercizio di diritti e doveri al cospetto della intera famiglia delle genti; la strenua difesa del carattere del matrimonio, che impone agli sposi amore consapevole e generoso […] Altro punto luminoso. In faccia ai paesi sottosviluppati la Chiesa si presenta quale è e vuole essere, come la Chiesa di tutti e particolarmente la Chiesa dei poveri” (ibid., p. 523). Non vengono qui aperte prospettive inedite che ritroveremo nella Gaudium et spes?

Quanto al discorso dell’11 ottobre 1962, all’apertura del Concilio, il livello di riflessione è ancor più alto. Il Vaticano II veniva, infatti, riallacciato alla millenaria storia dell’istituzione conciliare, iniziata fin dall’epoca apostolica con il Concilio di Gerusalemme e che lungo i secoli aveva saputo offrire, soprattutto nei momenti più difficili, soluzioni positive per la vita della Chiesa. Lo scopo rimaneva quello di sempre: predicare e testimoniare Cristo, ovviamente con gli opportuni aggiornamenti.

“Al presente - affermava il Pontefice all’inizio della solenne assise - bisogna invece che […] l’intero insegnamento cristiano sia sottoposto da tutti a nuovo esame, con animo sereno e pacato, senza nulla togliervi, in quella maniera accurata di pensare e di formulare le parole che risalta soprattutto negli atti dei Concili di Trento e Vaticano I”.

Per non compromettere l’efficacia di questa missione era richiesto alla Chiesa di abbandonare un generale atteggiamento di pessimismo e di sfiducia, purtroppo non assente in campo cattolico a causa degli eventi storici degli ultimi due secoli. Giovanni XXIII non amava tale comportamento, che precludeva in partenza la possibilità di cogliere anche il positivo insito nella modernità. Ne è prova il famoso passaggio contro i “profeti di sventura, che annunziano eventi sempre infausti, quasi sovrastanti la fine del mondo” (Gaudet Mater Ecclesia, in: Documenti Il Concilio Vaticano II, Bologna 1971, p. 39). Papa Giovanni, pur non ignorandone le insidie, invitava a considerare con simpatia e fiducia il suo tempo e indicava con chiarezza i compiti che il Concilio era chiamato ad assolvere. “Quel che più di tutto interessa il Concilio – affermava il Papa - è che il sacro deposito della dottrina cristiana sia custodito e insegnato in forma più efficace” Non si trattava naturalmente di limitarsi a ribadire i contenuti della dottrina ecclesiastica o qualche suo punto particolare; per questo “non occorreva un Concilio” (Ibid., p. 41). Era invece urgente “che questa dottrina certa ed immutabile, alla quale si deve prestare un assenso fedele, sia approfondita ed esposta secondo quanto è richiesto dai nostri tempi”. Nel raggiungimento di questo obiettivo stava indicato il compito peculiare del Concilio: il suo magistero, pertanto, non sarebbe stato precisamente dottrinale, ma di tipo nuovo, un “Magistero di carattere prevalentemente pastorale” (Ibid.).

Annunciare il Vangelo in maniera nuova costituiva la grande sfida per la Chiesa nel mondo moderno. Con grande acutezza il Papa individuava alcune modalità ritenute necessarie per il successo dell’operazione: l’esposizione positiva della verità e l’abbandono dei toni di polemica e condanna. Era maturato il tempo in cui “la Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia piuttosto che della severità. Essa ritiene di venire incontro ai bisogni di oggi mostrando la validità della sua dottrina, piuttosto che rinnovando condanne” (Ibid., p. 47).

Il medesimo atteggiamento di apertura e di rispetto andava adottato verso le “Chiese separate”, per le quali Papa Giovanni mostrava grande interesse con la creazione del Segretariato per l’unità dei cristiani e l’invito ad esse rivolto di inviare osservatori alle sessioni conciliari.

Con l’importante discorso di apertura il pontefice tracciava così a grandi linee gli obiettivi che i Vescovi convocati a Roma avrebbero dovuto perseguire; evitava di entrare nei dettagli, non anticipava né imponeva soluzioni, intendendo il Concilio come realmente deliberante e non come semplice organismo di ratifica di decisioni già prese.

