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INTERVENTO DEL CARDINALE SEGRETARIO DI STATO,
PIETRO PAROLIN,
ALLA CONFERENZA  SUL TEMA:
"LA GUERRA: UNA SCONFITTA PER TUTTI.
A CENTO ANNI DALLA FINE DEL PRIMO CONFLITTO MONDIALE
"

[Aquileia, 12 luglio 2018]

 


(da: L'Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLVIII, n.158, 14/07/2018)

 

[...] Gorizia è una città piena di storia, travolta e schiacciata dalla guerra, quasi un luogo simbolico che riassume in sé molti dei drammi del secolo appena trascorso. E anche le sue difficoltà attuali — difficoltà sociali, economiche, imprenditoriali, religiose — non sono altro che il riflesso della tragedia novecentesca: dei cambiamenti, degli smembramenti, delle divisioni che dovette subire suo malgrado nel corso del XX secolo.

Quella che cento anni fa era una gloriosa e fiorente città della Mitteleuropa oggi è una città che non senza fatica cerca di ritrovare identità e spazio nella nuova Europa del terzo millennio, finalmente riunificata dopo la fine dei muri, delle barriere, delle divisioni ideologiche e politiche che hanno frantumato per troppi anni la vita di tanti inermi cittadini, di tanti di voi, delle vostre famiglie, di questa comunità cristiana che nel corso del secolo appena trascorso fu spezzata e lacerata in modo violento e innaturale.

Proprio Gorizia dà ragione, credo, alle profetiche intuizioni di Benedetto XV, eletto al pontificato solo un mese dopo l’inizio della guerra, il 3 settembre 1914, che subito parlò del conflitto come del «suicidio dell’Europa», ripetendo poi l’espressione in molte successive occasioni.

Il nuovo Pontefice era stato scelto al termine di un conclave drammatico, svoltosi in un clima nel quale la tensione era evidente, quasi fisica. Entrarono infatti nella Cappella Sistina 57 porporati, fra i quali si fronteggiarono sei francesi, due inglesi e un belga da una parte, quattro austro-ungarici e due tedeschi dall’altra. I tre Cardinali nordamericani, che avrebbero potuto portare una riflessione pacata ed estranea al conflitto, risultarono assenti per il poco tempo allora concesso fra la morte del Pontefice e l’inizio del conclave.

L’Arcivescovo di Bologna Giacomo Della Chiesa fu scelto perché la sua carriera pregressa, diversamente da altri candidati, non indicava dipendenze né verso l’Intesa né verso la Triplice. Inoltre aveva lavorato a lungo e con ottimi risultati, prima di occupare la sede bolognese, nel servizio diplomatico della Santa Sede, ciò che garantiva capacità di movimento e conoscenza della situazione internazionale. Accanto a lui, e in totale sintonia con lui, operò sempre il suo Segretario di Stato, il Cardinale Pietro Gasparri, abile diplomatico e sperimentato canonista, che seppe affrontare ogni situazione con sicurezza e padronanza dei problemi. Sarà il principale artefice, come sappiamo, della Conciliazione del 1929.

L’accoppiata Benedetto-Gasparri impose subito alla Santa Sede la linea dell’imparzialità, senza sbilanciamenti né da una parte né dall’altra. Una linea che ci appare oggi vincente, l’unica possibile in quel terreno “invivibile”, per una forza religiosa e spirituale, che è la guerra moderna. Ma allora l’imparzialità costò al vertice vaticano un drammatico isolamento di fronte al nazionalismo guerrafondaio che travolse tutto e tutti, senza risparmiare ovviamente i cattolici dell’uno e dell’altro fronte.

Una febbre che in Italia si era già manifestata in occasione della guerra di Libia, nel 1911-1912, quando Pio X fu costretto ad intervenire per moderare gli entusiasmi di diversi vescovi.

Fu in occasione della diffusione della celebre Nota pontificia ai capi delle potenze belligeranti del 1º agosto 1917, che il Papato dovette amaramente costatare la solitudine in cui si trovava. In quella nota, come sappiamo, compare l’espressione “inutile strage”, a commento e condanna della guerra che stava infliggendo perdite mai viste prima alla popolazione, anche civile, del continente, senza lasciare intravvedere durature soluzioni ai problemi che l’avevano provocata. Oggi siamo tutti consapevoli che le immani sofferenze di quella guerra furono proprio una “inutile strage”, ma allora tutti respinsero l’appello papale alla pace.

