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PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA

ISPIRAZIONE E VERITÀ DELLA SACRA SCRITTURA

 

La Parola che viene da Dio e parla di Dio per salvare il mondo

 

INDICE

 

Prefazione

Introduzione Generale

1. La liturgia della Parola e il suo contesto eucaristico
2. Il contesto dello studio dell’ispirazione e della verità della Bibbia
3. Le tre parti del documento

Prima Parte: La testimonianza degli scritti biblici sulla loro provenienza da Dio

1. Introduzione

1.1.  Rivelazione e ispirazione nella Dei Verbum e nella Verbum Domini
1.2.  Gli scritti biblici e la loro provenienza da Dio
1.3. Gli scritti del Nuovo Testamento e il loro rapporto con Gesù
1.4. Criteri per la verifica del rapporto con Dio negli scritti biblici

2. La testimonianza di scritti scelti dell’Antico Testamento

2.1. Il Pentateuco
2.2. I libri profetici e i libri storici
2.2.1. I libri profetici
2.2.2. I libri storici
2.3. I Salmi
2.4. Il libro del Siracide
2.5. Conclusione

3. La testimonianza di scritti scelti del Nuovo Testamento

3.1. I quattro Vangeli
3.2. I Vangeli sinottici
3.3. Il Vangelo di Giovanni
3.4. Gli Atti degli Apostoli
3.5. Le lettere dell’Apostolo Paolo
3.6. La lettera agli Ebrei
3.7. L’Apocalisse

4. Conclusione

4.1. Uno sguardo complessivo sul rapporto ‘Dio – autore umano’
4.2. Gli scritti del Nuovo Testamento attestano l’ispirazione dell’Antico Testamento e danno una interpretazione cristologica 
4.3. Il processo della formazione letteraria degli scritti biblici e l’ispirazione
4.4. In cammino verso un Canone di due testamenti
4.5. La ricezione dei libri biblici e la formazione del Canone

Seconda Parte: La testimonianza dei libri biblici sulla loro verità

1. Introduzione

1.1. La verità biblica secondo la Dei Verbum
1.2. Il centro del nostro studio sulla verità biblica

2. La testimonianza di scritti scelti dell’Antico Testamento

2.1. I racconti della creazione (Genesi 1-2)
2.2. I decaloghi (Es 20,2-17 e Dt 5,6-21)
2.3. I libri storici
2.4. I libri profetici
2.5. I Salmi
2.6. Il Cantico dei Cantici
2.7. I libri sapienziali
2.7.1. Il libro della Sapienza e il Siracide: la filantropia di Dio
2.7.2. Il libro di Giobbe e il libro di Qoèlet: la imperscrutabilità di Dio

3. La testimonianza di scritti scelti del Nuovo Testamento

3.1. I Vangeli
3.2. I Vangeli sinottici
3.3. Il Vangelo di Giovanni
3.4. Le lettere dell’Apostolo Paolo
3.5. L’Apocalisse

4. Conclusione

Terza Parte: L’interpretazione della Parola di Dio e le sue sfide

1. Introduzione

2. Prima sfida: Problemi storici

2.1. Il ciclo di Abramo (Genesi)
2.2. Il passaggio del mare (Esodo 14)
2.3. I libri di Tobia e di Giona
2.3.1. Il libro di Tobia
2.3.2. Il libro di Giona
2.4. I vangeli dell’infanzia
2.5. I racconti di miracoli
2.6. I racconti pasquali

3. Seconda sfida: Problemi etici e sociali

3.1. La violenza nella Bibbia
3.1.1. La violenza e i suoi rimedi legali
3.1.2. La legge dello sterminio
3.1.3. La preghiera che chiede vendetta

3.2. Lo statuto sociale delle donne

4. Conclusione

Conclusione Generale

 
 

PREFAZIONE

La vita della Chiesa si fonda sulla Parola di Dio. Essa viene tramandata nella Sacra Scrittura, ossia negli scritti dell’Antico e del Nuovo Testamento.  Secondo la fede della Chiesa, tutti questi scritti sono ispirati, hanno Dio per autore, il quale si è servito di uomini da lui scelti per la loro stesura. A causa della loro ispirazione divina, i libri biblici comunicano la verità. Tutto il loro valore per la vita e la missione della Chiesa dipende dalla loro ispirazione e dalla loro verità. Scritti che non provengono da Dio non possono comunicare la Parola di Dio e scritti che non sono veri non possono fondare e animare la vita e la missione della Chiesa. Tuttavia la verità presente nei testi sacri non sempre è facilmente riconoscibile. Talvolta vi sono, almeno apparentemente, dei contrasti fra ciò che si legge nei racconti biblici e i risultati delle scienze naturali e storiche. Queste sembrano contraddire ciò che affermano gli scritti biblici e metterne in dubbio la verità. È ovvio che questa situazione coinvolge anche l’ispirazione biblica: se ciò che viene comunicato nella Bibbia non è vero, come può avere Dio per autore? A partire da questi interrogativi la Pontificia Commissione Biblica si è sforzata di indagare sul rapporto che esiste tra ispirazione e verità e di verificare in quale modo gli stessi scritti biblici trattano questi concetti. Si deve anzitutto constatare che raramente gli scritti sacri parlano direttamente di ispirazione (cf. 2Tm 3,16; 2Pt 1,20-21), ma mostrano continuamente il rapporto tra i loro autori umani e Dio ed esprimono in tal modo la loro provenienza da Dio. Nell’Antico Testamento questo rapporto che lega l’autore umano a Dio e viceversa viene attestato in forme e caratteristiche diverse. Nel Nuovo Testamento ogni rapporto con Dio viene mediato dalla  persona di Gesù, Messia e Figlio di Dio. Egli, Parola di Dio che si è resa visibile (cf. Gv 1,1.14), è il mediatore di tutto ciò che proviene da Dio.

Nella Bibbia si incontrano molti e diversi argomenti. Un’attenta lettura mostra però che il principale e dominante argomento è Dio e il suo piano salvifico per gli esseri umani. La verità che troviamo nella Sacra Scrittura riguarda essenzialmente Dio e il suo rapporto con le creature. Nel Nuovo Testamento la più alta definizione di questo legame si trova nelle parole di Gesù: «Io sono la via, la verità e la vita; nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (Gv 14,6). Essendo la Parola di Dio incarnata (cf. Gv 1,14), Gesù Cristo è la perfetta verità su Dio, rivela Dio come Padre e offre l’accesso a lui, fonte di ogni vita. Le altre definizioni su Dio che si trovano negli scritti biblici sono orientate verso questa Parola di Dio che si è fatta uomo in Gesù Cristo, il quale ne diventa la chiave di interpretazione.


Dopo aver trattato il concetto di ispirazione nelle testimonianze dei libri biblici, il rapporto fra Dio e gli autori umani e qual è la verità che tali scritti ci consegnano, la riflessione della Commissione Biblica si è soffermata a esaminare alcune difficoltà che sembrano problematiche dal punto di vista storico o etico-sociale. Per rispondere a questi interrogativi è necessario leggere e comprendere in maniera adeguata i testi che pongono difficoltà, tenendo conto dei risultati delle scienze moderne e al contempo del loro argomento principale, ossia Dio e il suo piano salvifico. Tale approccio mostra come i dubbi che si sollevano contro la verità e la provenienza da Dio possono essere spiegati e superati.

Il presente documento della Commissione Biblica non costituisce una dichiarazione ufficiale del Magistero della Chiesa sull’argomento, né intende esporre una dottrina completa sull’ispirazione e sulla verità della Sacra Scrittura, ma soltanto riportare i risultati di un attento studio esegetico dei testi biblici circa la loro provenienza da Dio e la loro verità. Le conclusioni vengono ora offerte alle altre discipline teologiche per essere completate e approfondite secondo i propri punti di vista.

Ringrazio i membri della Commissione Biblica per il loro paziente e competente impegno, esprimendo l’augurio che il loro lavoro contribuisca in tutta la Chiesa a un ascolto sempre più attento, grato e gioioso della Sacra Scrittura come Parola che viene da Dio e parla di Dio per la vita del mondo.

22 febbraio 2014, Cattedra di San Pietro

Gerhard Card. Müller, Presidente

 

   

“Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme a chi semina e il pane a chi mangia, così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata.” (Is 55,10-11)

“Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri nei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi nel Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo.” (Eb 1,1-2 )

 INTRODUZIONE GENERALE

1. Al Sinodo dei Vescovi del 2008 era stato assegnato il tema La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa. Il Santo Padre Benedetto XVI nella sua Esortazione Apostolica Postsinodale Verbum Domini riprende e approfondisce le tematiche del Sinodo. In particolare sottolinea: “Certamente la riflessione teologica ha sempre considerato ispirazione e verità come due concetti chiave per un’ermeneutica ecclesiale delle sacre Scritture. Tuttavia, si deve riconoscere l’odierna necessità di un approfondimento adeguato di queste realtà, così da poter rispondere meglio alle esigenze riguardanti l’interpretazione dei testi sacri secondo la loro natura. In tale prospettiva formulo il vivo auspicio che la ricerca in questo campo possa progredire e porti frutto per la scienza biblica e per la vita spirituale dei fedeli.” (n. 19). Rispondendo all’auspicio del Santo Padre, la Pontificia Commissione Biblica intende dare un contributo per una più adeguata comprensione dei concetti di ispirazione e verità, nella piena consapevolezza che ciò corrisponde in modo eminente alla natura della Bibbia e al suo significato per la vita della Chiesa.

 L’assemblea liturgica è il luogo più significativo e solenne per la proclamazione della Parola di Dio, ed è quello in cui tutti i fedeli incontrano la Bibbia. Nel culto eucaristico – che consiste in due parti principali: la liturgia della Parola e la liturgia eucaristica (cf. Sacrosanctum Concilium, n. 56) – la Chiesa celebra «il mistero pasquale leggendo “in tutte le Scritture ciò che lo riguardava” (Lc 24,27), celebrando l’eucaristia, nella quale “vengono resi presenti la vittoria e il trionfo della sua morte”, e rendendo grazie “a Dio per il suo dono ineffabile” (2 Cor 9,15) nel Cristo Gesù, “a lode della sua gloria” (Ef 1,12), per virtù dello Spirito Santo» (Sacrosanctum Concilium, n. 6).

 La presenza di Gesù, rivelatore di Dio Padre, nella sua parola e nella sua opera salvifica, e l’unione della comunità dei fedeli con lui sono al centro di questa assemblea. Rendere presente Gesù in mezzo alla comunità dei credenti e favorire l’incontro e l’unione con lui e con Dio Padre è lo scopo dell’intera celebrazione. Cristo nel suo mistero pasquale viene proclamato nella lettura della Parola di Dio e viene celebrato nella liturgia eucaristica.

1. La liturgia della Parola e il suo contesto eucaristico

2. Ogni settimana la domenica, cioè nel giorno del Signore che la Chiesa considera come «la festa primordiale» (Sacrosanctum Concilium, n. 106), viene celebrata, con particolare gioia e solennità, la risurrezione di Cristo. In questo giorno in cui «la mensa della parola di Dio [deve essere] preparata ai fedeli con maggiore abbondanza» (Sacrosanctum Concilium, n. 51), si cantano diversi versetti dei salmi e vengono proclamati tre brani biblici, di solito tratti uno dall’Antico Testamento, uno dagli scritti non evangelici del Nuovo Testamento, e uno dai quattro Vangeli. Dopo la lettura di ciascuno dei due primi brani il lettore dice: «Parola di Dio», e i fedeli rispondono: «Rendiamo grazie a Dio». Al termine della proclamazione del Vangelo il diacono o il sacerdote acclama: «Parola del Signore», e il popolo risponde: «Lode a te, o Cristo». In questo breve dialogo sono messe in rilievo due caratteristiche della lettura e dell’ascolto. Il lettore sottolinea l’importanza del suo atto, e richiama gli ascoltatori a essere pienamente consapevoli del fatto che ciò che è stato loro comunicato è veramente la Parola di Dio o, più specificatamente, la Parola del Signore (Gesù), il quale è nella sua stessa persona la Parola di Dio (cf. Gv 1,1-2). I fedeli, da parte loro, esprimono l’atteggiamento di umile riverenza con cui accolgono la Parola che Dio rivolge loro: pieni di riconoscenza, ascoltano con lode e giubilo la Buona Notizia del Signore Gesù.

 Sebbene queste caratteristiche non si realizzino sempre in maniera perfetta, la liturgia della Parola costituisce un luogo privilegiato di comunicazione: Dio nella sua benevolenza si rivolge con parole umane al suo popolo, e questi accoglie con gratitudine e lode la Parola di Dio. Nella liturgia della Parola e massimamente nella liturgia eucaristica si celebra il mistero pasquale di Cristo, culmine e compimento della comunicazione di Dio con l’umanità. In essa si realizza la redenzione degli esseri umani e, nello stesso tempo, la più alta e perfetta glorificazione di Dio. La celebrazione non è una formalità rituale, poiché ha l’obiettivo di far sì che i fedeli «imparino ad offrire se stessi e, di giorno in giorno, per mezzo di Cristo mediatore, siano perfezionati nell’unità con Dio e tra di loro, di modo che Dio sia finalmente tutto in tutti» (Sacrosanctum Concilium, n. 48). Il fatto che Dio rivolga la sua parola agli uomini nella storia della salvezza e che mandi suo Figlio, che è la sua Parola incarnata (Gv 1,14), ha quest’unico scopo di offrire agli uomini l’unione con Lui.

2. Il contesto dello studio dell’ispirazione e della verità della Bibbia

3. Sulla base di quanto abbiamo finora enunciato sulla Parola di Dio nella liturgia della Parola e in connessione con la celebrazione eucaristica, possiamo dire che noi la ascoltiamo in un contesto teologico, cristologico, soteriologico ed ecclesiologico. Dio offre la salvezza, in modo definitivo e perfetto nel suo Cristo, operando la comunione tra Sé e le sue creature umane, che vengono rappresentate dalla sua Chiesa. Questo luogo, che è il più appropriato per la proclamazione della Sacra Scrittura, costituisce anche il contesto più adeguato per studiarne l’ispirazione e la verità. Come abbiamo detto, dopo la proclamazione dei brani biblici si afferma sempre che sono «Parola di Dio» (o «Parola del Signore»). Questa affermazione può essere compresa in un duplice senso: innanzitutto come parola che proviene da Dio, ma anche come parola che parla di Dio. Questi due significati sono intimamente connessi tra loro. Solo Dio conosce Dio; di conseguenza, solo Dio può parlare di Dio in un modo adeguato e affidabile. Perciò soltanto una parola che proviene da Dio può parlare giustamente di Dio. L’affermazione «Parola di Dio» invita i fedeli a essere consapevoli di che cosa stanno ascoltando e a prestarvi un’attenzione proporzionata. Essi devono avere la riverenza e la gratitudine che sono dovute alla Parola che proviene da Dio, e devono essere attenti per intendere e comprendere che cosa questa Parola comunica su Dio, e così entrare in una unione sempre più viva con Lui.

Il nostro scritto, che ha per tema «l’Ispirazione e la Verità della Sacra Scrittura» svilupperà questi due aspetti. Quando si dichiara l’ispirazione della Bibbia, si afferma che tutti i suoi libri «hanno Dio per autore e come tali sono stati consegnati alla Chiesa» (Dei Verbum, n. 11). Indagando l’ispirazione della Bibbia, ci impegniamo allora a verificare che cosa gli stessi scritti biblici dicono sulla loro provenienza da Dio. Per quanto riguarda poi la verità della Bibbia, dobbiamo tener presente innanzitutto il fatto che, pur avendo molti e diversi argomenti, essa ha in realtà un assunto primario e centrale: Dio stesso e la salvezza. Ci sono tante altre fonti documentarie e tante altre scienze per attingere informazioni affidabili su questioni di ogni genere; la Bibbia – in quanto Parola di Dio – è la fonte autorevole per conoscere Dio. Per la Costituzione dogmatica Dei Verbum del Concilio Vaticano II, Dio stesso e il suo progetto di salvezza per gli uomini sono il contenuto per antonomasia della sua rivelazione. In questo testo conciliare si dice infatti, fin dal primo capitolo: «Piacque a Dio, nella sua bontà e sapienza, rivelare se stesso e far conoscere il mistero della sua volontà (cf. Ef 1,9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della natura divina (cf. Ef 2,18; 2 Pt 1,4)» (Dei Verbum, n. 2). La Bibbia è al servizio della trasmissione della rivelazione (cf. Dei Verbum, nn. 7-10). Perciò, studiando la verità della Bibbia, concentreremo la nostra attenzione su questo preciso motivo: che cosa comunicano i diversi scritti biblici su Dio e sul suo progetto di salvezza?

3. Le tre parti del documento

4. La prima parte del nostro documento si occupa dell’ispirazione della Sacra Scrittura indagandone la provenienza da Dio, mentre la seconda parte studia la verità della Parola di Dio, mettendo in risalto il messaggio su Dio e sul suo progetto di salvezza. Desideriamo, da un lato, che aumenti la consapevolezza che questa Parola proviene da Dio e, dall’altro, che l’attenzione degli ascoltatori e dei lettori della Bibbia si concentri su ciò che Dio da parte sua vuole comunicarci su se stesso e sul suo disegno salvifico a favore degli uomini. Con lo stesso atteggiamento con cui celebriamo il mistero pasquale di Cristo quale mistero di Dio e della nostra salvezza, siamo invitati ad accogliere la Parola che Dio, pieno di amore e di benevolenza, ci rivolge. Lo scopo è di accogliere, in comunione con gli altri credenti, il dono di poter ascoltare e di poter comprendere ciò che Egli comunica su di sé, così da rinnovare e approfondire il rapporto personale con Lui.

La terza parte del documento si occupa poi di alcune sfide che provengono dalla stessa Bibbia, a motivo di certi aspetti che sembrano smentire la sua qualità di Parola di Dio. Segnaliamo qui in particolare due sfide poste al lettore. La prima viene dall’enorme progresso, negli ultimi due secoli, delle conoscenze riguardanti la storia, la cultura e le lingue dei popoli del Vicino Oriente Antico, che costituiva l’ambiente di Israele e delle sue sacre Scritture. Non raramente si presentano forti contrasti fra i dati di queste scienze e quanto possiamo ricavare dal racconto biblico, se letto secondo il modello di una cronaca che dovrebbe riferire puntualmente gli avvenimenti, persino in un ordine scrupolosamente cronologico. Questi contrasti costituiscono una prima difficoltà e suscitano l’interrogativo se il lettore possa fidarsi della verità storica dei racconti biblici. Un’altra sfida è causata dal fatto che non pochi testi biblici risultano pieni di violenza. Possiamo citare, come esempio, i salmi imprecatori e anche l’ordine impartito da Dio a Israele di sterminare intere popolazioni. I lettori cristiani sono infastiditi e disorientati da tali testi. E ci sono inoltre lettori non-cristiani che rinfacciano ai cristiani di avere nei loro testi sacri brani terribili, e li accusano di professare e diffondere una religione ispiratrice di violenza. La terza parte del documento vuole affrontare queste e altre sfide interpretative, mostrando, da un lato, come superare il fondamentalismo (cf. PCB, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, LEV, Città del Vaticano 1993, I.F.; cf. EB 1381-1390), e, d’altro lato, come evitare lo scetticismo. Togliendo questi ostacoli, si spera che venga liberato l’accesso per una recezione matura e adeguata della Parola di Dio.

Questo testo intende dunque dare un contributo perché, mediante un’approfondita comprensione dei concetti di ispirazione e verità, la Parola di Dio venga accolta da tutti, nell’assemblea liturgica e in ogni altro luogo, in un modo sempre più conforme a questo singolare dono di Dio, nel quale Egli comunica Sé stesso e invita gli uomini alla comunione con Lui.

 

PRIMA PARTE

LA TESTIMONIANZA DEGLI SCRTTI BIBLICI
SULLA LORO PROVENIENZA DA DIO

1. Introduzione

5. In un primo paragrafo esaminiamo come la Costituzione dogmatica Dei Verbum del Concilio Vaticano II e l’esortazione apostolica postsinodale Verbum Domini intendano la rivelazione e l’ispirazione, le due azioni divine che sono fondamentali per qualificare la Sacra Scrittura come Parola di Dio. Mostriamo poi come gli scritti biblici manifestano la loro provenienza da Dio; per il Nuovo Testamento abbiamo la specificità che non c’è rapporto con Dio se non per mezzo di Gesù. Concluderemo con una riflessione sui criteri pertinenti per indagare la testimonianza degli scritti biblici riguardo alla loro provenienza da Dio.

1. 1. Rivelazione e ispirazione nella Dei Verbum e nella Verbum Domini

Sulla rivelazione la Dei Verbum [DV] dice: «Piacque a Dio, nella sua bontà e sapienza, rivelare se stesso e far conoscere il mistero della sua volontà (cf. Ef 1,9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della natura divina (cf. Ef 2,18; 2 Pt 1,4)» (n. 2). Dio si rivela in una «economia della rivelazione» (cf. DV, n. 2). Egli si manifesta nella creazione: «Dio, il quale tutto crea e conserva per mezzo del Verbo (cf. Gv 1,3), nelle cose create offre agli uomini una perenne testimonianza di sé (cf. Rm 1,19-20)» (DV, n. 3; cf. Verbum Domini [VD], n. 8). Dio si rivela specialmente nell’uomo, creato «a sua immagine» (Gen 1,27; cf. VD, n. 9). La rivelazione avviene poi, «con eventi e parole tra loro intimamente connessi» (DV, n. 2), nella storia della salvezza del popolo d’Israele (DV, nn. 3.14-16), e raggiunge il suo culmine «in Cristo, il quale nello stesso tempo è il mediatore e la pienezza dell’intera rivelazione» (DV, n. 2; cf. DV, nn. 4.17-20). Parlando della sua dimensione trinitaria Verbum Domini, n. 20 dice: «Il culmine della rivelazione di Dio Padre è offerto dal Figlio con il dono del Paraclito (cf. Gv 14,16), Spirito del Padre e del Figlio, che ci “guida a tutta la verità” (Gv 16,13)».