5. Continuità con l’esperienza passata

Sono in molti a chiedersi se il pontificato giovanneo sia stato la naturale prosecuzione di ciò che aveva animato il visitatore e delegato apostolico, il nunzio e il patriarca Roncalli, oppure se abbia rappresentato una vistosa rottura. Ci pare più rispondente a verità l’opinione di quanti vedono nel pontificato, pur con diversità di accentuazioni, la naturale evoluzione di una personalità che, sotto apparenze di semplicità e bonomia, celava una sensibilità e una capacità singolari di percepire i bisogni del tempo. Queste doti naturali si erano affinate grazie ad una profonda fede, che aveva favorito in lui il sorgere di una comprensione soprannaturale e quindi ultimamente positiva della storia. Senza sottovalutare la gravità dei problemi, tale disposizione sapeva reagire con compostezza, calma ed immensa fiducia nell’aiuto divino. Una salda fede nella Provvidenza aveva sempre impedito a Roncalli di abbandonarsi ad un paralizzante pessimismo, sollecitandolo piuttosto a valutare le possibilità che gli eventi, sempre e comunque, dischiudevano all’annuncio di Cristo. Tale atteggiamento non fu dunque improvvisato negli anni del pontificato, ma è ben percepibile fin dagli inizi della sua vita sacerdotale mantenendosi saldo nonostante l’immane tragedia della Grande Guerra e le successive catastrofi della prima metà del secolo scorso.

Le molteplici esperienze di una vita lunga e intensa, filtrate e rilette attraverso il costante riferimento alla S. Scrittura e ai testi classici della Tradizione – Liturgia, Padri della Chiesa, classici della spiritualità come l’Imitazione di Cristo – avevano favorito il formarsi in lui di un’autentica dimensione sapienziale, da cui ricavare principi di comportamento e criteri di giudizio, come testimoniano, fra l’altro, le massime di cui è cosparso tutto il suo epistolario. Ciò impediva che la forte attrattiva per il passato, coltivata anche mediante una appassionata ricerca storica, fosse occasione di un’indagine erudita fine a se stessa. Nello storico Roncalli l’approccio al passato è dinamico ed è ben avvertibile lo sforzo di ricavarvi lezioni di vita, di sapienza umana e cristiana attraverso confronti non frettolosi e banali. Come amava spesso dire, la Chiesa non è paragonabile ad un museo da conservare, ma ad un giardino da coltivare, perché sia in grado di assicurare in ogni epoca un efficace annuncio di Cristo.

Lo conferma la ricerca che lo tenne impegnato per tutta la vita e che concluse quando già era stato eletto alla cattedra di Pietro: l’impulso all’attuazione della riforma tridentina attuato da san Carlo nella diocesi di Bergamo. Attraverso la ricostruzione della Visita Apostolica compiuta dal Borromeo nel 1575 e delle iniziative di rinnovamento da lui ispirate, poté conoscere un esempio autorevole di aggiornamento che aveva recato non pochi vantaggi alla Chiesa. Il fascino esercitato su Papa Giovanni dal Concilio tridentino giocò un ruolo non secondario nella decisione di convocare il Vaticano II. Allo scopo di chiarire i compiti ed i risultati che si attendeva dal Concilio, numerosi sono i richiami alla riforma tridentina, presentata come esemplare risposta della Chiesa alle emergenze religiose del Cinquecento. Analogamente a quanto si era operato a Trento, il Vaticano II avrebbe dovuto mettere la Chiesa in grado di rispondere alle sfide dei tempi nuovi. Lo studio della storia gli aveva, dunque, insegnato a vedere nell’istituzione conciliare una delle più alte espressioni della Chiesa ed ad apprezzarne l’estrema utilità nei momenti storici più delicati.