E dicendo tutti non mi riferisco soltanto ai governi ma anche, purtroppo, a gran parte dell’Episcopato europeo. Molti vescovi francesi e austro-tedeschi preferirono non pubblicare nei rispettivi bollettini diocesani l’appello pontificio (che non era un irenico invito alla concordia, ma una concreta proposta di soluzione delle questioni territoriali in discussione, molto simile alla proposta di pace che avanzerà all’inizio del 1918 il presidente degli Stati Uniti), con la speciosa giustificazione che il Papa si sarebbe rivolto ai governi e non ai fedeli cattolici del continente.

Guardando le cose dall’alto e non dal basso, non avendo interessi propri da difendere, Papa Benedetto aveva perfettamente compreso ciò che né i governi né molti vescovi né la maggior parte dei cattolici d’Europa vollero comprendere: che la guerra sarebbe stata una sconfitta per tutti, anche per i vincitori, che si stava seminando il virus malefico di nuovi rancori, di nuovi conflitti.

Il Papa l’aveva detto, ancora una volta profeticamente in diverse altre occasioni: «Le nazioni non muoiono — aveva ammonito il 28 luglio 1915, rivolgendosi ai popoli belligeranti e ai loro governanti — umiliate ed oppresse, portano frementi il giogo loro imposto, preparando la riscossa e trasmettendo di generazione in generazione un triste retaggio di odio e di vendetta». E il medesimo concetto ribadì nell’enciclica Pacem Dei munus del 23 maggio 1920, nella quale giudicò negativamente gli iniqui trattati di pace conclusi a Parigi perché, scrisse, rimangono intatti e accresciuti «i germi di antichi rancori».

Oggi sappiamo che tutto ciò si è tristemente avverato: la guerra e il dopoguerra hanno dissolto l’ordine internazionale centrato sull’Europa senza riuscire a sostituirlo in maniera equa e duratura; ha sepolto quattro imperi — tedesco, austro-ungarico, russo e ottomano — aprendo una voragine politica e territoriale che i cento anni successivi non sono ancora riusciti a colmare, soprattutto in queste terre dell’Europa orientale rispetto alle quali Gorizia è una sorta di porta di accesso; ha dato il via in Russia ad un esperimento rivoluzionario drammatico, nel quale sono stati annientati milioni di persone; ha precipitato il Medio-Oriente, dove gli antichi e consolidati equilibri ottomani furono sostituiti dalla diarchia tardo coloniale anglo-francese, in una crisi permanente, giunta penosamente fino a noi, con lo strascico di perdite e di patimenti che tutti conosciamo, anche fra le antiche popolazioni cristiane che vi abitano, alle quali va in questo momento il nostro ricordo e la nostra solidarietà; ha reso necessaria la nascita di molti nuovi Stati, deboli e insicuri, presto fagocitati da incontenibili e imprevedibili micro-nazionalismi, ancora vivi e operanti; ha reso possibile ciò che ancora ci riempie di orrore: l’inizio delle stragi di massa, di cui rimase vittima allora la popolazione armena — in soccorso della quale si mosse allora quasi soltanto la Santa Sede — tanto da rendere indispensabile il conio di una parola fino a quel momento inesistente in tutti i vocabolari: la parola “genocidio”, che oggi fa parte, purtroppo, del nostro linguaggio corrente.

Una guerra che ha aperto anche alla Chiesa cattolica scenari nuovi e completamente inediti, proiettandola verso la modernità. Molte cose, infatti, sono definitivamente cambiate nel cattolicesimo a causa degli sconvolgimenti prodotti dalla guerra.

La scomparsa dell’Impero austro-ungarico ha posto fine al sistema giuridico della Chiesa di Stato, che era stato uno dei pilastri della costituzione imperiale in gran parte dell’Est europeo, compresa la diocesi di Gorizia. Dalle nomine dei vescovi, al controllo dei seminari, alla gestione degli istituti religiosi, era lo Stato che controllava e sovrintendeva alla Chiesa. Basterà ricordare la scuola superiore del clero, il Frintaneum di Vienna, dove andavano a conseguire i gradi più alti dell’istruzione i migliori allievi dei seminari imperiali. Il Frintaneum era un’istituzione statale, sistemata nella Hofburg viennese, sotto il diretto controllo dell’Imperatore. Sappiamo che da Gorizia, una delle diocesi più considerate, sede metropolita del territorio del Litorale, molti sacerdoti conseguirono i gradi accademici al Frintaneum, dai cui allievi venivano preferibilmente scelti anche i candidati all’episcopato.