L’ispirazione riguarda propriamente i libri della Sacra Scrittura. La Dei Verbum – che chiama Dio «ispiratore e autore dei libri dell’uno e dell’altro Testamento» (n. 16) – afferma in maniera più dettagliata: «Per comporre i libri sacri, Dio scelse alcuni uomini, e si servì di loro nel possesso delle loro facoltà e capacità, affinché, agendo egli in essi e per loro mezzo, scrivessero come veri autori tutte e soltanto quelle cose che egli voleva» (n. 11). L’ispirazione come attività di Dio riguarda dunque direttamente gli autori umani: sono questi ad essere personalmente ispirati. Ma anche gli scritti da loro composti vengono poi chiamati ispirati (DV, nn. 11.14).

1.2. Gli scritti biblici e la loro provenienza da Dio

6. Abbiamo visto che Dio è l’unico autore della rivelazione e che i libri della Sacra Scrittura, che servono alla trasmissione della rivelazione divina, sono ispirati da Lui. Dio è “autore” di questi libri (DV, n. 16), ma attraverso uomini che Egli ha scelto. Questi non scrivono sotto dettatura, ma sono “veri autori” (DV, n. 11) che adoperano le loro proprie facoltà e capacità. La Dei Verbum, n. 11 non specifica nei particolari quale sia questo rapporto fra gli uomini e Dio, anche se nelle sue note (18-20) rinvia a una spiegazione tradizionale basata sulla causalità principale e strumentale.

Rivolgendoci ai libri biblici e indagando cosa essi stessi dicono sulla loro ispirazione, constatiamo che nella Bibbia soltanto due scritti del Nuovo Testamento parlano esplicitamente della ispirazione divina, e la affermano per degli scritti dell’Antico Testamento. In 2 Tm 3,16 si dice: “Tutta la Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia”. E 2 Pt 1,20-21 afferma: “Sappiate anzitutto questo: nessuna scrittura profetica va soggetta a privata spiegazione, poiché non da volontà umana è mai venuta una profezia, ma mossi da Spirito Santo parlarono alcuni uomini da parte di Dio.” La rara ricorrenza del termine “ispirazione” comporta che noi non possiamo limitare le nostre ricerche a un campo semantico così ristretto.

Studiando però da vicino i testi biblici, constatiamo, come un fatto rilevante, che in essi viene costantemente esplicitato il rapporto tra i loro autori e Dio. Ciò si realizza in diversi modi, ogni capace di far trasparire come i rispettivi scritti provengono da Dio. Sarà compito delle nostre indagini individuare nei testi della Sacra Scrittura gli indizi del rapporto tra autori umani e Dio, mostrando così la provenienza divina di questi libri, in altri termini la loro ispirazione. Intendiamo presentare una specie di fenomenologia del rapporto “Dio – autore umano”, secondo le modalità con cui questo rapporto viene attestato nelle pagine bibliche, sottolineando così la loro qualità di Parola che proviene da Dio. In questo documento la PCB non intende dunque dimostrare il fatto dell’ispirazione degli scritti biblici, compito questo della teologia fondamentale. Partiamo infatti dalla verità di fede secondo la quale i libri della Sacra Scrittura sono ispirati da Dio e comunicano la sua Parola; il nostro apporto sarà solo quello di chiarire meglio la loro natura, così come risulta dalla testimonianza degli stessi scritti.

Possiamo chiamare “testimonianza su se stessi” quel particolare fenomeno dei libri biblici che attestano il rapporto dei loro autori con Dio e la loro provenienza da Dio. Questa specifica testimonianza sarà al centro delle nostre indagini.

7. I documenti ecclesiali che abbiamo più volte citato (Dei Verbum e Verbum Domini) distinguono tra “rivelazione” e “ispirazione”, come due distinte azioni divine. “La rivelazione” appare come l’atto fondamentale di Dio mediante il quale, Egli comunica chi sia e quale sia il mistero della sua volontà (cf. DV, n. 2), rendendo, al contempo, l’uomo capace di ricevere la rivelazione. “L’ispirazione” appare invece come l’azione mediante la quale Dio abilita certi uomini, da lui scelti, a trasmettere fedelmente per iscritto la sua rivelazione (cf. DV, n. 11). L’ispirazione presuppone la rivelazione ed è al servizio della fedele trasmissione della rivelazione negli scritti della Bibbia.

Dalla testimonianza degli scritti biblici possiamo ricavare solo pochi indizi riguardanti lo specifico rapporto tra l’autore umano e Dio a proposito dell’attività dello scrivere. Perciò la fenomenologia che ci accingiamo a presentare, concernente sia la relazione tra l’autore umano e Dio, sia la provenienza divina dei testi scritti, costituisce un quadro assai generale e variegato. Vedremo che il concetto specifico di ispirazione quasi mai viene esplicitato nelle Scritture, e neppure vi riceve una dilucidazione concettuale. E questo è dovuto alla natura propria della testimonianza dei vari libri biblici: infatti, se, da un lato, i testi puntualizzano costantemente la provenienza divina del loro contenuto e messaggio, dall’altro essi poco o nulla dicono sul modo con cui furono scritti o su se stessi in quanto documenti scritti. Di conseguenza, il concetto ampio di rivelazione e quello più specifico della sua attestazione scritta (ispirazione) sono visti come un unico processo. Spessissimo se ne parla in modo che con l’uno si intenda anche l’altro. Tuttavia, per il semplice fatto che le dichiarazioni da noi citate provengano dai testi scritti, diventa palese che i loro autori implicitamente affermano che il loro testo costituisce l’espressione finale e il deposito stabile degli atti rivelatori di Dio.

1.3. Gli scritti del Nuovo Testamento e il loro rapporto con Gesù

8. Per quanto riguarda gli scritti del Nuovo Testamento, constatiamo una situazione specifica: essi manifestano un rapporto dei loro autori con Dio solo mediante la persona di Gesù. La causa di questo fenomeno la esprime Gesù stesso in modo molto preciso: «Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me» (Gv 14,6), affermazione questa che si basa sulla conoscenza singolare che il Figlio ha del Padre (cf. Mt 11,27; Lc 10,22; Gv 1,18).

Significativo e istruttivo è il comportamento di Gesù nei confronti dei suoi discepoli. I vangeli illustrano la formazione che egli impartisce loro e nella quale si manifesta in modo paradigmatico quale rapporto con Gesù e con Dio sia essenziale per far diventare le parole di un apostolo o lo scritto di un evangelista «Parola di Dio». Secondo le nostre fonti, Gesù stesso non ha scritto nulla, e non ha dettato nulla ai suoi discepoli. Ciò che Egli ha fatto, lo si può riassumere in questo modo: ha chiamato alcuni uomini a seguirlo, a condividere la sua vita, ad assistere alla sua attività, ad acquistare una conoscenza sempre più profonda della sua persona, a crescere nella fede in lui e nella comunione di vita con lui. Questo è il dono che Gesù ha fatto ai discepoli, il suo modo di prepararli a essere i suoi apostoli che annunciano il suo messaggio; la loro parola è tale che Gesù caratterizza i futuri cristiani come «quelli che crederanno in me mediante la loro parola» (Gv 17,20). Ed Egli dice ai suoi missionari: “Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me. E chi disprezza me disprezza Colui che mi ha mandato” (Lc 10,16 cf. Gv 15,20). La parola dei suoi inviati può essere il fondamento della fede di tutti i cristiani soltanto perché, provenendo dalla più intima unione con Gesù, è la parola di Gesù. Il rapporto personale con il Signore Gesù, vissuto con una fede viva e consapevole nella sua Persona, costituisce il fondamento basilare di questa “ispirazione” che rende gli apostoli capaci di comunicare, oralmente o per iscritto, il messaggio di Gesù, che è la «Parola di Dio». Decisiva non è la comunicazione di parole letteralmente pronunciate da Gesù, ma l’annuncio del suo Vangelo. Un esempio tipico di questo fatto è il Vangelo di Giovanni del quale si dice che ogni parola manifesta lo stile di Giovanni e nello stesso tempo comunica fedelmente quanto Gesù ha detto.

9. Si delinea qui, proprio sulla base del Vangelo di Giovanni, un’intima connessione fra la natura del rapporto con Gesù e con Dio (“ispirazione”) e il contenuto del messaggio che viene comunicato come Parola di Dio (“verità”). Il messaggio centrale di Gesù secondo il Vangelo di Giovanni è: Dio Padre e il suo amore sconfinato per il mondo, rivelato nel suo Figlio (cf. Gv 3,16), e ciò corrisponde a Dei Verbum, n. 2: Dio e la sua salvezza. Questo messaggio non può essere ricevuto e compreso con un approccio conoscitivo solo intellettuale o puramente mnemonico, ma soltanto in un rapporto intensamente vivo e personale, cioè secondo quella medesima relazione con la quale Gesù ha formato i suoi discepoli. Si può sempre parlare in modo formale e corretto di Dio e del suo amore, ma soltanto nella viva fede in Lui e nel suo amore si può ricevere il dono di Dio e se ne può dare testimonianza. Constatiamo dunque che il messaggio centrale (“verità”) e il modo di riceverlo per attestarlo (“ispirazione”) si condizionano a vicenda: si tratta sempre della più intensa e personale comunione di vita con il Padre, rivelata da Gesù: comunione di vita, che è la salvezza.

1.4. Criteri per la verifica del rapporto con Dio negli scritti biblici

10. Secondo quanto abbiamo ricavato dai vangeli, la fede viva in Gesù, Figlio di Dio, è la finalità principale della formazione impartita da Gesù ai suoi discepoli, e in essa si esprime il loro rapporto fondamentale con Gesù e con Dio. Questa fede è un dono dello Spirito Santo (cf. Gv 3,5; 16,13) e viene vissuta in una unione intima, consapevole e personale, con il Padre e con il Figlio (cf. Gv 17,20-23). Mediante questa fede i discepoli sono collegati con la persona di Gesù che è “il mediatore e la pienezza dell’intera rivelazione” (Dei Verbum, n. 2) e ricevono da lui i contenuti della loro testimonianza apostolica, nella sua espressione sia orale che scritta. Poiché proviene da Gesù, Parola di Dio, tale testimonianza non può che essere Parola che proviene da Dio. Il rapporto personale di fede (1) con la fonte mediante la quale Dio si rivela (2) sono i due elementi decisivi per far sì che le parole e le opere degli apostoli provengono da Dio.

Gesù è “il culmine della rivelazione di Dio Padre” (Verbum Domini, n. 20), culmine preceduto da una ricca “economia” della rivelazione divina. Come abbiamo già indicato, Dio si rivela nella creazione (DV, n. 3) e specialmente nell’uomo creato “a sua immagine” (Gen 1,27). Si rivela soprattutto nella storia del popolo d’Israele “con eventi e parole tra loro intimamente connessi” (DV, n. 2). Si delineano in questo modo diverse forme della rivelazione di Dio che raggiunge la sua pienezza e il suo culmine nella persona di Gesù (Eb 1,1-2).

Nel caso dei vangeli (e più in generale per gli scritti apostolici) i due elementi decisivi per la provenienza da Dio sono: la viva fede in Gesù (1), e la persona di Gesù che è il culmine della rivelazione divina (2). Nel nostro studio riguardante la provenienza da Dio degli altri scritti biblici serviranno da verifica questi due criteri: quale fede personale in Dio (secondo la specifica fase dell’”economia” di rivelazione) e quale forma della sua rivelazione si manifestano nei diversi scritti? Il rispettivo scritto biblico proviene da Dio mediante la viva fede del suo autore in Dio e mediante il rapporto di questo autore con una determinata forma (o con diverse forme) della rivelazione divina. Non è raro il caso che uno scritto biblico si appoggi su un testo ispirato anteriore e partecipi in questo modo della medesima provenienza da Dio.

Con questi criteri si può utilmente indagare la testimonianza dei diversi scritti biblici e si può vedere come, ad esempio, testi legali, detti sapienziali, oracoli profetici, preghiere di ogni tipo, ammonizioni apostoliche, ecc. provengono da Dio, come Dio dunque, mediante gli autori umani, ne è l’autore. Appare che, secondo i casi, la modalità concreta della provenienza da Dio sia diversa, e non possa paragonarsi a un semplice e uniforme dettato divino. Ciò che tuttavia è costantemente attestato è la personale fede in Dio dell’autore umano e la sua obbedienza alle diverse forme della rivelazione divina.

Così, studiando gli scritti biblici stessi e indagando la loro testimonianza sul rapporto dei loro autori con Dio, cerchiamo di mostrare più concretamente in che modo si presenta l’ispirazione come rapporto fra Dio, ispiratore e autore, e gli uomini, veri autori scelti da lui.

2. La testimonianza di scritti scelti dell’Antico Testamento

11. Abbiamo selezionato alcuni libri rappresentativi dell’Antico e del Nuovo Testamento per illustrare come nei testi stessi venga espressa la loro provenienza da Dio. Per l’Antico Testamento seguiamo la classica ripartizione in Legge, Profeti, Scritti (cf. Lc 24,44); abbiamo perciò scelto per la nostra indagine il Pentateuco, poi i Profeti e i Libri storici (che vengono anche chiamati ‘profeti anteriori’), infine i Salmi e il libro del Siracide.

2.1. Il Pentateuco       

L’idea di un’origine divina dei testi biblici viene sviluppata nei racconti del Pentateuco sulla base del concetto dello scrivere, del fissare per iscritto. Così, in momenti particolarmente significativi, Mosè riceve da Dio l’incarico di mettere per iscritto, ad esempio, il testo del rinnovamento dell’alleanza (Es 34,27); altrove egli sembra adempiere il significato di tali istruzioni redigendo per scritto altre cose importanti (Es 17,14; Nm 33,2; Dt 31,22), fino alla stesura dell’intera Torah (cf. Dt 27,3.8; 31,9). Il libro del Deuteronomio mette in particolare valore il ruolo specifico di Mosè, presentandolo come mediatore ispirato della rivelazione e interprete autorizzato della Parola divina. A partire da ciò si è armonicamente sviluppata l’idea tradizionale che Mosè sia l’autore del Pentateuco, cosi ché i libri di Mosè non solo parlano di lui ma vengono pure ritenuti sue composizioni.

Le affermazioni centrali riguardanti il comunicarsi di Dio si trovano nei racconti dell’incontro di Israele con Dio al monte di Dio Sinai/Oreb (Es 19 - Nm 10; Dt 4ss.). Questi racconti cercano di esprimere in immagini suggestive l’idea che Dio è l’origine della testimonianza biblica. Si può quindi dire che il fondamento della comprensione della Bibbia quale Parola di Dio è stato inaugurato al Sinai, poiché lì Dio ha costituito Mosè come unico mediatore della sua rivelazione. Spetta a Mosè fissare per iscritto la rivelazione divina perché possa trasmetterla e preservarla come Parola di Dio per gli uomini di tutti i tempi. Lo scritto non solo rende possibile la trasmissione della Parola, ma suscita chiaramente anche la domanda sull’autore umano, il che conduce nel caso della Bibbia all’autocomprensione di essere Parola di Dio in parole umane. Questa idea (cf. Dei Verbum, n.12) viene espressa in nuce già in Es 19,19, ove si dice che Dio rispondeva a Mosè “con una voce”; si vede così che Dio “accondiscende” a servirsi di un linguaggio umano, anche e proprio nei confronti del mediatore della sua rivelazione.

12. L’origine divina della parola scritta è inoltre sottilmente approfondita nel racconto del Sinai. Il Decalogo in questo contesto appare essere un documento singolare e incomparabile. Può essere considerato il punto di partenza dell’idea dell’origine divina della Sacra Scrittura (ispirazione), poiché come testo solo il Decalogo è connesso con l’idea di essere stato scritto dallo stesso Dio (cf. Es 24,12; 31,18; 32,16; 34,1.28; Dt 4,13; 9,10; 10,4). Questo testo che Dio stesso ha scritto su due tavole di pietra è la base per il concetto di un’origine divina dei testi biblici, Tale concetto viene sviluppato in due direzioni dal racconto del Pentateuco. Da una parte emerge la speciale autorità che compete al Decalogo nei confronti di tutte le altre leggi e istruzioni della Bibbia, dall’altra constatiamo che il concetto di “scrittura” (intesa come messa per iscritto) è collegato in maniera speciale al mediatore della rivelazione, Mosè, cosicché più tardi “Mosè” e Pentateuco possano essere equiparati.

Riguardo al primo aspetto, quello del Decalogo scritto da Dio stesso, si deve notare che la trasmissione e la recezione di questo particolare testo si affermano nella tradizione della Sacra Scrittura indipendentemente dal suo supporto materiale, costituito dalle due tavole di pietra. Non sono le tavole sulle quali Dio ha scritto che vengano preservate e venerate, ma è il testo che Dio ha scritto a diventare parte della Sacra Scrittura (cf. Es 20; Dt 5).

I dieci comandamenti che Dio ha messo per iscritto e ha consegnato a Mosè – e qui veniamo al secondo aspetto – accennano al rapporto speciale fra Dio e l’uomo per quanto riguarda la Sacra Scrittura. Mosè infatti non viene istituito mediatore in forza di un piano divino, ma Dio cede alla preghiera degli uomini (Israele) che chiedono un mediatore. Dopo che Dio si è rivolto direttamente al popolo d’Israele (cf. Es 19), il popolo domanda a Mosè una mediazione, avendo paura dell’incontro immediato con Dio (cf. Es 20,18-21). Dio quindi cede alla volontà del popolo e istituisce Mosè mediatore, parlando con lui e comunicandogli dettagliatamente le sue istruzioni (Es 20,22–23,33). Mosè, alla fine, mette per iscritto queste parole, poiché Dio stipula mediante esse la sua alleanza con Israele (Es 24,3-8). Per confermare questo fatto, Dio promette di dare a Mosè le tavole sulle quali Dio stesso ha scritto (cf. Es 24,12). Non può essere espresso in maniera più chiara e più profonda il fatto che la sacra Scrittura, trasmessa lungo le generazioni dalla comunità di fede degli Ebrei e dei cristiani, tragga la sua origine in Dio anche e proprio nel caso in cui sia stata redatta da uomini. Questa auto-testimonianza della Sacra Scrittura raggiunge il suo compimento quando, alla fine del Pentateuco, si afferma che Mosè stesso mette per iscritto l’istruzione inculcata al popolo d’Israele prima di entrare nella terra promessa (cf. Dt 31,9), consegnandola al popolo come programma per la vita da condurvi in futuro. Solamente quando le persone umane si lasciano interpellare da questa parola della Sacra Scrittura, che è rivolta a loro, possono riconoscerla e accoglierla “non come parola di uomini, ma qual è veramente, come parola di Dio, che opera in voi credenti” (1 Ts 2,13).

2.2. I libri profetici e libri storici

13. I libri profetici e i libri storici sono, con il Pentateuco, le parti dell’Antico Testamento che insistono maggiormente sull’origine divina del loro contenuto. In generale, Dio si rivolge al suo popolo o ai suoi capi mediante degli esseri umani: Mosè, l’archetipo dei profeti (Dt 18,18-22) nel Pentateuco; i profeti, nei libri profetici e nei libri storici. Si cercherà di mostrare come i libri profetici e i libri storici affermano l’origine divina del loro contenuto.

2.2.1. I libri profetici: raccolte di ciò che il Signore ha detto al suo popolo per mezzo dei suoi messaggeri

I libri profetici si presentano come delle raccolte di ciò che il Signore ha detto al suo popolo mediante gli “autori” (presunti) che danno il nome alle raccolte. In effetti, questi libri dichiarano, con insistenza, che il Signore è l’autore del loro contenuto. E lo fanno mediante diverse espressioni che introducono o punteggiano il discorso. Queste espressioni affermano o suppongono che i libri profetici sono dei discorsi del Signore, e precisano che il Signore si indirizza al suo popolo per mezzo degli autori dei libri in questione. E infatti una buona parte dei libri profetici viene posto, formalmente, sulla bocca del Signore. Correlativamente, questi libri presentano i loro autori come persone che il Signore ha inviato con il compito di trasmettere un messaggio al suo popolo.

a. Le «formule profetiche»

I titoli di due terzi dei libri profetici affermano esplicitamente che questi sono di origine divina, servendosi della «formula dell’evento della parola del Signore». Prescindendo da differenze di dettaglio, la formula può riassumersi nell’affermazione: «la parola del Signore è venuta a …», seguita dal nome del profeta, il recettore della parola (come nei libri di Geremia, Ezechiele, Osea, Gioele, Sofonia e Zaccaria), e talvolta anche dal nome dei suoi destinatari (come in Aggeo e Malachia). Questi titoli dichiarano pure che il contenuto dei libri in questione, sia esso messo in bocca a Dio o in quella dei profeti, è interamente parola di Dio. I restanti titoli dei libri profetici informano che questi riferiscono il contenuto di visioni avute da personaggi, i cui nomi sono Isaia, Amos, Abdia, Naum e Abacuc. Il titolo del libro di Michea giustappone «la formula dell’evento della parola del Signore» alla menzione della visione. Benché non detto esplicitamente, nel contesto dei libri profetici, la causa delle visioni non può essere che il Signore stesso. Questi è dunque l’autore dei libri in questione.