Questa visione della Tradizione della Chiesa ebbe importanti riflessi sullo stile del suo ministero, definibile secondo i tratti della pastoralità, che si caratterizzava per la preoccupazione di annunciare innanzitutto il Vangelo, facendo attenzione a mantenersi nella sfera più propriamente religiosa, per non compromettere l’efficacia dell’annuncio con interventi più o meno politici. Il desiderio di avviare un dialogo con il proprio tempo si traduceva nel rispetto per la dignità di ogni uomo e in uno sforzo di comprensione delle idee altrui, non disgiunto dall’ammissione degli errori e delle colpe della propria parte. Nella formazione del pastore d’anime, incise non poco il suo temperamento aperto, comprensivo e affabile, affinato dalla spiritualità di Francesco di Sales, il santo dell’amabilità. Non si possono poi dimenticare le molteplici esperienze, in gran parte vissute in contesti di frontiera o di marginalità rispetto al cattolicesimo del tempo: esse plasmarono la personalità di Roncalli e gli permisero di governare la Chiesa con l’ausilio di un bagaglio di conoscenze ricco ed invidiabile. Vale qui la pena di ripercorrere brevemente le sue prime attività ministeriali, che avevano posto il giovane prete Roncalli a contatto con l’azione pastorale della vostra Chiesa bergamasca, guidata allora dalla mano ferma di Mons. Radini Tedeschi. Il dinamismo della diocesi natale, espresso ad esempio dalle opere del movimento cattolico, aveva insegnato al giovane don Angelo la necessità di un adattamento dell’azione pastorale alle mutevoli condizioni storiche, da perseguire attraverso il mantenimento di un giusto equilibrio tra un immobilismo nostalgico ancorato al passato e le smanie di imprudenti fughe in avanti ugualmente dannose. Con la successiva esperienza di visitatore, delegato e finalmente nunzio apostolico, vissuta con animo prima pastorale che diplomatico, egli entrò in contatto con ambienti non cattolici (Bulgaria, Turchia e Grecia) o già in parte scristianizzati (Francia).

6. La fase di preparazione del Concilio

La preparazione dell’assise conciliare si svolse inizialmente attraverso l’istituzione di una Commissione Antepreparatoria, resa pubblica il 17.5.1959 e presieduta dal Segretario di Stato cardinal Tardini, con l’incarico di raccogliere i vota, cioè i desideri e le proposte dell’intero episcopato, da cui trarre argomenti di discussione per il futuro Concilio. Fu accumulato un imponente materiale, successivamente sintetizzato in una relazione finale, da cui furono ricavate le questioni sulle quali si dovevano elaborare i documenti preparatori da sottoporre all’esame dei padri conciliari. Sulla base dei problemi emersi, Giovanni XXIII il 5.6.1960, con il motu proprio “Superno Dei nutu”, avviava la reale preparazione del Concilio con la creazione di 11 Commissioni, di cui una Centrale, che avrebbe svolto un lavoro di coordinamento e di approvazione degli schemi elaborati, sotto la presidenza del Segretario di Stato. Le Commissioni rispettavano in sostanza la struttura della Curia Romana, con due eccezioni: il Segretariato per l’unità dei cristiani, presieduto dal card. Bea, e la Commissione per l’apostolato dei laici. Nel Natale del 1961, nonostante la contrarietà di non pochi, il Papa decise l’apertura del Concilio per l’anno seguente. Nel febbraio successivo venne stabilita la data dell’11 ottobre 1962. Senza la determinazione di Papa Giovanni, cui molti facevano notare la necessità di tempi più consistenti di preparazione, il Vaticano II difficilmente si sarebbe aperto, tenuto conto della malattia che avrebbe condotto il Pontefice alla morte nel giugno del 1963. L’abbondante materiale elaborato dalle Commissioni si rifaceva alle impostazioni tradizionali della teologia di scuola. Uniche eccezioni i testi della Commissione Liturgica e del Segretariato per l’unità dei cristiani, grazie all’apporto di contenuti derivante dall’esperienza del movimento liturgico e di quello ecumenico, già operanti da decenni.

Ad un esame dei testi elaborati dalle Commissioni preparatorie, sorge spontaneo interrogarsi sulla distanza che essi manifestano da quello che si è visto essere uno degli intenti di fondo di Giovanni XXIII nell’indire il Concilio: quello di esporre in forma nuova il deposito della fede. A questo riguardo, tra le varie spiegazioni che si sono cercate, sembrano inattendibili le tesi sia di coloro che sostengono la concordanza di Giovanni XXIII con il lavoro delle Commissioni, sia di chi parla di una solitudine istituzionale del Pontefice, cioè di un Papa impotente a rovesciare le tesi più tradizionaliste per l’ostilità dell’ambiente che lo circondava. La posizione da lui assunta era sicuramente più complessa. Egli permise agli organismi preparatori di lavorare liberamente; la Curia Romana - che rifletteva anche settori non insignificanti del cattolicesimo dell’epoca - andava lasciata libera di esprimere le sue posizioni, che il Papa non scartava a priori e che intendeva valutare con attenzione.