Questo sistema, lontano ormai dalla nostra sensibilità e per noi quasi impensabile, aveva fornito comunque ottimi vescovi, esimi professori dei seminari, attivi organizzatori sociali, anche in queste zone prossime al mare Adriatico. Dobbiamo precisarlo per non proiettare sul passato i criteri di valutazione del presente. Tuttavia era un sistema che non poteva sopravvivere nella nuova Europa postbellica, nella quale si impose il sistema separatista, benché numerosi governi dei paesi successori dell’Impero abbiano cercato di conservare gli antichi diritti statali in sacris.

Con la nascita degli Stati successori, perciò, la Santa Sede si riappropriò rapidamente — peraltro non senza difficoltà e resistenze — della gestione ordinaria della Chiesa e delle sue istituzioni locali: la designazione dei vescovi, la guida dei seminari, la vigilanza sui regolari. Da federazione di chiese nazionali, come era stata fino alla guerra, almeno in parte, la Chiesa si trasformò nella grande organizzazione sovrannazionale che è ora, interamente sotto la guida della Santa Sede e del Santo Padre.

Un ruolo fondamentale in questo senso ritrovarono i nunzi apostolici, cioè gli ambasciatori del Papa, che erano stati fino a quel momento figure prevalentemente politiche, mentre ora recuperarono la loro natura più autentica: rappresentanti del Papa presso i Governi, ma anche presso le chiese locali e le loro istituzioni, collegamento del centro ecclesiastico romano con la periferia, fonte di informazione e di comunione da Roma alle Chiese locali e dalle Chiese locali a Roma.

In quest’ottica cambiò l’itinerario formativo dei sacerdoti, o quanto meno di quelli più promettenti, i cui studi non si conclusero più a Vienna (il Frintaneum scomparve con la fine dell’Impero) ma a Roma, nelle università pontificie. In questo modo il vecchio clero di Stato fu sostituito da un clero romanizzato, nel quale il senso della cattolicità della Chiesa si sostituì gradatamente al sentimento di appartenenza nazionale prima prevalente.

Una trasformazione non meno radicale si ebbe nel mondo missionario, fino a quel momento spesso subalterno al colonialismo europeo. Ma anche in questo caso dobbiamo doverosamente ricordare che proprio da queste terre nelle quali la fede ha radici antiche e sicure — dal Friuli, dal Goriziano e dalla Slovenia — sciamarono nel mondo grandi missionari, che portarono l’annuncio evangelico in terre allora remote dell’Africa, dell’America, dell’Asia, molti di loro morendovi a causa del clima, delle fatiche, della solitudine. Ricorderò solo due nomi, entrambi sloveni, che la storiografia più recente ha doverosamente riproposto alla nostra ammirazione: Ignacij Knoblehar, che operò in Sudan, morto a soli 38 anni, e Friderik Baraga, che operò fra i nativi del Nord America. Sacerdoti esemplari, provetti linguisti, intrepidi viaggiatori, fornirono duraturi contributi alla conoscenza di popolazioni e terre allora sconosciute. Mi risulta che a Lubiana siano conservati molti preziosi reperti etnologici che essi fecero arrivare in Europa.

Dopo la guerra Benedetto fu sollecito nell’indicare che il mondo missionario doveva comunque cambiare strada, abbandonare l’ideologia coloniale nella quale si era adagiato e promuovere l’autonomia, l’indipendenza, l’autogoverno ecclesiastico in tutte le aree extra-europee. I popoli nuovi bussavano alla porta della storia ed era tempo di dar loro lo spazio che reclamavano. L’enciclica Maximum illud, promulgata il 30 novembre 1919, mentre si stava concludendo la conferenza di Parigi, fu il manifesto di una rivoluzione missionaria e politica la cui importanza non è stata ancora valutata come merita dalla storiografia.

Nell’enciclica il Papa imponeva ai missionari europei di liberarsi dal nazionalismo, dall’idea della superiorità europea sui popoli fino ad allora sottoposti, di promuovere le lingue locali in luogo delle lingue del conquistatore, di formare e valorizzare il clero indigeno, affinché questo «possa un giorno assumere egli stesso il governo di una cristianità», perché, aggiunse, la cristianità non è «per nulla straniera presso nessun popolo» e tutti devono essere messi in grado di raggiungere “l’eterna salute” attraverso sacerdoti e Vescovi “propri connazionali”.