I titoli non sono la sola parte dei libri profetici che li dichiara essere Parola di Dio. Le numerose «formule profetiche» che costellano il testo fanno altrettanto. L’espressione più frequente, la «formula profetica» per eccellenza, è «così dice il Signore». Aprendo il discorso con questa formula, il profeta si presenta come il messaggero del Signore. Egli informa i suoi uditori che il discorso che indirizza loro, non deriva da lui, ma ha il Signore per autore.

Senza pretendere all’esaustività, vanno segnalate altre tre formule che scandiscono i libri profetici: «oracolo del Signore», «dice il Signore/Dio» e «parla il Signore». A differenza della prima espressione, chiamata “formula del messaggero”, che introduce i discorsi, queste ultime li concludono. Fungendo da firma apposta alla fine di un testo, esse attestano che il Signore è l’autore del discorso che precede.

b. I profeti: messaggeri del Signore

14. Quattro fra i libri profetici narrano come il Signore abbia fatto sì che gli autori degli scritti divenissero Suoi messaggeri: Isaia (6,1-13), Geremia (1,4-10), Ezechiele (1,3–3,11) e Amos (7,15). I mandati di Isaia e di Ezechiele hanno per quadro una visione. Probabilmente la stessa cosa vale per Geremia. Il racconto della missione di Isaia è un buon campione del genere, perché abbastanza sviluppato, ma al tempo stesso molto succinto. Nel consiglio divino, a cui Isaia assiste in visione, il Signore, cercando un volontario, chiede: «Chi manderò? Chi andrà per noi?», e Isaia risponde: «Eccomi, manda me». Accettando l’offerta di Isaia, il Signore conclude: «Va’ e tu dirai a questo popolo …». Segue il messaggio del Signore (Is 6,8-10). Strutturato dai verbi «mandare, andare, dire», il racconto trova la sua conclusione nel discorso del Signore che Isaia ha il compito di trasmettere al popolo. La stessa cosa vale per gli altri tre «racconti di invio profetico» sopra citati, che si concludono anch’essi con l’ordine dato dal Signore al suo inviato di trasmettere il messaggio che egli comunica (Ez 2,3-4; 3,4-11; Am 7,15). Nel racconto dell’invio di Geremia il Signore insiste sul carattere perentorio del suo comando (cf. anche Am 3,8) e contemporaneamente sulla esattezza che deve contrassegnare la trasmissione del messaggio: «Ma il Signore mi disse: “Non dire: ‘sono giovane’, poiché a tutti quelli a cui ti invierò tu andrai, e tutto ciò che io ti ordinerò tu lo dirai …» (Ger 1,7; cf. 1,17; 26,2.8; Dt 18,18.20). Questi racconti fondano il ruolo di messaggeri del Signore che i libri profetici riconoscono ai loro rispettivi autori, e conseguentemente fondano pure l’origine divina del loro messaggio.

2.2.2. I libri storici: la parola del Signore ha un’efficacia infallibile, e chiama alla conversione    

a. I libri di Giosuè – Re

15. Nei libri di Giosuè, Giudici, Samuele e Re, il Signore prende frequentemente la parola, come avviene nei libri profetici, alla cui collezione appartengono anche questi libri secondo la tradizione ebraica. Infatti, a ogni tappa della conquista della Terra Promessa, il Signore dice a Giosuè ciò che deve fare. In Gs 20,1-6 e 24,2-15 Egli si rivolge al popolo per mezzo di Giosuè, il quale adempie così la funzione profetica. Nel libro dei Giudici, il Signore, o il suo Angelo, parla spesso a dei dirigenti, soprattutto a Gedeone, o al popolo. Il Signore agisce in prima persona, salvo in Gdc 4,6-7 e 6,7-9, quando si serve della profetessa Debora e di un profeta anonimo per indirizzarsi rispettivamente a Barak e a tutto il popolo.

Nei libri di Samuele e dei Re, invece, salvo rare eccezioni, il Signore si rivolge ai suoi destinatari per mezzo di personaggi profetici. Il suoi discorsi sono allora inquadrati dalle stesse espressioni che introducono o scandiscono i libri profetici. Fra i libri biblici, sono infatti quelli di Samuele e dei Re ad accordare il maggior rilievo ai profeti e alla loro attività di messaggeri del Signore. Nella gran parte degli oracoli riportati da Samuele e Re, il Signore annuncia le sventure che farà venire sui dirigenti del popolo, soprattutto sull’uno o l’altro re e la sua dinastia, o sui regni di Israele (cf. 1 Re 14,15-16) e di Giuda (cf. 2 Re 21,10-15), per il fatto che prestano culto a divinità diverse da Lui. Gli annunci divini di sventura vengono di solito seguiti dalla constatazione del loro compimento. Samuele e Re si presentano così, in buona parte, come una successione di annunci di sventura e del loro compimento. Tale successione non cessa che con la distruzione del regno di Giuda. Nell’introduzione ai racconti della conquista babilonese (597-587 a.C.), 2 Re 24,2 dichiara, infatti, che la distruzione di Giuda era opera del Signore, il quale realizzava così ciò che aveva annunciato «per mezzo dei suoi servi, i profeti». Poiché il Signore non manca di compiere ciò che annuncia, la sua parola è di una efficacia infallibile. In altre parole, il Signore è l’autore principale della storia del suo popolo; ne annuncia gli accadimenti, e li fa avvenire.

Come per i testi di cui si è parlato, così 2 Re 17,7-20 sintetizza la storia di Israele e di Giuda in una successione di discorsi che il Signore ha indirizzato loro per mezzo dei «suoi servi, i profeti». Il tenore dei discorsi è però diverso. Il Signore non annuncia delle sventure a Israele e Giuda, ma li esorta alla conversione. Poiché gli interessati si sono ostinati nel loro rifiuto agli appelli del Signore (vv. 13-14), Egli finisce per rigettarli lontano dal suo volto.

b. I libri delle Cronache

16. Come in Giosuè – Re, anche nelle Cronache abbondano i discorsi del Signore. Egli parla direttamente a Salomone (2 Cr 1,7.11-12; 7,12-22). In genere, il Signore si rivolge al re o al popolo per mezzo di intermediari: la maggior parte di loro riceve un titolo «profetico», ma vi è chi è senza titolo. Il primo posto spetta ai profeti come Natan (cf. 1 Cr 17,1-15) e molti altri. Il Signore si serve pure di veggenti come Gad (cf. 1 Cr 21,9-12) e di persone che hanno diversi mestieri e persino di re stranieri quali Necao (cf. 2 Cr 35,21) e Ciro (cf. 2 Cr 36,23). I capi famiglia dei musicanti del Tempio profetizzano (cf. 1 Cr 25,1-3).

Le Cronache riprendono le concezioni della parola di Dio espresse in Samuele e Re. Come in questi libri, ma forse con minore insistenza, i discorsi del Signore hanno per oggetto l’annuncio di eventi di cui si constata il compimento (cf. 1 Cr 11,1-3; 2 Cr 6,10; 10,15). Le Cronache sottolineano questo ruolo della parola del Signore in riferimento all’esilio babilonese. Secondo 2 Cr 36,20-22, sia l’esilio sia la sua fine compiono ciò che il Signore aveva annunciato per bocca di Geremia (cf. Ger 25,11-14; 29,10). 2 Cr 36,15-16, con termini differenti rispetto a 2 Re 17,13-14, riprende il motivo degli incessanti tentativi fatti invano dal Signore per evitare la sventura al suo popolo, inviandogli dei messaggeri/profeti. Si noterà infine che le Cronache non affermano l’origine divina del contenuto dei libri in questione, ma facendo riferimenti a fonti profetiche (cf. 2 Cr 36,12.15-16.21-22), sembrano suggerirla.

In breve, i libri profetici si presentano integralmente come Parola del Signore. Essa occupa un posto preponderante anche nei libri storici. Gli uni e gli altri, soprattutto i libri storici, precisano che la Parola del Signore ha un’efficacia infallibile e chiama alla conversione.

2.3. I Salmi

17. Il Salterio è una collezione di preghiere che provengono dall’esperienza personale e comunitaria della presenza e dell’agire del Signore. I Salmi esprimono la preghiera d’Israele nelle diverse epoche della sua storia: nell’epoca dei re, poi, durante l’esilio quando Dio viene sempre più riconosciuto come re d’Israele, infine, dopo l’esilio all’epoca del secondo tempio. Ogni salmo è testimonianza di un rapporto vivo e forte con Dio, e su questa base possiamo dire che proviene da Dio ed è ispirato da Dio. Secondo quanto gli stessi testi manifestano, si possono rilevare, senza pretendere esaustività, almeno tre tipi di rapporto: a. l’esperienza dell’intervento di Dio nella vita dei credenti; b. l’esperienza della presenza di Dio nel santuario; c. l’esperienza di Dio fonte di ogni sapienza. Questi tre tipi di rapporto con Dio sono vissuti sulla base dell’alleanza del Sinai, che include la promessa della presenza attiva di Dio nella vita quotidiana del popolo e nel tempio.

a. L’esperienza dell’intervento di Dio nella vita dei credenti

In due modi gli oranti sperimentano l’aiuto potente di Dio: come risposta al loro grido di aiuto; come ascolto delle grandi meraviglie di Dio.

Per quanto concerne gli oranti come beneficiari dell’aiuto di Dio, fra tanti esempi possibili, prendiamo la preghiera del Sal 30,9-13: “A te grido Signore, al Signore chiedo pietà: (…) Ascolta Signore, abbi pietà di me, Signore, vieni in mio aiuto! Hai mutato il mio lamento in danza, mi hai tolto l’abito di sacco, mi hai rivestito di gioia, perché ti canti il mio cuore, senza tacere; Signore, mio Dio, ti renderò grazie per sempre.”

Un’esperienza, personale e al tempo stesso comunitaria, del Signore che salva è la forza ispiratrice dei salmi di supplica e di lode. Questa esperienza viene sempre per lo meno accennata, se non raccontata, o all’inizio (cf. Sal 18,5-7; 30,2) o alla fine (cf. Sal 142,6-8) o al centro del salmo (cf. Sal 22,22; 85,7-9). A metà strada tra la parola umana di supplica e quella di lode, sta la Parola (che esprime la promessa e l’azione) di Dio (cf. Sal 30,12). Dopo averla percepita, il salmista si sente ispirato a raccontarla agli altri. Essa, così, viene attesa, ricevuta e lodata non solo da un individuo ma da tutto il popolo.

Gli oranti ascoltano le meraviglie del Signore perché Dio parla all’orante e a tutto il popolo mediante le grandi opere che ha compiuto in tutta la creazione e nella storia d’Israele. Il Sal 19,2-5 ricorda le meraviglie nella creazione e descrive il loro modo di parlare: “I cieli narrano la gloria di Dio, l’opera delle sue mani annuncia il firmamento. Il giorno al giorno ne affida il racconto e la notte alla notte ne trasmette notizia. Senza linguaggio, senza parole, senza che si oda la loro voce, per tutta la terra si diffonde il loro annuncio e ai confini del mondo il loro messaggio”. Spetta all’orante intendere questo linguaggio che parla della “gloria di Dio” (cf. Sal 147,15-20), ed esprimerlo con parole proprie.

Il Sal 105 racconta le opere di Dio nella storia d’Israele ed esorta il singolo e il popolo: “Ricordate le meraviglie che ha compiuto, i suoi prodigi e i giudizi della sua bocca” (v.5). Nei salmi storici si riportano queste “meraviglie che ha compiuto” che sono anche “i giudizi della sua bocca”. Le parole di questi salmi, pur formulate da uomini in termini umani, sono ispirate dal grande operare del Signore. Questa voce del Signore continua a risuonare nell’oggi dell’orante e del popolo. Urge ascoltarla.

b. L’esperienza della presenza potente di Dio nell’ambito del santuario

18. Prendiamo come esempi i Sal 17 e Sal 50. Nel primo testo l’esperienza di Dio ispira un giusto falsamente accusato a innalzare una preghiera di incondizionata fiducia in Dio; nel secondo questa esperienza fa sentire la voce di Dio che denuncia il comportamento sbagliato del popolo.

Nel Sal 17 l’ultimo versetto esprime una sicura speranza. Dice: “Ma io nella giustizia contemplerò il tuo volto, al risveglio mi sazierò della tua immagine” (v. 15). Anche due altre preghiere di persone perseguitate terminano in un modo simile. Il Sal 11,7 si conclude con l’asserzione: “Gli uomini retti contempleranno il suo volto”; e il Sal 27 al penultimo versetto, recita: “Sono certo di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi” (v. 13; cf. vv. 4.8.9). L’espressione “il volto di Dio” significa Dio stesso, la persona di Dio secondo la sua vera e perfetta realtà. Mediante l’espressione “contemplare il volto di Dio” si intende allora un incontro intenso, reale e personale con Dio, non tramite l’organo della vista, ma nella “visione” di fede. La speranza incrollabile di avere questa esperienza di Dio (“contemplerò”, al futuro) e la conoscenza di Dio che in essa si esprime sono la fonte dell’intera preghiera.

Il Sal 50 riferisce l’esperienza di una teofania nella liturgia del tempio. Al comparire del Dio dell’alleanza (cf. 50,5) si ripetono i fenomeni del Sinai, fuoco divorante e tempesta (cf. 50,3). La manifestazione della realtà di Dio e del suo rapporto con Israele: (“Io sono Dio, il tuo Dio!”: 50,7) conduce all’accusa contro il popolo: “Ti rimprovero: pongo davanti a te la mia accusa” (50,21). Dio critica doppiamente il comportamento del popolo: il suo rapporto con Dio è concentrato esclusivamente sui sacrifici (50,8-13) e il rapporto con il prossimo è diametralmente opposto ai comandamenti dell’alleanza (50,16-22). Dio chiede la sua lode, la supplica nell’angoscia (50,14-15.23) e l’agire retto verso il prossimo (50,23).  Il Sal 50, nel cuore del Salterio, riprende dunque i moduli profetici; non solo fa parlare il Signore, ma fa sì che ogni supplica e ogni atto di lode vengano interpretati come obbedienza al comando divino. Tutta la preghiera è dunque “ispirata” da Dio.

c. L’esperienza di Dio, fonte di sapienza.

19. La saggezza e l’intelligenza sono una prerogativa di Dio (cf. Sal 136,5; 147,5). È Lui che la comunica (“Nel segreto del cuore mi insegni la sapienza”: Sal 51,8), rendendo l’uomo sapiente, capace cioè di vedere tutte le cose come le vede Dio. Davide possedeva tale saggezza e intelligenza dal momento in cui Dio lo chiamò a essere re d’Israele (cf. Sal 78,72).

Il timore di Dio è la condizione per essere istruiti da Dio e per ricevere la sapienza. Nella parte iniziale del Sal 25 l’orante chiede intensamente l’istruzione del Signore (“Fammi conoscere, Signore, le tue vie, insegnami i tuoi sentieri. Guidami nella tua fedeltà e istruiscimi”: vv. 4-5), basandosi sulla disponibilità di Dio a donarla (vv. 8-9). Il timore di Dio è l’atteggiamento indispensabile per essere beneficiari dell’insegnamento sapienziale di Dio: “C’è un uomo che teme il Signore? Gli indicherà la via da scegliere” (25,12). Quelli che temono Dio non solo ricevono l’indicazione della retta via da seguire, ma, come esplicita il Sal 25, anche un’illuminazione più ampia e profonda: “il Signore si confida con chi lo teme: gli fa conoscere la sua alleanza” (v. 14); in altri termini, Egli dona loro un rapporto di amicizia intima e una conoscenza penetrante del patto che ha stipulato con Israele al Sinai. Vediamo dunque che il rapporto con Dio, espresso con la terminologia del “timore di Dio”, è la fonte ispiratrice dalla quale provengono tanti salmi sapienziali.

2.4. Il libro del Siracide

20. Nei libri profetici è Dio stesso che parla per mezzo dei profeti. Come abbiamo visto, diversi sono i modi con cui Dio si rivolge alle persone che ha scelto come suoi portavoce presso il popolo d’Israele. Nei Salmi è l’uomo che parla a Dio, ma lo fa alla Sua presenza e  adottando forme espressive che presuppongono una intima comunione con Lui. Nei libri sapienziali invece gli uomini parlano a degli uomini; tuttavia chi parla e chi ascolta sono entrambi profondamente radicati nella fede nel Dio del popolo d’Israele. Spesso nell’Antico Testamento la sapienza è esplicitamente attribuita allo Spirito di Dio (cf. Gb 32,8; Sap 7,22; 9,17; anche 1 Cor 12,4-11). Tali libri vengono chiamati ‘sapienziali’ perché i loro autori scrutano e indicano le vie per una vita umana guidata dalla sapienza. Nella loro ricerca sono consapevoli del fatto che la sapienza è un dono di Dio perché: “Uno solo è il sapiente e incute timore, seduto sopra il suo trono” (Sir 1,8). Volendo illustrare con precisione quali modalità di relazione con Dio vengono attestate da questi scritti come base e fonte di ciò che viene insegnato dai loro autori, abbiamo concentrato la nostra ricerca sul libro del Siracide, a motivo del suo carattere sintetico.

Sin dall’inizio l’autore è consapevole del fatto che “ogni sapienza viene dal Signore e con lui rimane per sempre” (Sir 1,1). Già nel prologo del libro il traduttore indica una via mediante la quale Dio ha comunicato la sapienza all’autore: “Mio nonno Gesù – egli scrive –, dopo essersi dedicato per tanto tempo alla lettura della Legge, dei Profeti e degli altri libri dei nostri padri, avendone conseguito una notevole competenza, fu indotto pure lui a scrivere qualche cosa su ciò che riguarda la dottrina e la sapienza”. La lettura accurata e credente delle Sacre Scritture nelle quali Dio parla al popolo d’Israele ha unito l’autore con Dio, è diventata la fonte della sua sapienza, e lo ha portato a scrivere la sua opera. Si manifesta così chiaramente un modo in cui il libro proviene da Dio.

Ciò che il traduttore afferma nel prologo viene confermato dallo stesso autore nel cuore del libro. Dopo aver riportato l’elogio che la sapienza fa di se stessa (Sir 24,1-22), egli la identifica con lo scritto di Mosè: “Tutto questo è il libro dell’alleanza del Dio altissimo, la legge che Mosè ci ha prescritto, eredità per le assemblee di Giacobbe” (Sir 24,23). Il Siracide poi, esplicita quale sia il risultato del suo studio della legge e l’effetto del suo scritto: “Farò ancora splendere la dottrina come l’aurora, la farò brillare molto lontano. Riverserò ancora l’insegnamento come profezia, lo lascerò alle generazioni future. Vedete che non ho faticato solo per me, ma per tutti quelli che la cercano” (Sir 24,32-34 cf. 33,18). La sapienza che tutti, anche nel futuro, possono trovare nel suo scritto è il frutto del suo studio della Legge e di ciò che Dio gli fa conoscere nelle prove della vita (cf. Sir 4,11.17-18). Sembra dare un ritratto di se stesso quando parla “di chi si applica a meditare la legge dell’Altissimo” (38,34) e scrive: “Egli ricerca la sapienza di tutti gli antichi e si dedica allo studio delle profezie” (39,1). Indica poi come risultato: “Se il Signore, che è grande, vorrà, egli sarà ricolmato di spirito d’intelligenza: come pioggia effonderà le parole della sua sapienza e nella preghiera renderà lode al Signore” (Sir 39,6). L’acquisizione della sapienza come frutto dello studio viene riconosciuta come dono di Dio e porta alla preghiera di lode. Tutto dunque si svolge in una viva e continua unione con Dio. L’autore asserisce, non solo per sé, ma per tutti, che il timore di Dio e l’osservanza della Legge danno accesso alla sapienza: “Chi teme il Signore farà tutto questo, chi è saldo nella legge otterrà la sapienza” (15,1).

Nell’ultima parte della sua opera (44-50) il Siracide si occupa in modo diverso della tradizione del suo popolo, facendo l’elogio dei padri e descrivendo l’agire di Dio per mezzo di molti uomini nella storia e in favore d’Israele. Anche mediante questa rassegna egli mostra come il suo scritto proviene dal rapporto con Dio. Dice, in particolare, su Mosè: “Gli fece udire la sua voce, lo fece entrare nella nube oscura e gli diede faccia a faccia i comandamenti, legge di vita e d’intelligenza, perché insegnasse a Giacobbe l’alleanza, i suoi decreti a Israele” (45,5). Menziona molti profeti e a proposito di Isaia dichiara: “Con grande ispirazione vide gli ultimi tempi e consolò gli afflitti di Sion” (48,24). Meditando la Legge e i Profeti, ascoltando quindi la Parola di Dio, questo autore sapienziale era in unione con Dio, otteneva la sapienza e acquistava la base per comporre la sua opera (cf. prologo).