Preoccupazione principale di Giovanni XXIII fu quella di far comprendere le istanze fondamentali della convocazione conciliare non solo con discorsi, ma anche con gesti il cui significato innovativo non poteva sfuggire. Riscosse molto consenso lo stile volto ad esercitare il ministero papale come bonus pastor, con frequenti visite alle parrocchie di Roma, ai centri significativi della vita diocesana e ai luoghi di sofferenza.

Il Pontefice operò poi alcuni interventi decisivi nella struttura preparatoria del Concilio. Emblematica la creazione nel giugno 1960 del Segretariato per l’unità dei cristiani, il quale godette del suo appoggio, passando da semplice strumento tecnico al rango di Commissione preparatoria vera e propria. In seno alla Commissione Centrale si registrarono, infatti, accese discussioni, quando il Segretariato presentò un proprio documento sulla libertà religiosa, certamente innovativo. Ma ciò fu il preludio dell’appassionato dibattito che condusse alla Dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis Humanae. Ufficialmente il Papa manteneva una posizione super partes, ma era evidente l’intento di lasciare all’episcopato piena libertà di dibattito, investendolo della responsabilità di operare scelte determinanti per il futuro ecclesiale.

7. L’apertura e la prima fase del Concilio

All’approssimarsi dell’apertura, Giovanni XXIII vuole chiamare tutta la Chiesa a speciale preghiera per ribadire, tra l’altro, la natura liturgica dell’evento conciliare. Definito più volte una novella Pentecoste per il ruolo di protagonista assoluto riconosciuto allo Spirito Santo, il Concilio veniva accostato sempre dal Papa anche al rinnovarsi dell’Epifania. L’assise sarebbe stata un atto di culto che i vescovi, come i Re Magi, avrebbero reso al divino Fondatore della Chiesa: “Il Concilio ecumenico, prima ancora che una novella e grandiosa Pentecoste, non si direbbe che vuole essere una vera e nuova Epifania, una delle tante, ma una delle più solenni manifestazioni che si rinnovarono e si rinnovano nel corso della Storia?” (Sacrae Laudis, in Giovanni XXIII, Lettere 1958-1963, Roma 1978, p. 352). In questa logica si pone l’enciclica Poenitentiam agite del 1° luglio 1962, in cui si ribadisce la necessità della preghiera e della penitenza. Fa parte della preparazione spirituale anche il pellegrinaggio del 4 ottobre in treno a Loreto e ad Assisi.

Il santuario di Loreto è stato lungo i secoli meta prediletta di molti pontefici e illustri uomini di Chiesa in momenti di particolare gravità storica. Giovanni XXIII volle compiere un atto di supplica, che costituisse il culmine e il suggello della preghiera a cui erano stati chiamati i fedeli di tutto il mondo. Pure il mistero dell’Incarnazione, evocato dalla Santa Casa di Loreto, che la tradizione identifica con il luogo dell’Annunciazione, suggerì un pertinente richiamo al compito affidato al Concilio, la cui azione aveva come obiettivo la diffusione dei benefici della salvezza divina sul mondo, il cui rinnovamento ebbe il primo inizio nel congiungimento tra Cielo e terra compiutosi nel Verbo Incarnato. La tappa successiva obbediva allo scopo di individuare nella vita di S. Francesco un modello autorevole di rinnovamento evangelico. Il santo di Assisi richiamava non pochi atteggiamenti richiesti da ogni riforma: la semplicità dei piccoli come condizione per accedere alla conoscenza dei misteri divini, di fronte alla quale “umana sapienza, ricchezze secolari, dominazione incontrastata, tutto ciò di cui il mondo si pasce sotto vari nomi – fortuna, grandezza politica, potenza e prepotenza- tutto si arresta e si infrange” (DMC cit., IV vol., p. 557) .