Benedetto sapeva di precorrere i tempi, dato che il mondo missionario non era ancora pronto a recepire tale rivoluzione e probabilmente il clero indigeno non era ancora in grado di fare da sé, ma non ebbe esitazioni, consapevole che questa era l’unica strada percorribile. Diversamente, anche la Chiesa cattolica sarebbe stata travolta dalla fine imminente delle strutture coloniali.

Il suo successore, Pio XI, proseguirà deciso sulla medesima strada, consacrando negli anni Trenta i primi vescovi cinesi, giapponesi, vietnamiti, africani. Anche in questo caso fu la guerra che obbligò Roma ad imboccare con largo anticipo la strada dell’uscita dal colonialismo.

In quest’opera di valorizzazione dell’elemento locale fu preziosa l’opera di un prelato: il futuro cardinale Celso Costantini, nato non lontano da Gorizia, al quale si deve la riscoperta e la salvezza di Aquileia durante la guerra. Poi Costantini fu amministratore apostolico di Fiume negli anni difficili dell’immediato dopoguerra e quindi, per un decennio, delegato apostolico in Cina, dove creò le strutture portanti della Chiesa cattolica in quel lontano paese.

Un terzo punto va segnalato. Il lealismo patriottico dimostrato nei vari Paesi europei dal mondo cattolico e dalle strutture ecclesiastiche, se provocarono le frizioni con la Santa Sede prima ricordate, ebbero anche, però, un effetto positivo e duraturo: fecero venir meno i pregiudizi antiromani, figli di una vecchia mentalità giurisdizionalista ottocentesca, largamente diffusi in Europa prima della guerra, attenuando dovunque i conflitti fra Chiesa e Stato. Dopo la guerra, infatti, in Francia si smorzarono le tensioni che avevano provocato la traumatica legge di separazione del 1905 e si crearono le condizioni per la ripresa di normali relazioni con Roma. Lo stesso accadde in Portogallo, che nel 1911 aveva adottato una legge di separazione analoga a quella francese.

In un primo tempo ci si illuse, addirittura, che anche in Russia, sparito il regime zarista, fosse possibile riavviare il cattolicesimo. L’illusione, come sappiamo, in questo caso si dissolse presto. In Italia caddero definitivamente le nostalgie temporalistiche e, con il tramonto della vecchia classe dirigente liberale, si aprì la strada alla soluzione della Questione Romana, che si realizzò nel 1929.

Inoltre, la compatta partecipazione dei religiosi alla guerra su posizioni di grande lealismo patriottico, con la messa a disposizione delle necessità belliche di case, edifici, fabbricati, portò dovunque al superamento dello spirito anticongregazionalistico che aveva ispirato nell’Ottocento, in numerosi Paesi (Italia, Francia, Germania), gli interventi legislativi di soppressione di ordini e congregazioni e di esproprio dei loro beni.

E in questa nuova Europa post-bellica, che stava dovunque scivolando verso regimi “forti” perché le democrazie stentavano ad imporsi, le relazioni con i governi saranno gestite direttamente dal personale vaticano. Dopo la guerra, è Roma che tira le fila della politica concordataria caratteristica del ventennio successivo, riappropriandosi del pieno controllo della Chiesa, ad intra e ad extra, a dimostrazione che si era ormai compiuta la romanizzazione e l’universalizzazione della Chiesa sotto il governo pontificio.

I quattro anni di guerra hanno, insomma, cambiato radicalmente il mondo, prefigurando le condizioni politiche, istituzionali e sociali che in qualche modo sono giunte fino a noi. Ebbene, non credo di peccare di partigianeria, se affermo che la Chiesa cattolica fu in diversi casi più accorta e più svelta delle istituzioni civili nel comprendere il cambiamento in atto e nell’adeguare la propria struttura istituzionale o organizzativa al nuovo che stava irrompendo.