Nella parte conclusiva il Siracide caratterizza il contenuto del suo libro come “una dottrina d’intelligenza e di scienza” (50,27). Egli associa una beatitudine: “Beato chi medita queste cose e colui che, fissandole nel suo cuore, diventa saggio; se le metterà in pratica, sarà forte in tutto, perché la luce del Signore sarà la sua strada” (50,28-29). La beatitudine richiede la meditazione e la pratica del contenuto del libro e promette la saggezza e la luce del Signore; tutto ciò è possibile solo se tale scritto proviene da Dio.

2.5. Conclusione

21. Terminata la rassegna di testi scelti dall’Antico Testamento possiamo adesso rivederli in una prospettiva sintetica. Gli scritti esaminati, pur diversi quanto a datazione e luogo di composizione, oltre che per contenuto specifico e per particolare stile letterario, presentano concordemente un unico grande messaggio di fondo: Dio ci parla. Lo stesso unico Dio, nella molteplicità e varietà delle situazioni storiche, cerca l’uomo, lo raggiunge e gli parla. E il messaggio di Dio, diverso nella forma a motivo delle concrete circostanze storiche della rivelazione, tende costantemente a promuovere la risposta di amore nell’uomo. Questa stupenda intenzionalità da parte di Dio, pervade di Dio gli scritti che la esprimono. Li rende ispirati e ispiranti, capaci cioè di illuminare e promuovere l’intelligenza e la passione dei credenti. L’uomo se ne accorge e, con un fremito di stupore e di gioia, si domanda: questo Dio ineffabile che mi parla cosa sarà capace di donarmi? Gli autori del Nuovo Testamento, membri del popolo d’Israele, conoscono le “Scritture” del loro popolo e le riconoscono come parola ispirata che proviene da Dio. Essi ci mostrano come Dio ha continuato il suo parlare fino a esprimere la sua ultima e definitiva parola nell’invio di suo Figlio (cf. Eb 1,1-2).

3. La testimonianza di scritti scelti del Nuovo Testamento

22. Abbiamo già rimarcato, quale caratteristica degli scritti del Nuovo Testamento, come essi manifestino il rapporto dei loro autori con Dio solamente attraverso la persona di Gesù. Un posto speciale spetta qui ai quattro vangeli. La Dei Verbum parla infatti della loro “meritata superiorità, in quanto sono la principale testimonianza sulla vita e sulla dottrina del Verbo incarnato, nostro Salvatore” (n. 18). Teniamo dunque conto del ruolo privilegiato dei vangeli, per cui, dopo una introduzione che espone ciò che essi hanno in comune, verrà esplicitato dapprima l’approccio proprio ai vangeli sinottici e poi quello caratteristico del vangelo di Giovanni. Per gli altri tipi di scritti neotestamentari selezioniamo quelli più importanti, e ci occuperemo perciò degli Atti degli Apostoli, delle lettere dell’apostolo Paolo, della lettera agli Ebrei e dell’Apocalisse.

3.1. I quattro vangeli

23. I quattro vangeli si distinguono da tutti gli altri libri della Sacra Scrittura in quanto riferiscono direttamente “tutto quello che Gesù fece e insegnò” (At 1,1), e al contempo mostrano come Gesù preparò i missionari che dovevano propagare la Parola di Dio rivelata da lui. I vangeli, presentando la persona di Gesù e il suo rapporto con Dio, e presentando gli apostoli con la formazione e l’autorità conferita loro da Gesù, attestano il modo specifico della provenienza del loro testo da Dio.

a. Gesù culmine della rivelazione di Dio per tutti i popoli

I vangeli manifestano fra loro una reale diversità in alcuni dettagli del racconto e in certi orientamenti teologici, ma mostrano anche grande convergenza nella presentazione della persona di Gesù e del suo messaggio. Forniamo qui una certa sintesi, che sottolinea i punti principali.

Tutti e quattro i vangeli presentano la persona e la storia di Gesù come il culmine della storia biblica. Di conseguenza si riferiscono spesso agli scritti dell’Antico Testamento, conosciuti soprattutto nella traduzione greca dei Settanta, ma anche nei testi originali ebraici e aramaici. Molto importanti sono le numerose connessioni che i vangeli indicano fra Gesù e i patriarchi, Mosè, i profeti come persone la cui memoria e significato sono racchiusi negli scritti sacri dell’Antico Testamento.

I vangeli attestano che Gesù è il compimento della rivelazione del Dio di Israele, di quel Dio che chiama, istruisce, punisce e spesso ricostruisce Israele come suo proprio popolo, separato dalle altre nazioni ma destinato ad essere benedizione per tutte le genti. Allo stesso tempo i vangeli confermano decisamente l’universalismo dell’Antico Testamento e rendono palese che in Gesù Dio si rivolge a tutto il genere umano di tutti i tempi (cf. Mt 28,20; Mc 14,9; Lc 24,47; Gv 4,42).

I quattro vangeli – ciascuno a modo suo – affermano che Gesù è il Figlio di Dio, non solo come titolo messianico, ma anche come espressione di un rapporto – unico e senza precedenti – con il Padre celeste, superando così il ruolo salvifico e rivelatore di tutti gli altri esseri umani. Ciò viene esposto nella forma più esplicita nel vangelo di Giovanni, sia all’inizio nel prologo (1,1-18) sia nei capitoli sul Signore risorto, prima nell’incontro con Tommaso (20,28) e poi nell’ultima affermazione sul significato inesauribile della vita e dell’insegnamento di Gesù (21,25). Questo stesso messaggio si trova anche nel vangelo di Marco sotto forma di inclusione letteraria: all’inizio si dichiara che Gesù è il Cristo e il Figlio di Dio (1,1) e alla fine si cita la testimonianza del centurione romano su Gesù crocifisso: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio” (15,39). Il medesimo contenuto è attestato dagli altri vangeli sinottici, con termini forti e espliciti, in una preghiera di giubilo che Gesù rivolge a Dio suo Padre (Mt 11,25-27; Lc 10,21-22). Usando espressioni davvero uniche Gesù non dichiara solamente la perfetta uguaglianza e intimità fra Dio Padre e lui come Figlio, ma afferma pure che questo rapporto non può essere riconosciuto se non attraverso un atto di rivelazione: solo il Figlio può rivelare il Padre e solo il Padre può rivelare il Figlio.

I vangeli, dal punto di vista letterario, riportano episodi narrativi e discorsi didattici, ma in realtà, nel loro significato ultimo, trasmettono una storia di rivelazione e di salvezza. Presentano la vita del Figlio incarnato di Dio, che, dalle condizioni umili di una vita ordinaria e attraverso le crudeli umiliazioni della passione e morte, giunge fino all’esaltazione nella gloria. In questo modo, comunicando la rivelazione di Dio nel suo Figlio Gesù, i vangeli, implicitamente, indicano la provenienza del loro testo da Dio.

b. La presenza e la formazione dei testimoni oculari e ministri della parola

24. Ogni episodio dei vangeli è incentrato su Gesù che è però sempre circondato da discepoli. Il termine “discepoli” si riferisce a un gruppo di seguaci di Gesù di cui non si precisa il numero. Ogni vangelo parla specificamente dei “Dodici”, un gruppo scelto che accompagna Gesù durante tutto il suo ministero, il cui significato è di grande rilevanza. I Dodici formano una comunità, definita con precisione nei nomi personali di coloro che la compongono. Ogni vangelo riporta che questo gruppo fu eletto da Gesù (Mt 10,1-4; Mc 3,13-19; Lc 6,12-16; Gv 6,70); essi lo seguirono diventando testimoni oculari del suo ministero e assumendo il ruolo di inviati provvisti di pieni poteri (Mt 10,5-8: Mc 3,14-15; 6,7; Lc 9,1-2; Gv 17,18; 20,21). Il loro numero simboleggia le dodici tribù d’Israele (Mt 19,28; Lc 22,30) e significa la pienezza del popolo di Dio che deve essere ottenuta mediante la loro missione di evangelizzazione a tutto il mondo. Il loro ministero non solo trasmette il messaggio di Gesù a tutte le persone dei tempi a venire, ma anche, adempiendo la profezia di Isaia sulla venuta dell’Emmanuele (7,14), rende duratura la presenza di Gesù nella storia secondo la sua promessa: “Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). I vangeli, attestando la formazione speciale dei Dodici, manifestano il modo concreto della propria provenienza da Gesù e da Dio.

3.2. I Vangeli sinottici

25. I vangeli sinottici presentano la storia di Gesù in un modo che non lascia spazio fra la prospettiva dell’autore della narrazione e il suo ritratto della persona e della vita e missione di Gesù. Descrivendo i molteplici rapporti di Gesù con Dio i vangeli indicano, implicitamente, il loro rapporto con Dio o la loro provenienza da Dio sempre attraverso la persona e il ruolo rivelatore e salvatore di Gesù.

Solamente Luca fornisce un’introduzione ai due volumi della sua opera (Lc 1,1-4; cf. At 1,1) collegando la sua narrazione con stadi anteriori della tradizione apostolica. Considera così la sua opera all’interno del processo della testimonianza apostolica su Gesù e sulla storia della salvezza, testimonianza iniziata con i primi seguaci di Gesù (“testimoni oculari”), proclamata nella prima predicazione apostolica (“ministri della parola”) e ora continuata in una forma nuova mediante il vangelo di Luca. In questo modo Luca indica esplicitamente il rapporto del suo vangelo con Gesù rivelatore di Dio e afferma l’autorità rivelatrice della sua opera.

Al centro di ogni vangelo troviamo la persona di Gesù vista nei suoi rapporti con Dio, molteplici e singolari, rapporti che si manifestano nelle vicende della vita di Gesù e nella sua attività, ma anche nel suo ruolo per la storia della salvezza. In un primo paragrafo ci occupiamo della persona e dell’attività di Gesù e in un secondo paragrafo del suo ruolo nella storia di Dio con l’umanità.

a. Gesù e il suo singolare rapporto con Dio

26. I vangeli illustrano con diverse modalità il singolare rapporto di Gesù con Dio. Lo presentano come: a) il Cristo, il Figlio di Dio nella sua privilegiata e unica relazione con il Padre; b) colui che è ripieno di Spirito di Dio; c) colui che agisce con la potenza di Dio; d) colui che insegna con l’autorità di Dio; e) colui il cui rapporto con il Padre viene definitivamente rivelato e confermato mediante la sua morte e risurrezione.

 Gesù Figlio singolare di Dio Padre

Già nei vangeli dell’infanzia, in Matteo e Luca, si fa un chiaro riferimento all’origine divina di Gesù (Mt 1,20; Lc 1,35) e alla sua unica relazione con il Padre (Mt 2,15, Lc 2,49).

Tutti e tre i vangeli sinottici poi riferiscono eventi chiave nella vita di Gesù quando egli comunica direttamente con suo Padre, e il Padre, da parte sua, conferma l’origine divina dell’identità e missione di suo Figlio.

In ogni vangelo sinottico infatti il ministero pubblico di Gesù viene preceduto dal suo battesimo e da una impressionante teofania. I cieli si aprono, lo Spirito scende su Gesù e la voce di Dio lo dichiara suo Figlio amato (Mt 3,13-17; Mc 1,9-11; Lc 3,21-22). Dopo questo avvenimento inaugurale, i vangeli raccontano che egli è spinto dallo Spirito nel deserto (Mt 4,1-11; Mc 1,12-13; Lc 4,1-13) per un confronto con Satana (viene così evocato il soggiorno di Israele nel deserto), e inizi poi il suo ministero in Galilea.

Un’altra teofania potente, la trasfigurazione di Gesù, accade alla fine del suo ministero galilaico, quando intraprende il suo cammino verso Gerusalemme, in prossimità degli eventi pasquali. Come al battesimo, Dio Padre dichiara:“Questi è il Figlio mio, l’amato” (Mt 17,5 parr.) e sottolinea esplicitamente l’autorità che gli compete: “Ascoltatelo!”. Alcuni elementi di questa teofania ricordano l’evento al Sinai: la cima del monte, la presenza di Mosè ed Elia, l’irraggiamento della persona di Gesù, la presenza della nube che li copre con la sua ombra. In questo modo Gesù e la sua missione vengono collegati con la rivelazione di Dio al Sinai e con la storia della salvezza d’Israele.

Il vangelo di Matteo contiene un titolo unico e rivelatore per Gesù. Insieme al suo nome proprio, “Gesù”, che interpreta con la frase: “egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati” (1,21), Matteo riporta anche il titolo “Emmanuele” (1,23) che significa “Dio con noi” (cf. Is 7,14). In questo modo l’evangelista afferma esplicitamente la presenza di Dio in Gesù, e sottolinea l’autorità che ne consegue per l’insegnamento e per le altre azioni in tutto il suo ministero. Il titolo “Emmanuele” riappare, in un certo senso, in Mt 18,20 dove Gesù parla della sua presenza in mezzo alla comunità (“dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro”) e in Mt 28,20 con la promessa finale del Cristo risorto: “Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo.”

Gesù ripieno di Spirito di Dio

Tutti i vangeli sinottici riferiscono, in occasione del battesimo, la discesa dello Spirito di Dio su Gesù (Mt 3,16; Mc 1,10; Lc 3,22) e ribadiscono l’operare dello Spirito Santo nelle sue azioni (cf. Mt 12,28; Mc 3,28-30). Luca, in particolare, menziona ripetutamente lo Spirito che anima Gesù nella sua missione di insegnare e guarire (cf. Lc 4,1.14.18-21). Lo stesso evangelista afferma che, in un momento di grande emozione, Gesù “esultò di gioia nello Spirito Santo” (10,21), dicendo: “Tutto è stato dato a me dal Padre mio e nessuno sa chi è il Figlio se non il Padre, né chi è il Padre se non il Figlio” (Lc 10,21-22; cf. anche Mt 11,25-27).

Gesù agisce con la potenza di Dio

27. Il singolare rapporto di Gesù con Dio si manifesta anche negli esorcismi e nelle guarigioni. In tutti e tre i sinottici, ma specialmente in Marco, gli esorcismi qualificano la missione di Gesù. La potenza dello Spirito di Dio che è presente in Gesù è in grado di scacciare lo spirito cattivo che cerca di distruggere gli esseri umani (p. es. Mc 1,21-28). Lo scontro di Gesù con Satana, che ebbe luogo nelle tentazioni all’inizio del suo ministero, continua così, durante la sua vita, nel vittorioso combattimento contro le forze maligne che causano la sofferenza umana. Le stesse potenze demoniache vengono presentate in un’angosciosa consapevolezza dell’identità di Gesù come Figlio di Dio (p. es. Mc 1,24; 3,11; 5,7). La “forza” che proviene da Gesù è forza di guarigione (cf. Mc 5,30). In tutti e tre i vangeli sinottici abbondano tali racconti. Quando gli avversari accusano Gesù di ricevere il suo potere da Satana, egli risponde con un’affermazione sintetica che connette le sue azioni miracolose con la forza dello Spirito Santo e con la presenza del regno di Dio: “Ma, se io scaccio i demoni per mezzo dello Spirito di Dio, allora è giunto a voi il regno di Dio” (Mt 12,28; cf. Lc 11,20).

La presenza della potenza di Dio in Gesù si esprime in modo particolare negli episodi, nei quali questi dispiega la sua autorità anche sulle forze della natura. I racconti della tempesta sedata e della traversata delle acque sono equivalenti a teofanie, nelle quali Gesù esercita un’autorità divina sulla forza caotica del mare e, quando cammina sulle acque, pronuncia il nome divino come nome suo proprio (Mt 14,27; Mc 6,50). Nel racconto di Matteo i discepoli che assistono al prodigio vengono indotti a confessare l’identità di Gesù come Figlio di Dio (14,33). I racconti della moltiplicazione dei pani rivelano in modo simile la singolare potenza e autorità di Gesù (Mt 14,13-21; Mc 6,32-44; Lc 9,10-17; cf. Mt 15,32-39; Mc 8,1-10). Tali azioni sono connesse con il dono divino della manna nel deserto e col ministero profetico di Elia ed Eliseo. Nel contempo, mediante le parole e i gesti sui pani e l’abbondanza dei pezzi avanzati, viene fatto un accenno alla celebrazione eucaristica della comunità cristiana, dove sacramentalmente si dispiega la potenza salvifica di Gesù.

Gesù insegna con l’autorità di Dio

I vangeli sinottici affermano che Gesù insegna con singolare autorità. Alla trasfigurazione la voce dal cielo esige esplicitamente: “Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!” (Mc 9,7; Mt 17,5; Lc 9,35). Nella sinagoga di Cafarnao, i testimoni del primo insegnamento e del primo esorcismo di Gesù, esclamano: “Che è mai questo? Un insegnamento nuovo, dato con autorità. Comanda persino agli spiriti impuri e gli obbediscono!” (Mc 1,27). In Mt 5,21-48 Gesù mette autorevolmente il suo insegnamento in contrasto con punti chiave della legge: “Avete inteso che fu detto agli antichi… Ma io vi dico…”. Egli dichiara anche di essere “Signore del sabato” (Mt 12,8; Mc 2,28; Lc 6,5). L’autorità che ha ricevuto da Dio si estende al perdono dei peccati (Mt 9,6; Mc 2,10; Lc 5,24).

La morte e risurrezione di Gesù come ultima rivelazione e conferma del suo unico rapporto con Dio

28. La crocifissione di Gesù, sorte estremamente crudele e ignominiosa, sembra confermare l’opinione dei suoi avversari che vedono in lui un bestemmiatore (Mt 26,65; Mc 14,63). Chiedono al crocifisso di scendere dalla croce e di provare la sua asserzione di essere il Figlio di Dio (Mt 27,41-43; Mc 15,31-32). La morte sul patibolo sembra dimostrare che il suo agire e le sue pretese siano state riprovate da Dio. Secondo i vangeli, però, Gesù esprime, morendo, la sua più intima unione con Dio Padre di cui accetta la volontà (Mt 26,39.42; Mc 14,36; Lc 22,42). E Dio Padre risuscitando Gesù dai morti (Mt 28,6; Mc 16,6; Lc 24,6.34) mostra la sua perfetta e definitiva approvazione della persona di Gesù in tutte le attività e rivendicazioni. Chi crede nella risurrezione di Gesù crocifisso non può più dubitare del suo singolare rapporto con Dio Padre e della validità di tutto il suo ministero.

b. Gesù e il suo ruolo nella storia della salvezza

29. Le Sacre Scritture del popolo d’Israele vengono considerate come racconto della storia di Dio con questo popolo e come Parola di Dio. I vangeli sinottici mostrano il rapporto di Gesù con Dio anche qualificando la sua storia come compimento delle Scritture. Il particolare rapporto di Gesù con Dio si mostra poi anche nel suo manifestarsi alla fine dei tempi.

Il compimento delle Scritture

È importante notare che Gesù non solo completa l’insegnamento di Mosè e dei profeti con quanto dice, ma di più presenta se stesso come il compimento personale delle Scritture. Matteo osserva in 2,15 che, da bambino, Gesù ripete il viaggio di Israele “dall’Egitto” (cf. Os 11,1). Ripieno di Spirito Santo (Lc 4,15), dopo aver letto Isaia nella sinagoga di Nazaret chiude il libro e dichiara: “Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato” (4,16-21). Similmente, egli manda a dire a Giovanni in prigione che ciò che vedono gli inviati dallo stesso Battista adempie globalmente le profezie messianiche di Isaia (Mt 11,2-6, concatenando Is 26,19; 29,18-19; 35,5; 61,1). L’esordio programmatico del Vangelo di Marco fornisce, nei primi versetti, un sommario dell’identità di Gesù, non solo nella prima riga dove si parla di “Gesù Cristo Figlio di Dio” (1,1), ma anche nei versetti seguenti che annunciano lo stesso Signore il cui avvento viene preparato secondo l’attestazione dei profeti (1,2-3, in riferimento a Es 23,20; Mal 3,1; Is 40,3). Se gli evangelisti lo presentano coerentemente come un discendente di Davide, Egli è anche detto essere, per quanto riguarda la sapienza, più grande di Salomone (Mt 12,42; Lc 11,31), più del Tempio (Mt 12,6), o più di Giona (Mt 12,41; Lc 11,32). Nel discorso della montagna, egli legifera con un’autorità che supera quella di Mosè (cf. Mt 5,21.27.33.38.43).