La necessità della preghiera e della penitenza si avvertiva anche per l’importanza delle decisioni che il Papa era chiamato a prendere in quei giorni. All’approssimarsi dell’apertura si moltiplicarono le voci di allarme e di critica per il lavoro delle Commissioni, giudicato inadeguato. Fu una scelta di grande portata la decisione di Giovanni XXIII di inviare all’episcopato sette di questi documenti, tra cui quello sulle fonti della Rivelazione, indice della sua volontà che si attuasse un vero dibattito. Questa mossa permise ad alcuni episcopati un esame preventivo e l’elaborazione di testi in grado di modificare l’impianto dei documenti.

Un primo confronto si ebbe alla Congregazione Generale, due giorni dopo l’apertura. Al momento di eleggere i membri delle principali Commissioni secondo le liste preparate in Curia, dai banchi della presidenza il cardinale Lienart, sostenuto dai cardinali Frings e Alfrink, si assunse la responsabilità di chiedere l’aggiornamento della votazione al fine di permettere ai vescovi di consultarsi. La richiesta fu accolta e ciò consentì di avere delle Commissioni più rappresentative delle reali tendenze dell’assemblea.

Un fatto ancor più clamoroso si ebbe nel corso della discussione dello schema del De Fontibus Revelationis. Esso presentava una rigida impostazione tradizionale, tale da urtare le confessioni protestanti per la suddivisione del contenuto della Rivelazione tra le due fonti della Scrittura e della Tradizione. Dopo otto giorni di dibattito 1368 padri contro 822 si pronunziarono per il ritiro del testo e per un suo radicale rifacimento. Benché mancasse un centinaio di voti per raggiungere la maggioranza dei due terzi necessaria per dare attuazione alla delibera, il Papa decise di rinviare lo schema a una commissione mista dove accanto ai membri della comissione teologica, in larga misura vicini alle posizioni del S. Ufficio, sarebbe stato presente anche il Segretariato per l’unità dei cristiani. Si trattò di una decisione che impresse ai lavori conciliari una svolta decisiva. Essi venivano affrancati da qualsiasi ipoteca che ne limitasse la libertà e si consentiva ai padri di indirizzarsi verso prospettive teologicamente più aggiornate, che avrebbero portato al testo della costituzione Dei Verbum. Qualche giorno dopo, la discussione sullo schema della Chiesa, anch’esso sottoposto a vivaci critiche, offrì ai cardinali Montini e Suenens l’occasione di interventi, preventivamente concordati con Giovanni XXIII, che invitavano a ripensare il progetto del Concilio. Suo oggetto principale sarebbe stato la Chiesa considerata ad intra, nel suo essere ed agire, e successivamente ad extra, nei suoi rapporti col mondo.

I lavori del Vaticano II potevano così muoversi secondo una precisa logica ed evitare il pericolo della estemporaneità. Due giorni prima della solenne chiusura della prima fase, il 6 dicembre 1962, venivano comunicate in aula alcune disposizioni Papali. Con una lunga citazione del discorso di apertura se ne riaffermavano gli scopi: non nuove definizioni dogmatiche, ma esposizione rinnovata del depositum fidei; preferenza accordata alla misericordia rispetto alla severità. Il discorso di apertura siglava così l’inizio e la fine della prima fase ed eliminava le ultime incertezze riguardo alle intenzioni del pontefice. L’iniziativa più importante era però l’istituzione di una Commissione per coordinare, dirigere e snellire i lavori assembleari e dare al Concilio un più coerente e proficuo metodo di lavoro. Durante l’estate fu avviato l’esame dei testi attraverso un lavoro collegiale, che vide coinvolto l’intero episcopato, come del resto il Papa aveva raccomandato nella importante lettera Mirabilis ille, indirizzata all’episcopato il giorno dell’Epifania del 1963. Essa rappresenta il suo testamento spirituale per un Concilio, che non lo avrebbe più avuto come guida a motivo della sua scomparsa, avvenuta il 3 giugno 1963, tra il compianto del mondo intero.