Permettetemi, infine, di dare uno sguardo a questa terra goriziana. Anche qui il peso della storia era imponente, grandioso ma anche gravoso, e la fine della guerra impose repentini cambiamenti e dolorose divisioni territoriali. La diocesi di Gorizia è nata nel 1751, con la bolla di Papa Benedetto XIV che pose fine al glorioso ma ormai vetusto Patriarcato di Aquileia e diede vita alle due diocesi di Udine, comprendente le terre del Patriarcato divenute veneziane, e di Gorizia, alla quale furono assegnate le terre patriarcali di pertinenza imperiale. Fino al 1918 Gorizia rimase una città e una diocesi imperiale, guidata da eminenti figure di vescovi — da Carlo d’Attemps, a Jakob Missia, a Francesco Borgia Sedej — che seppero contenere, soprattutto dalla seconda metà dell’Ottocento, quando cominciarono a premere le tensioni fra le varie componenti nazionali, le spinte centrifughe e le diversità che dividevano il clero e il laicato, come anche la società civile e politica.

Studiosi di valore e istituzioni storiche goriziane sorte negli anni scorsi — ricorderò l’Istituto di Storia Sociale e Religiosa e l’Istituto per gli Incontri Culturali Mitteleuropei — hanno indagato a fondo quel complesso periodo storico. Dalle loro ricerche si ricava la grande capacità dimostrata dalle istituzioni ecclesiastiche goriziane di far convivere le diverse componenti nazionali — italiani, tedeschi, sloveni — che qui si sono sempre intrecciate. L’interetnicità e il plurilinguismo sono stati una caratteristica peculiare e costitutiva di Gorizia, una città dove i bambini imparavano senza difficoltà tre lingue — italiano, tedesco e sloveno — giocando fra loro nelle piazze e nelle strade e frequentando le scuole, fra le quali spicca il seminario maggiore, oggi sede dell’università.

E la Contea del Goriziano, nel linguaggio del tempo, era “patria” — ricavo il giudizio dal libro di Sergio Tavano sulla Diocesi di Gorizia — in senso addirittura più pregnante di quanto non lo fossero le nazionalità emergenti. Non si possono non rimarcare queste caratteristiche belle e positive della città e della diocesi di Gorizia, che ne qualificano l’identità e la specificità, anche nei confronti di città o di aree confinanti. Anche qui si fecero sentire le spinte irredentiste, ma non con la forza che esse ebbero in altre città del Litorale. Per questo Vienna elevò all’episcopato numerosi sacerdoti goriziani, giudicandoli più duttili e capaci di altri nel contenimento delle spinte centrifughe.

Per un secolo e mezzo questa diocesi, con alterne vicende, anche territoriali, visse al di fuori degli stimoli liberali e separatisti, che invece divennero il comune sentire del confinante Regno d’Italia, coperta dall’ombrello rassicurante della Chiesa di Stato asburgica, una monarchia plurietnica e plurilinguistica che comprendeva popoli, lingue e religioni indipendentemente dalla loro appartenenza nazionale. E in questo contesto, al quale oggi possiamo ripensare con giudizio più equo ed equilibrato di quanto non si facesse nel secolo scorso, e forse anche con qualche motivata nostalgia, fiorirono anche un solido movimento sociale e molte iniziative volte al miglioramento delle condizioni di vita della gente meno abbiente. Il cattolicesimo sociale isontino, tanto di parte slovena quanto di parte italiana, costituisce un capitolo importante e luminoso di queste terre.

L’annessione all’Italia, dopo la fine della Prima guerra mondiale, ruppe all’improvviso questo equilibrio, trasferendo il Goriziano dal mondo asburgico a quello italiano, con la conseguente irruzione di un nazionalismo divisivo ed escludente. Come ha scritto Vittorio Peri, compianto scriptor della Biblioteca vaticana, originario di Gorizia, «la nuova ideologia nazionalistica proclamava la coincidenza tra i confini politici e quelli etnico-politici di ogni stato, dichiarando minoranze da snazionalizzare o da espellere le popolazioni alloglotte tradizionalmente presenti nei nuovi confini».

La fine della guerra proiettò, dunque, questa diocesi verso un mondo nuovo, verso inediti problemi ideologici, provocando artificiali divisioni territoriali e trasformandola da Chiesa di Stato di un Impero plurinazionale, in una periferica Chiesa di confine di uno Stato laico e nazionalista. Le traversie del vescovo Sedej, come quelle del vescovo triestino Luigi Fogar, sono note e vanno oltre il periodo qui in esame, ma i loro ammonimenti contro le derive del nazionalismo, o di un nazionalismo esagerato ed esasperato, non hanno perduto nulla della loro attualità e meritano tutta la nostra attenzione, in questa Europa del terzo millennio nella quale tali sentimenti, che speravamo definitivamente superati, sembrano purtroppo riemergere.

[...]