Il compimento della storia attraverso il ritorno trionfale di Gesù

Secondo i vangeli sinottici lo strettissimo rapporto di Gesù con Dio si manifesta non solo nel fatto che la vita di Gesù è il compimento della storia di Dio con Israele, ma anche nell’altro fatto che tutta la storia viene portata al suo compimento mediante il ritorno di Gesù nella sua gloria. Nei discorsi apocalittici (Mt 24-25; Mc 13; Lc 21) egli prepara i suoi discepoli ai travagli della storia dopo la sua morte e risurrezione, e li esorta ad essere fedeli e vigilanti per il suo ritorno. Essi vivono in un tempo intermedio fra il compimento della storia precedente, attuato mediante l’opera e la vita di Gesù, e il compimento definitivo alla fine di tutti i tempi. È questo il tempo delle comunità che credono in Gesù, il tempo della Chiesa. Per questo tempo intermedio i cristiani hanno l’assicurazione che il Signore risorto è sempre con loro (Mt 28,20), anche mediante la forza dello Spirito Santo (Lc 24,49; cf. At 1,8). Hanno anche il compito di annunciare il vangelo di Gesù a tutti i popoli (Mt 26,13; Mc 13,10; Lc 24,47), di farli discepoli di Gesù (Mt 28,19) e di vivere seguendo Gesù. Tutta la loro vita e tutto questo tempo si svolge nell’orizzonte del compimento della storia che si realizzerà con il ritorno trionfale di Gesù.

c. Conclusione

30. I vangeli sinottici mostrano il singolare rapporto di Gesù con Dio in tutta la sua vita e attività; mostrano pure il singolare significato di Gesù per il compimento della storia di Dio con il popolo d’Israele e per il compimento definitivo di tutta la storia. È in Gesù che Dio rivela se stesso e il suo progetto di salvezza per tutta l’umanità, è in Gesù che Dio parla alle persone umane, è mediante Gesù che esse vengono condotte a Dio e unite a Lui, è mediante Gesù che esse ottengono la salvezza. Mediante la presentazione di Gesù, Parola di Dio, i Vangeli stessi diventano parola di Dio. È la natura delle Sacre Scritture d’Israele di parlare autorevolmente di Dio e di condurre con sicurezza a Dio. Lo stesso carattere appare nei vangeli, e porta alla genesi di un canone di scritti cristiani che si connette con il canone delle Sacre Scritture ebraiche.

3.3. Il Vangelo di Giovanni

31. Il prologo del vangelo di Giovanni termina con l’affermazione solenne: “Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (1,18). Questa presentazione della natura di Gesù (Figlio unigenito; Dio; intima unione con il Padre) e della sua singolare capacità di conoscere e di rivelare Dio non è attestata solo all’inizio del vangelo; ma, essendo un assunto fondamentale, viene confermata da tutta l’opera giovannea. Chi entra in relazione con Gesù ed è aperto alla sua parola riceve da lui la rivelazione di Dio Padre. In comune con gli altri vangeli anche il quarto insiste sul compimento delle Scritture attraverso l’opera di Gesù e così ne afferma l’appartenenza al piano salvifico di Dio. Ma una caratteristica propria del vangelo di Giovanni è quella di indicare alcuni tratti speciali della relazione dell’evangelista con Gesù; in particolare: a. La contemplazione della gloria del Figlio unigenito; b. La testimonianza oculare esplicita; c. L’istruzione dello Spirito di verità per i testimoni. Queste specifiche caratteristiche, che connettono più intimamente l’evangelista con la persona di Gesù, hanno come effetto di mostrare la provenienza del suo vangelo da Dio stesso. Sviluppiamo qui questi tratti speciali.

a. La contemplazione della gloria del Figlio unigenito

Il prologo dice: “E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità” (1,14). Dopo aver affermato l’incarnazione del Verbo e il suo inserimento nell’umanità come dimora definitiva del Dio dell’alleanza, il testo parla subito di un profondo incontro personale con il Verbo incarnato. Nei testi giovannei “contemplare” non designa un vedere momentaneo, superficiale, ma un vedere intenso e duraturo, connesso con la riflessione e con una crescente intelligenza e adesione di fede. In Gv 11,45 si indica come oggetto immediato del contemplare: “ciò che egli aveva compiuto”, cioè la risurrezione di Lazzaro, e si menziona quale conseguenza la fede in Gesù. In Gv 1,14b si indica subito il risultato del contemplare, cioè la comprensione credente, il riconoscimento del “Figlio unigenito che viene dal Padre” (cf. 1 Gv 1,1; 4,14). L’oggetto immediato del contemplare è dunque Gesù, la sua persona e attività, poiché, durante la sua dimora terrena, il Verbo di Dio si è reso visibile dagli uomini.

L’autore include se stesso in un gruppo (“noi”) di attenti testimoni che, avendo contemplato l’operare di Gesù, sono giunti alla fede in Lui quale Figlio unigenito di Dio Padre. La testimonianza oculare dell’evangelista e la sua fede in Gesù Figlio di Dio sono la base del suo scritto; indirettamente se ne deduce che questo scritto proviene da Gesù e quindi da Dio. Ribadiamo che Giovanni è membro di un gruppo di testimoni credenti. La prima conclusione del quarto vangelo (20,30-31) permette di identificare questo gruppo. L’evangelista parla esplicitamente della sua opera (“questo libro”) e dei “segni” ivi narrati, e dice che Gesù li fece “in presenza dei suoi discepoli”. Questi ultimi risultano essere il gruppo di testimoni oculari al quale appartiene l’autore del quarto vangelo.

b. La testimonianza oculare esplicita

32. Due volte l’evangelista sottolinea esplicitamente di essere stato testimone oculare di quanto scrive. A conclusione del vangelo leggiamo: “Questi è il discepolo che testimonia queste cose e le ha scritte, e noi sappiamo che la sua testimonianza è verace” (21,24). Un gruppo (“noi”) presenta il discepolo – identificato con il protagonista dell’ultima narrazione – come testimone affidabile e come scrittore dell’intera opera. Si tratta del discepolo amato da Gesù (21,20), che anche in altre occasioni (13,23; 19,26; 20,2; 21,7), a motivo della sua particolare vicinanza con Gesù, è stato testimone del suo agire. In questo modo si conferma come questo vangelo proviene da Gesù e da Dio. Coloro che dichiarano: “noi sappiamo” esprimono la consapevolezza di essere qualificati per una tale valutazione. Ciò costituisce un atto di riconoscimento, di recezione e di raccomandazione dello scritto da parte della comunità credente.

In un altro passo, la testimonianza oculare viene esplicitata per l’effusione di acqua e sangue dopo la morte di Gesù: “Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate” (19,35). Decisivi sono qui i concetti di vedere, testimoniare, verità, credere. Il testimone oculare afferma la verità della sua testimonianza con cui si rivolge a una comunità (“voi”), esortandola a condividere la sua fede (cf. 20,31; 1 Gv 1,1-3). Quest’ultima riguarda non solamente i fatti accaduti, ma anche il loro significato, che viene espresso in due citazioni dell’Antico Testamento (cf. 19,36-37). Dal contesto sappiamo che il testimone oculare è il discepolo amato che stava presso la croce di Gesù e a cui Gesù si è rivolto (19,25-27). In Gv 19,35 si sottolinea dunque, in riferimento specifico alla morte di Gesù, ciò che Gv 21,24 esprime per tutte le cose raccontate nel quarto vangelo: questo è stato scritto da un autore che, per esperienza diretta e per fede, è intimamente unito a Gesù e a Dio, e comunica la sua testimonianza a una comunità di credenti che condividono la medesima fede.

c. L’istruzione dello Spirito di verità per i testimoni

33. La testimonianza del discepolo è resa possibile dal dono dello Spirito Santo. Nel suo discorso d’addio (Gv 14-16) Gesù dice ai discepoli: “Quando verrà il Paraclito, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della verità che procede dal Padre, egli darà testimonianza di me; anche voi date testimonianza, perché siete con me fin dal principio” (15,26-27). I discepoli sono i testimoni oculari di tutta l’attività di Gesù “fin dal principio”. Ma la testimonianza di fede, quella che conduce a credere in Gesù come Cristo e Figlio di Dio (cf. 20,31), viene data per la potenza dello Spirito, che, procedendo dal Padre e mandato da Gesù, crea nei discepoli la più viva unione con Dio. Il mondo non può ricevere lo Spirito (14,17), ma i discepoli lo ricevono per la loro missione nel mondo (17,18). Gesù precisa come lo Spirito dà testimonianza di Lui: “vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto” (14,26) e “vi guiderà a tutta la verità” (16,13). L’opera dello Spirito è interamente riferita all’attività di Gesù e ha il compito di condurre a una sempre più profonda comprensione della verità cioè della rivelazione di Dio Padre apportata da Gesù (cf. 1,17-18). La testimonianza di ogni discepolo per Gesù diventa efficace solamente attraverso l’azione dello Spirito Santo. Lo stesso vale per il Quarto Vangelo che si presenta come la testimonianza scritta del discepolo amato da Gesù.

3.4. Gli Atti degli Apostoli

34. A Luca è attribuito non solo il Vangelo ma anche il libro degli Atti degli Apostoli (cf. Lc 1,1-4; At 1,1). Luca indica esplicitamente come fonte del suo vangelo coloro che furono “i testimoni oculari fin da principio e divennero ministri della Parola” (Lc 1,2), suggerendo in questo modo che il suo vangelo proviene da Gesù, ultimo e supremo rivelatore di Dio Padre. Non presenta nella stessa maniera esplicita la fonte del libro degli Atti e la sua provenienza da Dio. Notiamo però, da un lato, che i nomi nella lista degli Apostoli sono identici in At 1,13 e in Lc 6,14-16 (eccetto Giuda) e, d’altro lato, che negli Atti viene messa in rilievo la loro qualità di testimoni oculari (At 1,21-22; 10,40-41) e il compito di essere ministri della Parola (At 6,2; cf. 2,42). Luca descrive quindi negli Atti l’attività di coloro di cui parla in Lc 1,2, che costituiscono quindi la fonte per entrambe le sue opere.

Possiamo supporre che Luca si sia informato sulla loro attività (argomento del libro degli Atti) con la stessa cura (cf. Lc 1,3) con cui ha fatto, per mezzo loro, le sue ricerche sull’attività di Gesù.

Il dato fondamentale per la provenienza del libro degli Atti da Dio è il rapporto personale immediato con Gesù di questi “testimoni oculari e ministri della Parola”. Il loro rapporto con Gesù si mostra poi in particolare nei loro discorsi e azioni, nell’operare dello Spirito Santo, nell’interpretazione delle Sacre Scritture. Esponiamo allora concretamente questi diversi elementi che attestano la provenienza del libro degli Atti da Gesù e da Dio.

a. Il rapporto personale immediato degli apostoli con Gesù

Il libro degli Atti riferisce la proclamazione del Vangelo da parte degli apostoli, specialmente attraverso Pietro e Paolo. Nella parte iniziale del libro Luca ne presenta la lista, con Pietro e con gli altri dieci apostoli (At 1,13). Questi Undici sono il nucleo della comunità alla quale si manifesta il Signore risorto (cf. Lc 24,9.33) e costituiscono un ponte essenziale fra il vangelo di Luca e il libro degli Atti (cf. At 1,13.26).

L’identità dei nomi nella lista di Lc 6,14-16 e in quella di At 1,13 intende ribadire il lungo e intenso rapporto personale di ognuno degli Apostoli con Gesù. Ciò costituì un loro privilegio durante l’attività di Gesù; e ciò li rende protagonisti del libro degli Atti. Questi apostoli (At 1,2) sono anche gli interlocutori e i commensali di Gesù prima della sua ascensione (At 1,3-4). A loro ha promesso “la forza dello Spirito Santo”, destinandoli ad essere suoi testimoni “fino ai confini della terra” (At 1,8). Tutte queste precisazioni  favoriscono l’assunzione del racconto degli Atti come proveniente da Gesù e da Dio.

Anche Paolo, protagonista della seconda parte del libro degli Atti, è caratterizzato dal suo rapporto personale immediato con Gesù. Il suo incontro con il Signore risorto viene raccontato e messo in rilievo tre volte (At 9,1-22; 22,3-16; 26,12-18). Paolo stesso afferma chiaramente la provenienza divina del suo vangelo: “Infatti io non l’ho ricevuto né l’ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo” (Gal 1,12). Le sezioni del libro con il “noi” (At 16,10-18; 20,5-15; 21,1-18; 27,1–28,16) evocano il rapporto dell’autore del libro con Paolo e attraverso Paolo con Gesù.

b. I discorsi e le azioni degli apostoli

35. L’attività degli apostoli riferita dal libro degli Atti manifesta il loro molteplice rapporto con Gesù.

I discorsi di Pietro (At 1,15-22; 2,14-36; 3,12-26; 10,34-43) e Paolo (per es. At 13,16-41) sono sommari significativi della vita e del ministero di Gesù. Ne presentano i dati fondamentali: la sua appartenenza alla discendenza di Davide (13,22-23), la sua connessione con nazaret (2,22; 4,10), il suo ministero cominciando dalla Galilea (10,37-39). Speciale rilievo viene accordato alla sua passione e morte per la quale sono coinvolti i Giudei (2,23; 3,13; 4,10-11) e i pagani (2,23; 4,26-27), Pilato (3,13; 4,27; 13,28) ed Erode (4,27); come anche al supplizio della croce (5,30; 10,39; 13,29); alla sepoltura (13,29) e alla risurrezione da parte di Dio (2,24.32; ecc.).

Presentando la risurrezione di Gesù, viene sottolineato l’operare del Padre, in opposizione all’agire degli uomini: “Voi l’avete crocifisso e l’avete ucciso. Ora Dio lo ha risuscitato, liberandolo dai dolori della morte” (2,23-24; cf. 3,15; ecc.). Dio ha innalzato Gesù alla sua destra (2,33; 5,31) e lo ha glorificato (3,13). Si sottolinea così lo strettissimo rapporto di Gesù con Dio e al tempo stesso la provenienza da Dio di ciò che si racconta. I titoli cristologici del vangelo di Luca si trovano anche nel libro degli Atti: Cristo (2,31; 3,18), Signore (2,36; 11,20), Figlio di Dio (9,20; 13,33), salvatore (5,31; 13,23). In genere è Dio la fonte di questi titoli in cui si esprimono la qualifica e il compito che Egli ha attribuito a Gesù (cf. 2,36; 5,31; 13,33).

Anche le azioni miracolose collegano gli apostoli con Gesù. I miracoli di Gesù erano segni del regno di Dio (Lc 4,18; 11,20; cf. At 2,22; 10,38). Egli ha affidato tale compito ai Dodici (Lc 9,1). Il libro degli Atti in modo generico menziona “prodigi e segni” (2,43; 5,12; 14,3) come opere degli apostoli. Riporta anche singoli miracoli, come guarigioni (3,1-10; 5,14-16; 14,8-10), esorcismi (5,16; 8,7; 19,12), resurrezioni di morti (9,36-42; 20,9-10). Gli apostoli effettuano queste azioni nel nome di Gesù, con la sua forza e autorità (3,1-10; 9,32-35).

L’attività degli apostoli  è totalmente determinata da Gesù, proviene da lui e riconduce a lui e a Dio Padre. Gli Atti sottolineano pure la continuità del piano divino, adempiuto in Gesù Cristo e continuato poi nella Chiesa. Nei miracoli in particolare, Luca vede la conferma divina della missione apostolica, come avvenne per quella di Mosè (7,35-36) e dello stesso Gesù (2,22).

c. L’opera dello Spirito Santo

36. Il rapporto degli apostoli con Gesù si verifica anche mediante lo Spirito Santo che Gesù ha promesso e mandato loro e nel quale realizzano la loro opera.

Il Signore risorto annuncia loro “la promessa del Padre” (At 1,4; cf. Lc 24,49), il battesimo “in Spirito Santo” (At 1,5), “la forza dello Spirito Santo” (At 1,8). Il giorno della Pentecoste lo Spirito Santo scende su di loro e “tutti furono colmati di Spirito Santo” (At 2,4),  Spirito promesso dal Padre ed effuso da Gesù innalzato alla destra di Dio (At 2,33). In questo Spirito “Pietro con gli Undici” (At 2,14) rende vigorosamente la prima testimonianza pubblica all’opera e alla risurrezione di Gesù (At 2,14-41).

Nel sommario sulla vita della Chiesa di Gerusalemme l’attività apostolica è riassunta in questi termini: “Con grande forza gli apostoli davano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù.” (4,33; cf. 1,22; ecc.); e tale testimonianza avviene sotto l’influsso dello Spirito (4,8.31; ecc.). In modo identico viene definito il ministero di Paolo, che proclama la risurrezione di Gesù (13,30.37), ed è ripieno di Spirito Santo (cf. 9,17; 13,2.4.9).

d. Il compimento dell’Antico Testamento

37. Nel vangelo di Luca si narra come il Signore risorto ha spiegato ai suoi discepoli le Sacre Scritture, facendo loro capire che nella sua passione, morte e risurrezione si realizza il piano salvifico di Dio preannunciato da Mosè, dai Profeti e dai Salmi (Lc 24,27.44). Nel libro degli Atti si trovano all’incirca 37 citazioni dell’Antico Testamento, in gran parte nei discorsi che pietro, Stefano e Paolo rivolgevano a un uditorio giudaico. Il riferirsi ai testi ispirati, mostrandone il compimento in Gesù, conferisce analogo valore alle parole dei predicatori cristiani.

Vengono connessi con le Scritture sia gli eventi cristologici che costituiscono il contenuto della predicazione, sia i fatti concomitanti. Nel discorso inaugurale di Pentecoste, Pietro spiega il prodursi di fenomeni straordinari, causati dalla venuta dello Spirito (At 2,4-13.15) alla luce della profezia di Gioele 3,1-5. Alla fine del libro, si racconta che Paolo interpreta il rifiuto del suo annuncio da parte dei giudei romani (At 28,23-25) ricorrendo alla profezia di Isaia 6,9-10. Ciò che accade all’inizio e alla fine del ministero apostolico viene collegato con la Parola profetica di Dio. Questa sorta di inclusione può insinuare l’idea che tutto ciò che accade e viene riferito in questo libro corrisponde al piano salvifico di Dio.

Riguardo ai contenuti della predicazione apostolica ci limitiamo a pochi esempi. Pietro conferma l’annuncio della risurrezione di Gesù (2,24) mediante la citazione del Sal 16,8-11 attribuito a Davide (2,29-32). Fonda l’esaltazione di Gesù alla destra di Dio (2,33) con il Sal 110,1 attribuito anch’esso a Davide. Ci sono pure, in modo globale, i riferimenti a tutti i profeti per bocca dei quali Dio ha preannunciato il destino di Gesù (cf. 3,18.24; 24,14; 26,22; 28,23). Paolo presenta la risurrezione di Gesù come compimento della promessa fatta ai padri e cita il Sal 2,7 (At 13,32-33).

Il libro degli Atti attesta in modo speciale il modo con cui la Chiesa primitiva non solo ha ricevuto come sua propria eredità le Scritture ebraiche, ma si è anche appropriata del vocabolario e della teologia dell’ispirazione, come risulta dal modo di citare i testi dell’Antico Testamento. Così, sia all’inizio (At 1,16) sia alla fine del libro (At 28,15) viene dichiarato che lo Spirito Santo parla per mezzo degli autori e dei testi biblici. All’inizio, le Scritture – dichiarate adempiute da Gesù – sono caratterizzate come “ciò che fu predetto dallo Spirito Santo” (1,16; cf. anche 4,25), e, alla fine, le parole di Paolo – che concludono i due volumi dell’opera lucana – citano Is 6,9-10 in termini simili: “Ha detto bene lo Spirito Santo per mezzo del profeta Isaia, ai vostri padri” (28,25). Questa modalità di riferirsi allo Spirito Santo che parla nella parola biblica usando come intermediari degli autori umani è il modello assunto dai cristiani, non solo per descrivere le Scritture ebraiche ispirate, ma anche per caratterizzare la predicazione apostolica. Gli Atti presentano infatti la predicazione dei missionari cristiani, in particolare quella di Pietro (4,8) e di Paolo (13,9) in modo analogo al discorso profetico dell’Antico Testamento e al ministero di Gesù: sono espressioni verbali (in forma orale più che scritta) che vengono dalla pienezza dello Spirito.

e. Conclusione

38. Caratteristico del libro degli Atti è il riferire l’attività dei “testimoni oculari e ministri della Parola” i quali hanno un molteplice rapporto con Gesù. Essi sono innanzitutto testimoni della risurrezione di Gesù, che attestano sulla base degli incontri con il Signore risorto e nella forza dello Spirito Santo. Presentano la storia di Gesù come compimento del disegno salvifico di Dio, riferendosi all’Antico Testamento, e vedono nella stessa luce la propria attività. Tutto ciò che viene raccontato proviene da Gesù e da Dio. Attraverso questa chiara qualità dell’argomento del libro degli Atti anche il testo proviene da Gesù e da Dio.

3.5. Le lettere dell’Apostolo Paolo

39. Paolo attesta la provenienza divina delle Scritture d’Israele, del suo vangelo, del suo ministero apostolico e delle sue lettere.

a. Paolo attesta l’origine divina delle Scritture.

Paolo riconosce senza ambiguità l’autorità delle Scritture, attesta la loro origine divina, e le vede come profezie del Vangelo.

Per Sacre Scritture (cf. Rm 1,2) Paolo designa i libri ricevuti dalla tradizione giudaica di lingua greca. Non si interroga mai sulla loro verità o sulla loro ispirazione. Essendo un credente ebreo, egli li riceve come testimoni della volontà e del piano salvifico di Dio per l’umanità. Con i suoi correligionari, egli crede nella loro verità, nella loro santità e nella loro unità. Per mezzo di essi Dio si comunica a noi, ci interpella e ci manifesta la sua volontà (Rm 4,23-25; 15,4; 1 Cor 9,10; 10,4.11).

Si deve subito aggiungere che Paolo legge e accoglie le Scritture come profezie di Cristo e dei nostri tempi (Rm 16,25-26), in altri termini come profezie di una salvezza offerta in e per mezzo di Gesù Cristo e per ciò come profezie del Vangelo (Rm 1,2): esse sono cristologicamente orientate e devono essere lette come tali (2 Cor 3).