Giovanni XXIII prima di lasciare per sempre i fratelli vescovi, li aveva chiamati a collaborare attivamente ai lavori conciliari anche nelle rispettive sedi, nonostante gli impegni pastorali. Desiderava, infatti, che proseguisse in modo reale la collaborazione tra Papa e vescovi. Se al Successore di Pietro spetta dare le direttive generali al Concilio e conferire forza di legge alle sue deliberazioni, compete, infatti, ai “padri conciliari proporre, discutere, preparare, nella debita forma, le sacre deliberazioni e finalmente sottoscriverle insieme al Supremo Pastore” (Mirabilis Ille, 6 gennaio 1963, in Lettere cit., p. 440).

8. Un’eredità che Giovanni XXIII ci ha lasciato

Abbiamo insieme ripercorso, anche in dettagli che solo apparentemente possono sembrare superflui, l’esperienza conciliare così come la visse Papa Giovanni per addentrarci nei suoi convincimenti e riappropriarci dell’eredità che egli ha posto nelle mani di tutta la Chiesa. È interessante rileggere quanto il Pontefice annotava la sera di quell’11 ottobre nel suo diario: “Questa giornata segna l’apertura solenne del Concilio Ecumenico. La cronaca è su tutti i giornali e per Roma è nei cuori esultanti di tutti. Ringrazio il Signore che mi abbia fatto non indegno dell’onore di aprire in nome suo questo inizio di grandi grazie per la sua Chiesa santa. Egli dispose che la prima scintilla che preparò durante tre anni questo avvenimento uscisse dalla mia bocca e dal mio cuore. Ero disposto a rinunziare anche alla gioia di questo inizio. Con la stessa calma ripeto il Fiat voluntas tua circa il mantenermi a questo primo posto di servizio per tutto il tempo e per tutte le circostanze della mia umile vita, e a sentirmi arrestato in qualunque momento perché questo impegno di procedere, di continuare e di finire passi al mio successore. Fiat voluntas tua, sicut in caelo et in terra (Mt 6,10).

E’ indubitabile che senza Giovanni XXIII sarebbe difficile immaginare il Concilio Vaticano II. Il ruolo da lui svolto è stato decisivo non solo per la convocazione, ma anche nei suoi difficili inizi, quando taluni puntuali interventi consentirono all’assemblea di assumere quella fisionomia che ebbe. Le indicazioni roncalliane non sarebbero state abbandonate dal suo successore. Paolo VI ne raccolse la pesante eredità. Ma il merito maggiore di Papa Giovanni sta nello spirito e nell’impulso dato ai lavori. In spirito di comunione egli volle affrontare i problemi che il mondo moderno poneva alla Chiesa. Nella citata lettera Mirabilis Ille, aveva chiamato i vescovi, in qualità di capi delle chiese locali, a vivere una intensa esperienza che li poneva irreversibilmente sulle vie della collegialità al fine di attuare il necessario aggiornamento della Chiesa, a beneficio dei fedeli e del mondo intero.

9. L’ermeneutica dell’amicizia

Cari amici, il vostro impareggiabile Mons. Andrea Spada, storico direttore de L’Eco di Bergamo, descrive lo spirito con cui Giovanni XXIII visse il Concilio fin dalle prime pagine del suo inedito diario manoscritto, che ho avuto la possibilità di scorrere, tutto dedicato alla prima sessione conciliare, quella “roncalliana”, che lo annoverò tra gli esperti attenti e intelligenti. Dapprima confida la propria sorpresa per un Presule, il quale spiegava al vostro Cardinale Testa che avrebbe senz’altro detto al Papa “di non far mai più dei Concili, perdita di tempo con l’assurdo di tremila vescovi che hanno diritto di parola” (p 4). Subito dopo però lo Spada offre la sua personale e toccante testimonianza del clima più vero di quella convocazione: “Mai c’è stato un rimescolamento, così evidente ed ecumenico, di esperienze, di scambi, di vedute. Prego Iddio che il Concilio duri fino a che ognuno di questi vescovi sia entrato in amicizia con almeno cento vescovi di altri paesi…” (p 6).