Come parola di Dio e testimonianza a favore del Vangelo, le Scritture confermano l’unità e la stabilità del piano salvifico di Dio, che è stato il medesimo sin dall’inizio (Rm 9,6-29).

b. Paolo attesta l’origine divina del suo Vangelo.

40. Nel primo capitolo della sua lettera ai Galati, Paolo riconosce di avere, a motivo dello zelo per la Legge, perseguitato la Chiesa, ma confessa che Dio, nella sua infinita bontà, gli rivelò il suo Figlio (Gal 1,16; cf. Ef 3,1-6). Per mezzo di questa rivelazione, Gesù di Nazaret, che per Paolo era in precedenza un bestemmiatore, uno pseudo-messia, divenne il Risorto, il Messia glorioso, vincitore della morte, il Figlio di Dio. Nella stessa lettera, in Gal 1,12, egli dichiara che il suo Vangelo gli fu rivelato; e per Vangelo dobbiamo intendere le componenti principali dell’itinerario e della missione di Gesù, almeno la sua morte e risurrezione salvifiche.

In Gal 1–2 Paolo annuncia poi che il suo Vangelo non include la circoncisione. In altre parole, egli dichiara che, secondo ciò che gli è stato rivelato, non è necessario farsi circoncidere e diventare suddito della legge mosaica per ereditare le promesse escatologiche. Per Paolo, sottomettere alla circoncisione i cristiani di origine non ebraica non è una questione periferica o aneddotica, ma tocca il cuore del Vangelo. Egli infatti dichiara fermamente che chi si farà circoncidere – per diventare suddito della legge mosaica ed ottenere per essa la giustizia – renderà vana per se stesso la morte in croce di Cristo: “Io, Paolovi dico: se vi fate circoncidere, Cristo non vi gioverà a nulla” (Gal 5,2; cf. 5,4; 2,21). La posta in gioco è dunque il Vangelo stesso, un Vangelo che gli fu rivelato e che, per conseguenza, non può essere modificato.

Come mostra Paolo in Gal 1-2 che il suo Vangelo – di cui la circoncisione non fa parte – è di origine divina? Egli comincia col dire che tale configurazione del Vangelo non può venire da lui, perché, quando era fariseo, vi si era ferocemente opposto, e perché, se adesso annunzia il contrario di ciò che pensava prima, non è per instabilità intellettuale: tutti i suoi correligionari sapevano bene infatti che era fermo nelle sue convinzioni (Gal 1,13-14). Paolo mostra poi che il suo Vangelo non può venire dagli altri apostoli, non soltanto perché lui li visitò molto tempo dopo l’incontro con Cristo, ma anche perché non esitò a contrastare Pietro, il più noto degli apostoli, quando questi ebbe una posizione che faceva in effetti della circoncisione un fattore di discriminazione tra cristiani (Gal 2,11-14). Infine, poiché il suo Vangelo gli è stato rivelato, ha dovuto anch’egli obbedire a ciò che Dio gli aveva fatto conoscere. Ecco perché può dire, all’inizio della stessa lettera ai Galati: “Se anche noi stessi, oppure un angelo dal cielo vi annunciasse un vangelo diverso da quello che vi abbiamo annunciato, sia anatema!” (Gal 1,8; cf. 1,9).

Perché Paolo ha voluto porre l’accento sull’indole rivelata del suo Vangelo? Una tale origine divina era infatti contestata da missionari giudaizzanti, poiché la circoncisione era imposta da un oracolo divino apodittico della legge mosaica (Gen 17,10-14). Ora, Gen 17,10-14 afferma che per ottenere la salvezza bisogna appartenere alla famiglia di Abramo e, per questo motivo, essere circoncisi. In due delle sue lettere, Galati e Romani, Paolo deve così mostrare che il suo Vangelo non va contro le Scritture e non contraddice Gen 17,10-14, passo che non ammette eccezioni. Paolo non può, infatti, dichiarare che questo oracolo non ha più valore, perché è riconosciuto come obbligatorio da tutti gli ebrei osservanti. Non potendo farne a meno, Paolo deve interpretarlo diversamente, ma non può farlo se non sollecitando altri passi scritturistici (Gen 15,6 e Sal 32,1-2 in Rm 4,3.6), che costituiscano la norma a partire dalla quale Gen 17,10-14 deve essere interpretato.

c. Il ministero apostolico di Paolo e la sua origine divina.

41. Paolo ha anche dovuto insistere sull’origine divina del suo apostolato, perché alcuni, nel gruppo degli apostoli, lo denigravano, e minimizzavano il valore del suo Vangelo; anche se aveva incontrato il Risorto, non faceva parte del gruppo di quelli che avevano vissuto con Gesù ed erano testimoni del suo insegnamento, dei suoi miracoli e della sua passione. Ecco perché egli insiste sul fatto che è stato messo a parte e chiamato dal Signore per essere apostolo delle genti (Rm 1,5; 1 Cor 1,1; 2 Cor 1,1; Gal 1,1). Ecco anche perché, nel lungo elogio che fa di se stesso in 2 Cor 10–13, egli menziona le rivelazioni ricevute dal Signore (2 Cor 12,1-4). Non si tratta di una esagerazione retorica o di una pia bugia per mettere in risalto il suo stato di apostolo, ma di una semplice attestazione di verità. Nell’auto-elogio di 2 Cor 10–13, Paolo insiste molto meno sulle rivelazioni eccezionali di cui fu destinatario e mette maggiormente in luce le sofferenze apostoliche per le chiese, perché la potenza di Dio si manifesta pienamente attraverso le sue fragilità. In altre parole, quando rende note le rivelazioni ricevute da Dio, Paolo non lo fa per essere ammirato dalle chiese, ma per mostrare che i tratti dell’apostolo autentico sono piuttosto le fatiche e le sofferenze. La sua attestazione è perciò degna di fede.

Paolo rileva anche in Gal 2,7-9 che, quando andò a Gerusalemme, Giacomo, Pietro e Giovanni, i più autorevoli e influenti fra gli apostoli hanno riconosciuto che Dio l’aveva costituito apostolo delle genti. Paolo non è dunque l’unico ad affermare l’origine divina della sua vocazione, poiché essa è stato riconosciuta dalle autorità ecclesiali di allora.

d. Paolo attesta l’origine divina delle sue lettere.

42. Paolo non dichiara solo l’origine divina del suo apostolato e del suo Vangelo. Il fatto, che il suo Vangelo gli sia stato rivelato non garantisce automaticamente la correttezza e l’affidabilità della sua trasmissione. Ecco perché egli ricorda proprio all’inizio delle sue lettere la sua chiamata e il suo mandato apostolico; per esempio, in Rm 1,1 si definisce così: “Paolo, servo di Cristo Gesù, apostolo per chiamata, scelto per annunciare il vangelo di Dio”. Sostiene che le sue lettere trasmettono fedelmente il suo Vangelo e vuole che siano lette da tutte le chiese (cf. Col 4,16).

Perfino le direttive disciplinari che non sono direttamente collegate al Vangelo devono essere accolte dai credenti delle diverse chiese come se fossero un comando del Signore (1 Cor 7,17b; 14,37). Certo, Paolo non attribuisce la medesima autorevolezza a tutti i suoi enunciati, come lo mostra l’argomentazione casistica di 1 Cor 7, ma, perché spesso spiegano e giustificano il suo Vangelo, le sue argomentazioni (cf. Rm 1-11 e Gal 1-4) si presentano in qualche modo come una nuova e autorevole interpretazione del Vangelo stesso.

3.6. La lettera agli Ebrei     

43. L’autore della lettera agli Ebrei non esplicita alcuna pretesa di autorità apostolica, a differenza di Paolo che afferma di aver ricevuto il vangelo direttamente da Cristo (Gal 1,1.12.16).

Ci sono però, al proposito, due passi di eccezionale importanza: 1,1-2, dove l’autore fa una sintesi della storia della rivelazione di Dio agli uomini, e mostra la stretta connessione della divina rivelazione nei due Testamenti, e 2,1-4, dove si presenta come appartenente alla seconda generazione cristiana, come uno che ricevette la parola di Dio, il messaggio di salvezza, non direttamente dal Signore Gesù, ma attraverso i testimoni di Cristo, dai discepoli che lo ascoltarono.

a. La storia della rivelazione di Dio

All’inizio del suo scritto l’autore constata: “Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri nei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi nel Figlio” (Eb 1,1-2). In questa ammirevole frase iniziale, l’autore traccia la storia completa della Parola di Dio indirizzata all’uomo. Il passo è di una singolare importanza per il tema della rivelazione e ispirazione e merita un’attenta spiegazione.

Vi si afferma solennemente un fatto capitale: Dio cercò di entrare in relazione personale con gli uomini. Per questo incontro prese l’iniziativa Egli stesso: Dio parlò. Il verbo usato non ha un complemento diretto, non si precisa il contenuto di questa parola. Invece, si nominano le persone messe in relazione: Dio, i padri, i profeti, noi, il Figlio. La parola di Dio non è presentata qui come rivelazione di verità, ma come mezzo per stabilire relazioni tra le persone.

Nella storia della Parola di Dio, si distinguono due tappe principali. La ripetizione dello stesso verbo “parlare” esprime una continuità evidente, e il parallelismo delle due frasi fa risaltare la somiglianza dei due interventi. Ma le differenze segnalano la diversità di epoca, di modo, di destinatari e di mediatori.

Per quanto riguarda l’epoca, al primo dato (“nei tempi antichi”), semplicemente cronologico, se ne contrappone un altro più complesso. L’autore ricorre a una espressione biblica, “ultimamente”, che indicava vagamente il tempo futuro (cf. Gen 49,1), ma il cui significato si specializzò e si applicò al tempo dell’intervento divino definitivo, ”l’ultima era” (Ez 38,16; Dn 2,28; 10,14). L’autore riprende la formula, ma aggiunge una nuova determinazione: “in questi giorni” (che stiamo vivendo). Precisazione minima dal punto di vista materiale, che manifesta però un cambio di prospettiva radicale. Nell’Antico Testamento l’intervento decisivo di Dio si situava sempre nell’oscurità dell’avvenire. Qui l’autore afferma che l’ultima era è già presente, perché un’era nuova è stata inaugurata dalla morte e dalla risurrezione di Cristo (At 2,17; 1 Cor 10,11; 1 Pt 1,20). Se “questi giorni” formano parte dell’ultima era, l’ultimo giorno non è ancora arrivato (cf. Gv 6,39; 12,48); si avvicina soltanto (10,25). Ma fin da ora l’esistenza cristiana partecipa ai beni definitivi, promessi per gli ultimi tempi (6,4-5; 12,22-24.28). La relazione di Dio con gli uomini ha cambiato livello: si è passati dalla promessa alla realizzazione, dalla prefigurazione al compimento. La differenza è qualitativa.

Il modo in cui la parola di Dio è presentata non è lo stesso nei due periodi della storia della salvezza. Nei tempi antichi si caratterizzò per la molteplicità: “molte volte” (o più letteralmente: “in parti multiple”, “in modo frammentario”) e “in molti modi”. In questa molteplicità c’è una ricchezza. Dio, instancabilmente (cf. Ger 7,13), trovò i mezzi per arrivare a noi: dando ordini, facendo promesse, castigando i ribelli, confortando i sofferenti, utilizzando tutte le forme di espressione possibili come teofanie terribili, visioni consolatorie, oracoli brevi o grandi affreschi di storia, predicazione dei profeti, canti e riti liturgici, leggi, racconti. Ma la molteplicità è anche un indice di imperfezione (cf. 7,23; 10,1-2.11-14). Dio si espresse parzialmente. Da buon pedagogo, cominciò col dire le cose elementari nella forma più accessibile. Parlò di eredità e di terra, promise e realizzò la liberazione del suo popolo, lo dotò di istituzioni temporanee: dinastia regale, sacerdozio ereditario. Ma tutto questo non era che una prefigurazione. Nella fase finale, la Parola di Dio fu donata totalmente, in modo definitivo e perfetto. Le ricchezze disperse delle epoche precedenti furono riunite e portate al loro culmine nell’unità del mistero di Cristo.

Alla successione dei periodi corrisponde un cambio di uditorio per la Parola. Quella dei tempi antichi fu indirizzata “ai padri”, in senso ampio, cioè all’insieme delle generazioni che ricevettero il messaggio profetico (cf. 3,9). La parola definitiva fu indirizzata “a noi”. Il pronome “noi” include l’autore e i destinatari del suo scritto, ma anche i testimoni auricolari (cf. 2,3) e i loro contemporanei.

Per parlare dei mediatori, l’autore utilizza un’espressione curiosa, poco comune: Dio parlò “nei” profeti, “nel” Figlio; normalmente si dice “per mezzo di” (Mt 1,22; 2,15; ecc.; At 28,25). L’autore poté avere davanti agli occhi la presenza attiva di Dio stesso nei suoi messaggeri. E’ l’unico senso che conviene alla seconda espressione: “nel Figlio”. Ai profeti in senso ampio, cioè a tutti coloro di cui la Bibbia ci racconta gli interventi, succede un ultimo messaggero che è “Figlio”. La posizione scelta per il suo nome, alla fine della frase, concentra l’attenzione su di lui. Appena è nominato, non si parlerà più che di lui (1,2-4). L’incontro di Dio con l’uomo si effettua solo in lui. Dio inviò prima “i suoi servi i profeti” (Ger 7,25; 25,4; 35,15; 44,4); adesso il suo messaggero non è più un semplice servo, è “il Figlio”. Parlando per mezzo dei profeti, Dio si diede a conoscere, però indirettamente, per interposta persona; adesso l’incontro con la Parola di Dio si realizza nel Figlio. Ormai non è più un uomo diverso da Dio colui che adesso ci parla, ma una persona divina, la cui unità col Padre viene espressa con le formule più forti che l’autore poté trovare: “irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza” (1,3). Non bastò a Dio il rivolgersi a noi assumendo il nostro linguaggio; Egli venne, nella persona di Gesù Cristo, a condividere realmente la nostra esistenza e a parlare non solo il linguaggio delle parole, ma anche quello della vita offerta e del sangue sparso.

b. Il rapporto dell’autore con la rivelazione del Figlio

44. Svolto un aspetto della sua dottrina, la parola di Dio indirizzata all’uomo nei profeti e nel Figlio (1,1-14), l’autore ne precisa subito la connessione con la vita e indica il suo proprio rapporto con il Figlio: “Per questo bisogna che ci dedichiamo con maggiore impegno alle cose che abbiamo ascoltato, per non andare fuori rotta. Se, infatti, la parola trasmessa per mezzo degli angeli si è dimostrata salda, e ogni trasgressione e disobbedienza ha ricevuto giusta punizione, come potremo noi scampare se avremo trascurato una salvezza così grande? Essa cominciò a essere annunciata dal Signore, e fu confermata a noi da coloro che l’avevano ascoltata, mentre Dio ne dava testimonianza con segni e prodigi e miracoli di ogni genere e doni dello Spirito Santo, distribuiti secondo la sua volontà” (Eb 2,1-4).

I cristiani sono invitati a prestare una maggiore attenzione alla parola ascoltata. Non basta ascoltare il messaggio; occorre aderire ad esso con tutto il cuore e tutta la vita. Senza una seria adesione al vangelo, si corre il rischio di andare fuori rotta (cf. 2,1). Chi si allontana da Dio non può che perdersi e perire. Mentre chi si sforza di aderire al messaggio ascoltato, si avvicina a Dio (cf. 7,19) e incontra la salvezza.

Dopo avere introdotto il suo tema (cf. 2,1), l’autore lo sviluppa in una lunga frase (cf. 2,2-4). Basa la sua argomentazione su un confronto tra gli angeli e il Signore. L’unico elemento identico nelle due parti è l’espressione ”annunciato da”. La ”parola” fu annunciata dagli angeli; la ”salvezza” cominciò ad essere annunziata dal Signore.

Riferendosi alla “parola”, l’autore ha davanti agli occhi la promulgazione della Legge avvenuta al Sinai. L’espressione ”salvezza” è inaspettata. Ci si attenderebbe un termine parallelo a ”la parola”. Questa imperfezione del parallelismo è ricca di contenuto. Manifesta una differenza profonda tra l’Antico Testamento e il Nuovo Testamento. Nell’antica alleanza si ha solo una ”parola”, una legge esterna che comanda e castiga. Nella nuova alleanza viene offerta una vera salvezza. Che scusa c’è, allora, per coloro che respingono la salvezza? In essi, all’indocilità si aggiunge l’ingratitudine. Non respingono un’esigenza; si chiudono all’amore.

Un lungo discorso in proposito indica tre caratteristiche della salvezza e mostra come essa raggiunge l’autore e i destinatari del suo scritto: la predicazione del Signore, il ministero dei primi discepoli, la testimonianza da parte di Dio (cf. 2,3b-4). La prima caratteristica della salvezza è che cominciò ad essere annunciata dal Signore. L’autore non utilizza un verbo semplice: ”cominciare”, ma una solenne perifrasi: ”aver inizio”. Forse una discreta allusione a Gen 1,1. La salvezza costituisce una nuova creazione. Il titolo di ”Kyrios” designa Cristo, il Figlio che è l’ultimo rivelatore mandato da Dio (cf. 1,2). La salvezza da lui rivelata costituisce il culmine dell’opera salvifica di Dio. L’annuncio fatto dal Signore giunge “a noi” (2,3; l’autore e i destinatari del suo scritto) attraverso il ministero di testimoni auricolari che sono i primi discepoli di Gesù. Dio, da cui tutta la rivelazione e salvezza proviene (cf. 1,1-2) conferma il ministero dei discepoli con segni e miracoli e doni dello Spirito Santo (cf. At 5,12; Rm 15,19; 1 Cor 12,4.11; 2 Cor 12,12).

Dopo aver designato sinteticamente tutta la storia della rivelazione (1,1-2) l’autore mostra (2,1-4) che egli, e di conseguenza il suo scritto, è connesso con il Figlio e con Dio attraverso il ministero dei testimoni auricolari del Signore.               

3.7. L’Apocalisse

45.  Il termine “ispirazione” non è presente nell’Apocalisse, ma vi si trova la realtà che il termine intende, quando viene ravvisato nel testo un rapporto di dipendenza, stretta e diretta, proprio da Dio. Incontriamo questa situazione nel prologo (1,1-3); la ritroviamo in 1,10 e 4,2, quando Giovanni, in rapporto con quello che sarà il contenuto del libro, viene messo in un contatto particolare con lo Spirito e quando, in 10,8-11, gli viene rinnovata la missione profetica rispetto al “piccolo rotolo”; ricorre infine nel dialogo liturgico conclusivo, quando viene sottolineata la sacralità intangibile di tutto il messaggio, ormai giunto allo stato di libro (22,18-19). In contatto con questi brani abbiamo una prima comprensione di quella che è l’ispirazione presente nell’Apocalisse.

a. La provenienza del testo da Dio secondo il prologo (1,1-3)

Una lettura attenta del prologo dell’Apocalisse ci fornisce una documentazione, interessante e dettagliata, del tragitto che porta, rispetto al testo dell’Apocalisse, dal puro livello di Dio al livello concreto di un libro leggibile nell’assemblea liturgica.

Constatiamo un primo aggancio esplicito al livello di Dio proprio all’inizio del testo: la “rivelazione” è “di Gesù Cristo” (1,1a). Ma Gesù Cristo non è l’inventore della rivelazione. Lo è Dio, che potremmo intendere, secondo l’uso costante neotestamentario del termine, come “il Padre”. Scaturita dal Padre e donata al Figlio Gesù Cristo, trovandosi così, potremmo dire, in contatto intimo con Dio, la rivelazione ne riceve e mantiene l’impronta.

Dal livello di Dio si scende poi al livello dell’uomo. E’ qui che ci incontriamo con Gesù Cristo: tutto quello che è di Dio-Padre si ritrova in lui, la “Parola di Dio” vivente. Quando Gesù Cristo si rivolgerà agli uomini, apparirà loro, di conseguenza, come un testimone totalmente affidabile, capace di cogliere in pieno, in quanto Figlio a livello trinitario, il contenuto del Padre da cui tutto deriva, e, in quanto Figlio incarnato, in grado di comunicarlo adeguatamente agli uomini.

Così la rivelazione entra in contatto con Giovanni. E ciò avviene con una modalità particolare: il Padre, mediante Gesù Cristo che ne è il portatore, esprime la rivelazione “in segni” simbolici che vengono percepiti, “visti”, da Giovanni e da lui compresi adeguatamente tramite la mediazione di un angelo che li spiega. Giovanni, a sua volta, esprime la rivelazione di cui è venuto in possesso in un suo messaggio alle chiese, e, a questo punto, la rivelazione diventa un testo scritto. Il contatto con il Padre e col Figlio incarnato che ha dato origine al testo vi rimane anche in seguito, diventandone una qualifica permanente. Quando, come ultimo passo del suo divenire, la rivelazione scritta verrà annunciata all’assemblea liturgica, assumerà una forma di profezia.

b. La trasformazione di Giovanni operata dallo Spirito in vista di Cristo (1,10; 4,1-2)

46. All’inizio della prima (1,4-3,22) e della seconda parte (4,1-22,5) del suo testo, l’autore dell’Apocalisse, che si identifica letterariamente con Giovanni, offre una precisazione interessante sul dinamismo rivelativo che, partendo dal Padre e passando attraverso Gesù Cristo, arriva finalmente a lui: avviene un intervento particolare dello Spirito Santo che, trasformandolo, pone Giovanni in un contatto rinnovato con Gesù Cristo con l’effetto di conoscerlo meglio.

Ciò si verifica anzitutto all’inizio della prima parte del libro (1,10), con riferimento a tutta la parte. Relegato nell’isola di Patmos, col pensiero e col cuore nella sua comunità della lontana Efeso, Giovanni avverte, “nel giorno di domenica” caratteristico dell’assemblea liturgica, un tocco dello Spirito che si fa presente in una maniera nuova: “divenni nello Spirito nel giorno di domenica”. Il “divenire” per mezzo dello Spirito e in contatto con esso, comporta in Giovanni una trasformazione interiore che, pur non raggiungendo necessariamente un livello estatico, lo abilita a cogliere e a interpretare il segno simbolico complesso che gli sarà subito presentato. Ne deriverà in Giovanni una nuova esperienza esistenziale, conoscitiva e affettiva, di Gesù Cristo risorto, dal quale poi riceverà l’incarico di inviare un messaggio scritto alle sette chiese (cf. 1,10b-3,22).

Questo contatto speciale con lo Spirito si rinnova all’inizio (4,1-2) della seconda parte del libro (4,1-22,5): “subito divenni nello Spirito” (4,2) e si mantiene inalterato fino alla conclusione. Il nuovo tocco dello Spirito tende, come quello precedente, a trasformare interiormente Giovanni. E’ preceduto da un intervento di Gesù Cristo, il quale dice a Giovanni di spostarsi dalla terra al livello del cielo. In forza di questo secondo “divenire nello Spirito”, Giovanni sarà in grado di percepire i tanti “segni” che Dio gli darà per mezzo di Gesù Cristo e di esprimerli adeguatamente nel testo. Questo contatto rinnovatore con lo Spirito verrà poi richiamato in alcuni punti particolarmente significativi in rapporto con Gesù Cristo. Ciò accade in 17,3 prima della presentazione, particolarmente complessa, del giudizio della “grande prostituta" (17,3-18,24), quella che, sotto l’influsso del Demoniaco, realizza nella storia l’opposizione più radicale ai valori di Gesù Cristo. Poi, quando sarà mostrato il grande “segno” conclusivo della Gerusalemme Nuova, che presenterà il rapporto ineffabile di amore tra Gesù Cristo Agnello e la Chiesa divenuta sua sposa, ci sarà per Giovanni un richiamo ulteriore allo Spirito (Ap 21,10), che lo aprirà alla più alta comprensione di Gesù Cristo. Questa dilatazione prodotta dallo Spirito in vista di un “di più” di Gesù Cristo passerà da Giovanni al suo scritto e tenderà a collocarsi nel lettore-ascoltatore.

c. Il coinvolgimento umano per esprimere il messaggio profetico (10,9-11)

47. Ma come si sviluppa nell’uomo questa dilatazione nello Spirito? Troviamo un’indicazione interessante in proposito in 10,9-11. Un angelo, solenne manifestazione di Cristo (cf. 10,1-8), tiene nella mano sinistra un “piccolo rotolo”, contenente un messaggio di Dio, probabilmente il contenuto ancora grezzo di Ap 11,1-13, e invita Giovanni a prenderlo: “E mi dice: ‘Prendi e divoralo, e renderà amaro il tuo stomaco, ma nella tua bocca sarà dolce come miele’” (10,9). Al primo contatto col “piccolo rotolo”, Giovanni ne resta affascinato e sperimenta la dolcezza ineffabile della parola di Dio. Ma l’incanto della parola accolta dovrà poi cedere il passo al travaglio doloroso della sua assimilazione. La parola di Dio dovrà passare dal livello divino a quello della comunicazione umana mediante un’elaborazione faticosa dal didentro, che impegnerà l’intelligenza, l’emotività e le facoltà letterarie creative di Giovanni. Terminata questa fase laboriosa, Giovanni sarà in grado di annunciare la parola di Dio che, ormai non più allo stato grezzo, attraverso il travaglio elaborativo è divenuta anche parola dell’uomo.

d. L’intangibilità del libro ispirato (22,18-19)

48. Giunto alla fine del suo lavoro, quando il testo composto può denominarsi “questo rotolo” (22,18.19 bis), l’autore, mettendo tutto in bocca a Giovanni, fa una dichiarazione radicale sull’intangibilità del rotolo stesso.

Ispirandosi come punto di partenza a vari testi del Deuteronomio (cf. Dt 4,2; 13,1; 29,19), l’autore dell’Apocalisse ne accentua la radicalità: il libro ormai compiuto ha la completezza propria di Dio, al quale non si può aggiungere né togliere niente. Il contatto protratto, che ha avuto con Gesù Cristo tramite lo Spirito durante il suo divenire, ha impresso al messaggio del libro una sua sacralità: qualcosa di Gesù Cristo e del suo Spirito, potremmo dire, gli permane dentro, abilitando così il testo a svolgere il ruolo di una profezia che entra nella vita con la capacità di cambiarla.

e. Una prima sintesi sulla provenienza da Dio

49. Da quanto abbiamo osservato emergono, per quanto concerne il nostro tema, alcune qualifiche fondamentali del testo dell’Apocalisse. Il testo ha un’origine marcatamente divina, derivando direttamente da Dio Padre e da Gesù Cristo, al quale Dio Padre lo dona. Gesù Cristo a sua volta lo dona a Giovanni inserendone il contenuto in “segni” simbolici, che Giovanni, aiutato dall’Angelo Interprete, riuscirà a percepire. Questo contatto, iniziale e diretto, del testo col livello di Dio viene poi attivato, in tutto il decorso del libro, sia nella prima che nella seconda parte di cui si compone, dall’influsso, particolare e aderente, dello Spirito, che rinnova e dilata interiormente Giovanni, producendo costantemente in lui un salto qualitativo nella conoscenza di Gesù Cristo.

Il contenuto della rivelazione non passa automaticamente dal livello divino in cui nasce e si sviluppa a quello dell’uomo dove viene ascoltato. Il passaggio che rende la parola di Dio anche parola dell’uomo richiede da Giovanni, dopo un sussulto di gioia a un primo contatto con la parola, un’elaborazione travagliata che porta il messaggio a livello aderente all’uomo e lo rende comprensibile. Questo passaggio non fa perdere la caratteristica originaria: rimane in tutto il testo, ormai scritto definitivamente e diventato un libro, una dimensione di sacralità che sfiora il livello di Dio. Tale sacralità da una parte rende il testo assolutamente intangibile, senza possibilità di addizioni o sottrazioni, e, dall’altra attiva nel suo interno l’energia della profezia che lo rende idoneo a incidere decisamente nella vita.

Questo fascio complesso di qualifiche, da mantenere sempre unite insieme, lascia percepire come l’autore dell’Apocalisse sente ed intende gli elementi di quella che oggi denominiamo ispirazione: c’è un intervento permanente da parte di Dio Padre; c’è un intervento permanente, particolarmente ricco e articolato, di Gesù Cristo; c’è un intervento, anch’esso permanente, dello Spirito; c’è un intervento dell’angelo interprete; c’è anche, nella linea del contatto del testo con l’uomo, un intervento specifico da parte di Giovanni. Alla fine questo testo, parola di Dio venuta in contatto con l’uomo, riuscirà non solo a far comprendere il suo contenuto illuminante ma saprà anche irradiarlo nel vissuto. Sarà ispirato e ispirante.

Impressionante è il fatto che questo ultimo libro del Nuovo Testamento che contiene la più alta frequenza di riferimenti all’Antico Testamento e può apparirne una sintesi, attesta nel modo più preciso e articolato la sua provenienza da Dio e il suo carattere ispirato. E a contatto con Cristo scatta una nuova dimensione: anche l’Antico Testamento diventa ispirato e ispirante in chiave cristologica.

4. Conclusione

50. Concludendo la sezione sulla provenienza dei libri biblici da Dio (con cui illustriamo il concetto di ispirazione) da una parte riassumiamo ciò che si è manifestato sul rapporto fra Dio e gli autori umani, e mettiamo in rilievo in particolare il fatto che gli scritti del Nuovo Testamento riconoscono l’ispirazione dell’Antico Testamento e ne praticano una lettura cristologica. Apriamo d’altra parte la prospettiva, e cerchiamo di completare i risultati finora ottenuti. Alla considerazione sincronica si aggiunge un breve percorso diacronico della formazione letteraria degli scritti biblici. E lo studio di singoli scritti sarà completato mediante uno sguardo all’insieme di tutti gli scritti che sono assunti nel canone. L’ultimo aspetto sarà trattato in due parti: si presentano i pochi accenni a un canone di due testamenti che si trovano all’interno del Nuovo Testamento e si delinea la storia della formazione del canone e della ricezione dei libri biblici in Israele e nella Chiesa.

4.1. Uno sguardo complessivo sul rapporto  “Dio – autore umano”

51. Era nostra intenzione l’individuare in alcuni libri biblici gli indizi del rapporto fra coloro che li hanno scritti e Dio, in modo da evidenziare come venga attestata la loro provenienza da Dio. Ne è così scaturita una specie di fenomenologia biblica del rapporto “Dio – autore umano”. Ora, dopo una breve ripresa riassuntiva di quanto già trattato, sottolineiamo alcuni tratti caratteristici dell’ispirazione, concludendo sulla giusta modalità con cui devono essere accolti i libri ispirati.

a. Breve sintesi

Negli scritti dell’Antico Testamento il rapporto fra i diversi autori e Dio viene espresso in molteplici maniere. Nel Pentateuco Mosè appare come il personaggio istituito da Dio quale unico mediatore della sua rivelazione. In questa parte della Scrittura troviamo l’affermazione singolare che Dio stesso abbia scritto il testo dei dieci comandamenti e lo abbia consegnato a Mosè (Es 31,18); il che attesta la provenienza diretta di questo scritto da Dio. Mosè viene poi incaricato di scrivere altre parole di Dio (Es 34,27), diventando, in definitiva, mediatore del Signore per tutta la Torah (cf. Dt 31,9). I libri profetici, dal canto loro, conoscono diverse formule per esprimere il fatto che Dio comunica la sua Parola a dei messaggeri ispirati che devono trasmetterla al popolo. Mentre nel Pentateuco e nei libri profetici la Parola di Dio viene ricevuta direttamente dai mediatori scelti da Dio, troviamo una situazione diversa nei Salmi e nei libri sapienziali. Nei Salmi l’orante ascolta la voce di Dio percepita soprattutto nei grandi eventi della creazione e della storia salvifica d’Israele, ma anche in alcune peculiari esperienze personali. Analogamente, nei libri sapienziali lo studio meditativo della legge e dei profeti, ispirato dal timor di Dio, rende le diverse istruzioni un insegnamento della sapienza divina.

Nel Nuovo Testamento la persona di Gesù, la sua attività e il suo cammino costituiscono il culmine della rivelazione divina. Per tutti gli autori e gli scritti del Nuovo Testamento ogni rapporto con Dio dipende dal rapporto con Gesù. I vangeli sinottici attestano la loro provenienza divina, presentando Gesù e la sua opera rivelatrice. Questo fatto è comune a tutti e quattro i vangeli, ma non senza particolari sfumature. Matteo e Marco si identificano con la persona e l’opera di Gesù; presentano, in forma narrativa, la sua attività, la sua passione e la sua risurrezione quale suprema conferma divina di tutte le sue parole e di tutte le affermazioni sulla sua identità. Luca, nel prologo al suo vangelo, spiega come la sua narrazione sia basata sul confronto con testimoni oculari e ministri della Parola. Giovanni infine asserisce di essere testimone oculare dell’opera di Gesù sin dagli inizi e, istruito dallo Spirito Santo e avendo creduto nella figliolanza divina di Gesù, dà testimonianza della sua opera rivelatrice.

Gli altri scritti del Nuovo Testamento attestano in modi ancora diversi la loro provenienza da Gesù e da Dio. Mediante la stretta connessione fra le sue due opere (cf. At 1,1-2), Luca fa capire che negli Atti degli Apostoli egli riferisce l’attività post-pasquale di questi testimoni oculari e ministri della Parola (cf. Lc 1,3), dai quali dipende per la presentazione dell’opera di Gesù nel suo Vangelo. Paolo attesta di aver ricevuto da Dio Padre la rivelazione del suo Figlio (Gal 1,15-16) e di aver veduto il Signore risorto (1 Cor 9,1; 15,8), e afferma l’origine divina del suo Vangelo. L’autore della lettera agli Ebrei dipende, per la conoscenza della salvezza rivelata da Dio, dai testimoni auricolari dell’annuncio del Signore. Infine, l’autore dell’Apocalisse descrive in modo fine e differenziato come ha ricevuto la rivelazione che si trova definitivamente e immutabilmente nel suo libro: da Dio Padre per mezzo di Gesù Cristo in segni percepiti con l’aiuto di un angelo interprete.

Troviamo dunque negli scritti biblici una vasta gamma di testimonianze sulla loro provenienza da Dio, e possiamo così parlare di una ricca fenomenologia del rapporto fra Dio e l’autore umano. Nell’Antico Testamento il rapporto si verifica, in diversi modi, con Dio. Invece nel Nuovo Testamento il rapporto con Dio viene sempre mediato dal Figlio di Dio, il Signore Gesù Cristo in cui Dio ha detto la sua ultima e definitiva Parola (cf. Eb 1,1-2). Già nell’introduzione abbiamo menzionato il limite di non poter chiaramente distinguere fra rivelazione e ispirazione, fra comunicazione dei contenuti e assistenza divina all’opera dello scrivere. Fondamentale è la comunicazione divina e l’accoglienza credente dei contenuti che viene poi accompagnata dall’assistenza divina per lo scrivere. Del tutto eccezionale è il caso dei dieci comandamenti, scritti da Dio stesso e consegnati a Mosè (Es 31,18), e speciale è anche il caso dell’Apocalisse in cui viene dettagliato il processo dalla comunicazione divina alla messa per iscritto.

b. Alcuni tratti caratteristici dell’ispirazione

52. Sulla base di quanto sopra esposto in modo succinto, indichiamo ora brevemente alcuni tratti caratteristici dell’ispirazione che possono aiutare a precisare la nozione di ispirazione dei libri biblici.

Osservando nelle nostre indagini gli indizi in cui si manifesta la provenienza da Dio dei diversi scritti, abbiamo constatato come fondamentale il vivo rapporto con Dio nell’Antico Testamento, e con Dio mediante suo Figlio Gesù nel Nuovo Testamento. Questo rapporto si mostra in diverse forme. Ricordiamo, per l’Antico Testamento, la forma descritta dal Pentateuco per la relazione singolare di Mosè con Dio, la forma che si esprime nelle formule profetiche, la forma dell’esperienza di Dio che è alla base dei Salmi, la forma del timore di Dio caratteristico per i libri sapienziali. Essendo in questo rapporto e vivendolo, gli autori ricevono e riconoscono ciò che essi trasmettono nelle loro parole e nei loro scritti. Nel Nuovo Testamento, il rapporto personale con Gesù si manifesta nella forma del discepolato, il cui nucleo è la fede in Gesù Cristo Figlio di Dio (cf. Mc 1,1; Gv 20,31). Il rapporto con Gesù può essere immediato (Vangelo di Giovanni; Paolo) o mediato (Vangelo di Luca; Lettera agli Ebrei). Tale rapporto, fondamentale per la comunicazione della Parola di Dio, appare in modo particolarmente articolato e ricco nel Vangelo di Giovanni: l’autore ha contemplato la gloria del Figlio unigenito che viene dal Padre (1,14); è testimone oculare del cammino di Gesù (19,35; 21,24); dà la sua testimonianza, istruito dallo Spirito di verità (15,26-27). Qui si manifesta anche il carattere trinitario del rapporto con Dio, che è fondamentale per un autore ispirato del Nuovo Testamento.

Secondo quanto attestano gli scritti biblici, l’ispirazione si presenta come uno speciale rapporto con Dio (o con Gesù), per cui Egli dona a un autore umano di dire – mediante il suo Spirito – ciò che Egli vuole comunicare agli uomini. Viene così confermato quanto afferma la Dei Verbum (n. 11): i libri sono scritti per ispirazione dello Spirito Santo; Dio è il loro autore, perché si serve di alcuni uomini scelti, agendo in essi e per loro mezzo; questi uomini d’altra parte scrivono come veri autori.

Complementari appaiono le caratteristiche che abbiamo osservato nel nostro studio. 1. Fondamentale è il dono di un rapporto personale con Dio (fede incondizionata in Dio, timore di Dio, fede in Gesù Cristo Figlio di Dio). 2. In questo rapporto l’autore accoglie i diversi modi in cui Dio si rivela (creazione, storia, presenza di Gesù di Nazaret). 3. Nell’economia della rivelazione di Dio, che culmina nell’invio del suo Figlio Gesù, sia il rapporto personale con Dio sia il modo della rivelazione subiscono delle varianti, a seconda delle fasi e delle circostanze della rivelazione. Si trae da ciò la conclusione che l’ispirazione è analogicamente la stessa per tutti gli autori dei libri biblici (come indicato nella Dei Verbum, n. 11), ma è variegata a motivo dell’economia della rivelazione divina.

c. Il modo giusto di accogliere i libri ispirati

53. Studiando l’ispirazione degli scritti biblici, abbiamo visto l’instancabile sollecitudine di Dio di rivolgersi al suo popolo, e abbiamo anche considerato lo Spirito in cui questi libri furono scritti.

Alla premura di Dio dovrebbe corrispondere una profonda gratitudine, che si rivela in un vivo interesse e in una grande attenzione per ascoltare e comprendere quanto Dio vuole comunicarci. Lo Spirito però in cui i libri furono scritti vuole essere lo Spirito nel quale noi li ascoltiamo. Dei veri discepoli di Gesù, profondamente mossi dalla fede nel loro Signore, hanno scritto i libri del Nuovo Testamento. Questi libri vogliono essere ascoltati da veri discepoli di Gesù (cf. Mt 28,19), impregnati dalla viva fede in lui (cf. Gv 20,31). E insieme a Gesù risorto, secondo l’insegnamento che ha dato ai suoi discepoli (cf. Lc 24,25-27.44-47) e nella sua prospettiva, siamo chiamati a leggere gli scritti dell’Antico Testamento. Anche per lo studio scientifico degli scritti biblici, condotto non in maniera neutrale ma con un approccio veramente teologico, è essenziale tener conto dell’ispirazione. Infatti il criterio di un’autentica lettura viene indicato dalla Dei Verbum, quando afferma che “la sacra Scrittura deve essere letta e interpretata con lo stesso Spirito con il quale fu scritta” (n. 12). I metodi esegetici moderni non possono sostituire la fede, ma, applicati nel quadro della fede, possono essere molto fruttuosi per la comprensione teologica dei testi.           

4.2. Gli scritti del Nuovo Testamento attestano l’ispirazione dell’Antico Testamento e ne danno una interpretazione cristologica.

54. Nello studio degli scritti neotestamentari abbiamo sempre constatato il loro riferirsi alle Scritture sacre della tradizione ebraica. Qui, in sede conclusiva, riportiamo qualche esempio, in cui si esplicita il rapporto a testi dell’Antico Testamento. Termineremo commentando due passi del Nuovo Testamento che non solo citano l’Antico Testamento, ma ne affermano chiaramente l’ispirazione.

a. Alcuni esempi

Matteo cita i profeti in un modo emblematico. Quando, infatti, parla del compimento delle promesse o delle profezie, non le attribuisce al profeta (scrivendo: “Come dice [ha detto] il profeta”), ma, esplicitamente o implicitamente, le assegna a Dio stesso, utilizzando il passivo teologico: “Tutto questo avvenne perché si adempisse quel che era stato detto [dal Signore] per mezzo del profeta” (Mt 1,22; 2,15; 2,17; 8,17; 12,17; 13,35; 21,4); il profeta è solo lo strumento di Dio. Presentando ciò che è accaduto con Gesù come adempimento dell’antica promessa ne dà così una interpretazione cristologica.

Il vangelo di Luca aggiunge che questa interpretazione ha origine da Gesù stesso, il quale descrive il suo ministero utilizzando oracoli di Isaia (Lc 4,18-19) o le figure profetiche di Elia ed Eliseo (Lc 4,25-27); con tutta l’autorità che gli dà la sua risurrezione, Egli mostra infine come tutte le Scritture parlano di lui, delle sue sofferenze e della sua gloria (Lc 24,25-27.44-47).

In Giovanni, Gesù stesso afferma che le Scritture gli rendono testimonianza; fa questo nei confronti dei suoi interlocutori che scrutano queste Scritture per ottenere la vita eterna (Gv 5,39).

Paolo, come fu già ampiamente esposto, riconosce senza esitazioni l’autorità delle Scritture, attesta la loro origine divina, e le vede come profezie del Vangelo.

b. La testimonianza di 2 Tm 3,15-16 e 2 Pt 1,20-21

55. In queste due lettere (2 Tm e 2 Pt) troviamo le sole esplicite attestazioni della natura ispirata delle Scritture dell’Antico Testamento.