Entrare in amicizia. Quell’entrare ci fa addirittura pensare a Pietro e Giovanni, che entrano nell’esperienza del mattino di Pasqua (Gv 20, 6-8) per rimanere sempre nella amicizia del Risorto. Non sta forse in questa amicizia rinnovata con Cristo, con la Chiesa e con la storia il segreto dello stesso Concilio? Non c’è forse una sorta di ermeneutica della amicizia da riscoprire nei confronti del percorso conciliare tutto raccolto attorno ai temi centrali di Cristo, della Chiesa e della storia? Con un atteggiamento amicale nei confronti dei pronunciamenti del Vaticano II, delle sue intuizioni, delle prospettive e degli orientamenti autorevoli, come delle risposte e dei percorsi post-conciliari, non infrequentemente faticosi ma altrettanto fecondi quando scaturenti dall’autentico insegnamento del Vaticano II? Del resto, non è forse in una “evangelica amicizia” sempre rinnovata, che matura nell’umile riconoscimento della propria inadeguatezza, che fiduciosa e certa della misericordia si fa sequela fedele e generosa il senso del nostro essere discepoli? Pensiamo anche solo alla dirompente dimensione ecumenica e interreligiosa insita in questa prospettiva amicale, nonostante la complessità e talora l’ambiguità degli approcci che la storia sempre ci riserva!

“Vi ho chiamati amici, perché tutto quello che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi” (Gv 15,15): è la parola di Cristo, che questa sera Giovanni XXIII come padre, pastore e amico ripete al cuore di ciascuno.

10. In conclusione

La diocesi di Bergamo ha accolto con fiducia il Concilio anche perché fu il Concilio del suo Papa. L’evento, pur nella sua novità, venne percepito nel segno della fedeltà e della continuità alla grande tradizione della Chiesa. Benedetto XVI, nella profonda analisi sulla retta interpretazione del Vaticano II condotta in occasione degli auguri alla Curia Romana per il primo Natale da Papa, cita, a conforto della “ermeneutica della riforma”, che si contrappone alla “ermeneutica della discontinuità e della rottura”, “le parole ben note di Giovanni XXIII”, il quale affermava che il Concilio “vuole trasmettere pura ed integra la dottrina, senza attenuazioni o travisamenti”; e continuava: “Il nostro dovere non è soltanto di custodire questo tesoro prezioso, come se ci preoccupassimo unicamente dell’antichità, ma di dedicarci con alacre volontà e senza timore a quell’opera, che la nostra età esige… E’ necessario che questa dottrina certa e immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che corrisponda alle esigenze del nostro tempo. Una cosa è infatti il deposito della fede, cioè le verità contenute nella nostra veneranda dottrina, e altra cosa è il modo col quale esse sono enunciate, conservando ad esse tuttavia lo stesso senso e la stessa portata” (S. Oec. Conc. Vat. II Constutiones Decreta Declarationes, 1974, pp 863-865 in Benedetto XVI, Discorso ai Membri della Curia Romana, Insegnamenti 2005, I p. 1026).

Aggiunge inoltre Benedetto XVI che “il programma proposto da Papa Giovanni XXIII era estremamente esigente, come appunto è esigente la sintesi tra fedeltà e dinamica. Ma ovunque questa interpretazione è stata l’orientamento che ha guidato la recezione del Concilio, è cresciuta una nuova vita e sono maturati frutti nuovi […] il seme buono, pur sviluppandosi lentamente, tuttavia cresce, e cresce così la nostra profonda gratitudine per l’opera svolta dal Concilio” (ibid.).

E tra i frutti maturi e significativi del Concilio Vaticano II non ci è difficile apprezzare il dono fatto alla Chiesa nei pontificati di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. I due Pontefici non solo sono stati partecipi e a loro modo protagonisti dell’assemblea conciliare, ma dal Concilio sono stati segnati e formati. Essi hanno incarnato e incarnano la permanente sintesi tra fedeltà e dinamica di cui è intessuta la vita della Chiesa, sintesi che fu l’anelito costante del Beato Giovanni XXIII.

A lui va oggi il nostro omaggio riconoscente, in particolare per la coraggiosa docilità all’ispirazione dello Spirito che manifestò nell’indizione del Concilio Vaticano II. E a quest’omaggio uniamo volentieri la sua terra di Bergamo, a lui tanto cara, la cui ricca storia di fede contribuì a far germogliare non poche delle sue intuizioni.

Grazie!

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