Paolo ricorda a Timoteo la sua formazione nella fede, dicendo: “Conosci le sacre Scritture fin dall’infanzia: queste possono istruirti per la salvezza che si ottiene mediante la fede in Cristo Gesù. Tutta la Scrittura, ispirata da Dio, è anche utile per insegnare, convincere, correggere ed educare nella giustizia” (2 Tm 3,15-16). Le sacre Scritture dell’Antico Testamento, lette nella fede in Cristo Gesù, costituivano la base dell’insegnamento religioso di Timoteo (cf. At 16,1-3; 2 Tm 1,5) e contribuivano a rinsaldare la sua fede nel Cristo. Paolo qualificando come “ispirate” tutte queste Scritture, dice che lo Spirito di Dio ne è l’autore.

Pietro fonda il suo messaggio apostolico (che proclama “la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo”: 2 Pt 1,16) sulla propria testimonianza oculare e auricolare e sulla parola dei profeti. Menziona (in 1,16-18) la sua presenza sul santo monte della trasfigurazione, quando insieme ad altri testimoni (“noi”: 1,18) ha udito la voce di Dio Padre: “Questi è il Figlio mio, l’amato” (1,17). Si riferisce poi alla solidissima parola dei profeti (1,19) della quale dice: “Sappiate anzitutto questo: nessuna scrittura profetica va soggetta a privata spiegazione, poiché non da volontà umana è mai venuta una profezia, ma mossi da Spirito Santo parlarono alcuni uomini da parte di Dio” (1,20-21). Parla di tutte le profezie che si trovano nella Scrittura, e dice che esse sono dovute all’influsso dello Spirito Santo nei profeti. È lo stesso il Dio di cui Pietro ha udito la voce sul monte della trasfigurazione e quello che ha parlato per mezzo dei profeti. Da questo medesimo Dio, attraverso queste due mediazioni, proviene il messaggio apostolico sul Cristo.

Importante per il rapporto fra l’Antico Testamento e la testimonianza apostolica è il fatto – comune a 2 Tm e 2 Pt – che gli autori parlano delle “Scritture” dopo aver accennato alla propria opera apostolica. Paolo menziona prima il suo insegnamento e la sua vita esemplare (2 Tm 3,10-11) e poi il ruolo delle Scritture (3,16-17). Pietro presenta la sua qualità di testimone oculare e auricolare della trasfigurazione (2 Pt 1,16-18) e si riferisce poi agli antichi profeti (1,19-21). Ambedue i testi mostrano che per i cristiani il contesto immediato per la lettura e interpretazione delle Scritture ispirate (dell’Antico Testamento) è la testimonianza apostolica. Se ne deduce che anche quest’ultima deve essere intesa come ispirata.

4.3. Il processo della formazione letteraria degli scritti biblici e l’ispirazione

56. Un breve percorso diacronico che si occupa della formazione letteraria degli scritti biblici mostra come il Canone delle Scritture si è costituito progressivamente nel corso della storia, tappa dopo tappa. Per quanto riguarda l’Antico Testamento, queste tappe possono essere così schematizzate:

– messa per iscritto di tradizioni orali, di parole profetiche, di collezioni normative;

– costituzione di raccolte di tradizioni scritte, che progressivamente acquisiscono autorità e vengono riconosciute come espressione di una rivelazione divina; così per la Torah;

– collegamento fra le diverse raccolte: Torah, Profeti e Scritti sapienziali.

Le tradizioni più antiche sono state, d’altra parte, oggetto di continue riletture e di molteplici reinterpretazioni. Lo stesso fenomeno avviene pure all’interno di certi raggruppamenti letterari: così, nella Torah, le raccolte legislative più recenti propongono uno sviluppo e un’interpretazione delle leggi pre-esiliche; o ancora, nel libro di Isaia troviamo le tracce di sviluppi successivi e di un travaglio letterario di unificazione.

Gli scritti più tardivi, infine, presentano un’attualizzazione dei testi antichi, come, ad esempio, il libro del Siracide che identifica la Torah con la Sapienza.

Lo studio delle tradizioni neotestamentarie ha mostrato come queste si basino sulle tradizioni scritte del giudaismo per annunciare il Vangelo del Cristo. Basti ricordare, a proposito, che il dittico Luca – Atti si riferisce abbondantemente alla Torah, alla letteratura profetica e ai Salmi per mostrare come Gesù abbia ”compiuto” le Scritture d’Israele (Lc 24,25-27.44).

La comprensione della nozione di ispirazione delle Sacre Scritture necessita dunque di prendere in considerazione questo movimento interno alle Scritture stesse. L’ispirazione riguarda sia ogni testo particolare, sia l’insieme del Canone, che collega fra loro tradizioni veterotestamentarie e neotestamentarie: le tradizioni antiche d’Israele, consegnate per iscritto, sono state infatti rilette, commentate e alla fine interpretate alla luce del mistero di Cristo, che dà ad esse il loro senso pieno, definitivo.

È seguendo dei ”percorsi” o “assi” all’interno della Scrittura, che il lettore può far emergere il modo con cui i temi teologici si trovano ampliati e sviluppati. La lettura canonica della Bibbia permette di evidenziare lo svilupparsi della rivelazione, in funzione di una logica insieme diacronica e sincronica.

Facciamo un solo esempio. La teologia della creazione, annunciata dall’esordio del libro della Genesi, trova sviluppi nella letteratura profetica; il libro di Isaia infatti, al capitolo 43, collega salvezza e creazione, comprendendo la salvezza d’Israele come prolungamento della creazione, mentre i capitoli 65-66 interpretano la sperata rinascita d’Israele come nuova creazione (Is 65,17; 66,22). Questa teologia è d’altra parte ulteriormente elaborata nei Salmi e nella letteratura sapienziale.

57. Nel Nuovo Testamento, si può evidenziare, da un lato, un ”rapporto di compimento” nei confronti delle tradizioni veterotestamentarie, e, d’altro lato, un movimento diacronico di sviluppo e di reinterpretazione delle tradizioni analogo a quello indicato per l’Antico Testamento.

Per illustrare la relazione di compimento tra scritti neotestamentari e tradizioni dell’Antico Testamento possiamo citare il Vangelo di Giovanni, che, nel suo Prologo, presenta il Cristo come Parola creatrice, e anche le lettere paoline che evocano la portata cosmica della venuta del Cristo (cf. 1 Cor 8,6; Col 1,12-20), e pure l’Apocalisse che descrive la vittoria del Cristo come il rinnovamento escatologico della creazione (Ap 21).

Lo studio diacronico dei libri del Nuovo Testamento mostra come essi abbiano integrato delle tradizioni antiche, talvolta pre-letterarie, che riflettono la vita e le espressioni liturgiche della primitiva comunità cristiana: la lettera ai Corinzi, ad esempio, cita un’antica confessione di fede in 1 Cor 15,3-5. D’altra parte, i libri raccolti nel Canone del Nuovo Testamento riflettono uno sviluppo e una evoluzione nella elaborazione teologica e istituzionale delle prime comunità: così le lettere a Tito o a Timoteo attestano funzioni ministeriali e procedure di discernimento più elaborate rispetto a quelle delle prime lettere scritte da Paolo.

Questo breve percorso diacronico deve essere agganciato a una prospettiva di lettura sincronica: nella misura in cui il Canone delle Scritture è inquadrato tra il libro della Genesi e l’Apocalisse, il lettore della Bibbia è invitato a comprenderla come un tutto, come un unico racconto che si svolge, dalla creazione, fino alla nuova creazione inaugurata dal Cristo.

L’ispirazione della Sacra Scrittura si riferisce dunque a ciascuno dei testi che la costituiscono, come all’insieme del Canone. Affermare che un libro biblico è ispirato consiste nel riconoscere che esso costituisce un vettore specifico e privilegiato della rivelazione di Dio agli uomini, e che i suoi autori umani furono spinti dallo Spirito ad esprimere delle verità di fede, in un testo situato storicamente e ricevuto come normativo dalle comunità credenti.

Affermare che la Scrittura, nel suo insieme, è ispirata, equivale a riconoscere che essa costituisce un Canone, un insieme cioè di scritti normativi per la fede, ricevuti nella Chiesa. In quanto tale, la Bibbia è il luogo della rivelazione di una verità insuperabile, identificata in una persona – Gesù Cristo – che, con le sue parole e i suoi atti, “compie” e “perfeziona” le tradizioni dell’Antico Testamento, rivelando il Padre in maniera piena.

4.4. In cammino verso un Canone di due Testamenti

58. Le due lettere di 2 Tim e 2 Pt hanno funzioni importanti per un primo abbozzo di Canone cristiano delle Scritture. Accennano alla conclusione di un corpo di lettere paoline e di quelle petrine, bloccano ogni aggiunta posteriore a queste lettere e preparano una conclusione del Canone nei loro riguardi. Il testo di 2 Pt, in particolare, accenna a un Canone di due Testamenti e a una recezione ecclesiale delle lettere paoline, fattore importante per la recezione di questi scritti nella Chiesa. La maggioranza dei biblisti considera le due lettere come opere “pseudonime” (attribuite agli apostoli, ma di fatto prodotti di autori posteriori). Ciò non pregiudica il loro carattere ispirato e non ne diminuisce il significato teologico.

a. La conclusione delle collezioni delle lettere paoline e petrine

Ambedue le lettere guardano al passato e sottolineano la fine imminente della vita dei due autori. Fanno frequente ricorso al “ricordare”, ed esortano i lettori a rammentare e applicare l’insegnamento che gli apostoli hanno loro comunicato nel passato (cf. 2 Tm 1,6.13; 2,2.8.14; 3,14; 2 Pt 1,12.15; 3,1-2). Nella misura in cui le due lettere segnalano con insistenza la morte degli autori funzionano effettivamente come conclusione per la collezione delle rispettive lettere.

In 2 Tm si evoca come imminente la morte di Paolo: l’apostolo, abbandonato dai suoi sostenitori e avendo perso la sua causa alla corte imperiale (cf. 4,16-18), è pronto a ricevere la corona del martirio: “Io infatti sto già per essere versato in offerta ed è giunto il momento che io lasci questa vita. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede. Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno” (4,6-8). Analogamente, 2 Pt indica che il Signore ha rivelato la vicinanza della morte dell’apostolo: “Io credo giusto, finché vivo in questa tenda, tenervi desti con le mie esortazioni, sapendo che presto dovrò lasciare questa mia tenda, come mi ha fatto intendere anche il Signore nostro Gesù Cristo. E procurerò che anche dopo la mia partenza voi abbiate a ricordarvi di queste cose.” (1,13-15; cf. 3,1).

Ambedue queste lettere appaiono così come l’ultima lettera del rispettivo autore, il suo testamento, che pone fine a quanto intendeva comunicare.

b. Verso un Canone di due Testamenti

59. In 2 Pt 3,2 Pietro indica lo scopo delle sue due lettere: “perché vi ricordiate delle parole già dette dai santi profeti e del precetto del Signore e Salvatore, che gli apostoli vi hanno trasmesso”. Benché il testo parli di parole dette dai profeti, non c’è dubbio che l’autore pensi alle Scritture profetiche (cf. 1,20). Il termine “precetto del Signore e Salvatore” non designa un comandamento specifico del Signore, ma ha lo stesso significato che nel passo precedente, in cui “la conoscenza del nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo” è qualificata come “la via della giustizia” e il “santo comandamento che era stato loro trasmesso” (2,20-21). Il termine “comandamento” (al singolare). coniato analogamente a Torah, ha un significato quasi tecnico e, in 3,2, collegato con un doppio genitivo, designa l’insegnamento di Cristo trasmesso dagli apostoli, cioè il vangelo come la nuova economia salvifica.

Il passo di 2 Pt 3,2 mette in risalto i profeti, il Signore, gli apostoli. Si delinea in questo modo il Canone dei due Testamenti, di cui il primo è determinato dai profeti e il secondo dal Signore e Salvatore Gesù, attestato dagli apostoli. Ambedue i Testamenti sono intimamente connessi nella testimonianza per la fede in Cristo (cf. 2 Pt 1,16-21; 3,1-2), l’Antico Testamento (i profeti) mediante la sua lettura cristologica, e il Nuovo Testamento mediante la testimonianza degli apostoli che si esprime nelle loro lettere (specialmente quelle di Pietro e Paolo), ma anche nei vangeli, basati sui “testimoni oculari e ministri della parola” (Lc 1,2; cf. Gv 1,14).

Anche il passo 2 Pt 3,15-16 è importante per la concezione del Canone di due Testamenti e per il suo carattere ispirato. Pietro, dopo aver spiegato il ritardo della parusia (3,3-14), afferma il suo consenso con Paolo: “Così vi ha scritto anche il nostro carissimo fratello Paolo, secondo la sapienza che gli è stata data, come in tutte le lettere, nelle quali egli parla di queste cose. In esse vi sono alcuni punti difficili da comprendere, che gli ignoranti e gli incerti travisano, al pari delle altre Scritture, per loro propria rovina.” Si afferma qui l’esistenza di una collezione di lettere paoline che i destinatari di Pietro hanno ricevuto. L’asserzione che Paolo ha scritto “secondo la sapienza che gli è stata data”, lo presenta come scrittore ispirato. Le false interpretazioni di passi paolini difficili vengono equiparate con quelle “delle altre Scritture”; in questo modo i testi paolini e la lettera di Pietro, da essi confermata, vengono messe accanto alle “Scritture” che, come testi profetici, sono ispirate da Dio (cf. 1,20-21).

4.5. La recezione dei libri biblici e la formazione del Canone

60. I libri che oggi compongono le nostre sacre Scritture non si autocertificano come “canonici”. La loro autorità, a motivo della loro ispirazione, deve essere riconosciuta e accettata dalla comunità, che sia la sinagoga o la Chiesa. È giusto allora considerare il processo storico di questo riconoscimento.

Ogni letteratura ha i suoi libri classici. Un classico proviene dal mondo culturale di un determinato popolo, ma al tempo stesso allarga il linguaggio di quella società, e si impone come modello per i futuri scrittori. Un libro diventa un classico non per decreto di una qualche autorità, ma perché viene riconosciuto come tale dai più colti del popolo. Anche molte religioni hanno, per così dire, i loro classici. In questo caso gli scritti scelti sono quelli che riflettono le credenze degli aderenti a quelle religioni, i quali vi trovano le fonti delle loro pratiche religiose. Ciò accadde nel Vicino Oriente Antico, in Mesopotamia, e pure nell’Egitto. Il medesimo fenomeno si è attuato anche per gli ebrei, i quali, nella speciale consapevolezza di essere il popolo eletto di Dio, si identificavano sostanzialmente con la loro tradizione religiosa. Tra i diversi scritti conservati nei loro archivi gli scribi scelsero dunque quelli che contenevano le leggi sacre, il racconto della loro storia nazionale, gli oracoli profetici e la raccolta dei detti sapienziali nei quali il popolo ebraico poteva rispecchiarsi e riconoscere l’origine della sua fede. E lo stesso accadde tra i cristiani dei primi secoli, con gli scritti apostolici ora contenuti nel Nuovo Testamento.

Il tempo pre-esilico

Gli studiosi ritengono possibile che tale selezione di tradizioni scritte e orali, fra cui i detti profetici e molti salmi, avesse avuto inizio già prima dell’esilio. Infatti Ger 18,18 dice: “la legge non verrà meno ai sacerdoti, né il consiglio ai saggi, né la parola ai profeti”. La riforma di Giosia ebbe come fondamento il libro dell’alleanza (forse il Deuteronomio) ritrovato nel Tempio (2 Re 23,2).

Il tempo post-esilico

È al ritorno dall’esilio, sotto la dominazione persiana, che possiamo parlare degli inizi della formazione di un Canone tripartito, consistente in Legge, Profeti e Scritti (di natura prevalentemente sapienziale). I reduci da Babilonia avevano bisogno di ritrovare la loro identità come popolo dell’alleanza. Era quindi necessario codificare delle leggi, richieste anche dai dominatori persiani. La raccolta di ricordi storici li riconnetteva con la Giudea pre-esilica; i libri profetici servivano per spiegare le cause della deportazione, mentre i Salmi erano indispensabili per il culto nel Tempio ricostruito. E poiché si credeva che dal regno di Artaserse (465–423 a.C.) la profezia fosse cessata e lo spirito fosse passato ai saggi (cf. Giuseppe Flavio, Contr. Ap. 1,8,41; Ant. 13,311–313), cominciarono a prodursi vari libri sapienziali composti da scribi colti. Questi si incaricarono di raccogliere quei libri che, a causa della loro antichità, venerazione religiosa e autorità, potevano fornire una precisa identità ai reduci, anche di fronte ai loro nuovi dominatori. Non si escludono quindi motivi politici e sociali nella formazione iniziale del Canone. Possiamo allora considerare il governatorato di Neemia come il terminus a quo della formazione del Canone. Di fatto, 2 Mac 2,13–15 ci informa che Neemia fondò una biblioteca, raccogliendo tutti i libri sui re e sui profeti e gli scritti di David, come anche le lettere dei re sulle offerte votive. Inoltre, come al tempo di Giosia, lo scriba Esdra lesse con autorità al popolo il libro della Legge di Mosè (Ne 8). 

Gli scribi post-esilici non si limitarono a raccogliere i libri dotati di autorevolezza religiosa. Essi aggiornarono le leggi e i racconti storici, assemblarono oracoli profetici e vi aggiunsero passi di commento interpretativo, e con diversi materiali costituirono un solo libro (per esempio, il libro di Isaia e quello dei Dodici Profeti). Composero inoltre nuovi salmi e diedero forma a libri sapienziali. Unificarono il tutto sotto i nomi di Mosè, legislatore e sommo profeta, di David, il salmista, e di Salomone, il saggio. Un tale complesso corpus letterario risultava così utile per sostenere la fede, anche di fronte alla sfide culturali dell’epoca persiana ed ellenistica.. Contemporaneamente, cominciavano a fissare il testo dei libri più antichi, così Canone e testo si sviluppavano insieme.

Il tempo dei Maccabei

Un nuovo problema sorse quando Antioco IV fece distruggere tutti i libri sacri degli ebrei. Una riorganizzazione si rendeva perciò necessaria, e ciò conduce al terminus ad quem dell’epoca veterotestamentaria. Nei primi decenni del secondo secolo a.C., il Siracide classificava già i libri sacri come Legge, Profeti e altri scritti successivi (Prologo). In Sir 44–50 egli ricapitola la storia di Israele dagli inizi fino ai suoi tempi, e in 48,1-11 menziona esplicitamente il profeta Elia, in 48,20-25 Isaia e in 49,7-10 Geremia, Ezechiele e i Dodici Profeti. Circa cinquanta anni più tardi 1 Mac 1,56–57 ci informa che i Seleucidi, durante la persecuzione di Antioco, avevano bruciato i libri della Legge e il libro dell’alleanza, però 2 Mac 2,14 ci dice che Giuda il Maccabeo fece la raccolta dei libri salvati dalla persecuzione.

Nel primo secolo dell’era cristiana Giuseppe Flavio riferisce che ventidue sono i libri riconosciuti sacri dagli ebrei (Contr. Ap.1,37-43), libri che contenevano leggi, tradizioni narrative, inni e consigli. Tale cifra si spiega perché molti libri che nelle nostre edizioni della Bibbia sono separati (p.e. i Dodici Profeti), contano come uno solo. La cifra 22 può indicare completezza, perché corrisponde alle lettere dell’alfabeto ebraico. Oggi si propende a datare la chiusura del Canone rabbinico nel secondo secolo d.C., o anche più tardi, sia per ragioni interne al giudaismo, sia per contrastare i libri del Nuovo Testamento considerati dai cristiani come Sacra Scrittura. La distinzione che si faceva una volta tra un Canone palestinese di 22 libri e uno più largo nella diaspora, oggi non incontra favore, specialmente dopo la scoperta di tanti testi a Qumran.

Il Canone dell’Antico Testamento presso i Padri

Anche tra i Padri della Chiesa troviamo delle divergenze tra coloro che accettavano un Canone breve, forse per poter dialogare con gli ebrei, e coloro che includevano anche i deuterocanonici (scritti in greco) tra quelli ricevuti dalla Chiesa. Nel Concilio di Ippona del 393, in cui era presente Agostino, allora semplice sacerdote, i vescovi dell’Africa, stabilendo il criterio della lettura pubblica nella maggior parte delle chiese o in quelle principali, fornirono la base per la recezione dei deuterocanonici, che si è affermata definitivamente in epoca medievale. Nella Chiesa Cattolica fu poi il Concilio di Trento a decidere l’approvazione del Canone lungo contro i riformatori che erano ritornati a quello breve. La maggioranza delle chiese ortodosse non differisce da quella cattolica, ma tra le antiche chiese orientali si riscontrano delle divergenze. 

La formazione del Canone del Nuovo Testamento

61. Passando alla costituzione dei libri del Nuovo Testamento, notiamo il fatto che il contenuto di questi libri fu recepito prima di essere messo per iscritto, poiché i credenti accolsero la predicazione di Cristo e degli apostoli prima della composizione dei nostri libri sacri. Basti pensare al prologo di Luca, dove si afferma che il suo scritto evangelico non vuole fare altro che fornire, mediante il racconto della storia di Gesù, un “solido fondamento” agli insegnamenti che Teofilo aveva ricevuto. Benché molti fossero scritti occasionali, essi esprimevano un’interna necessità delle comunità cristiane di aggiungere una didaché (insegnamento scritto) al kerygma (annuncio). Inizialmente letti per le assemblee alle quali erano indirizzati, tali scritti vennero gradualmente trasmessi ad altre chiese a ragione della loro autorità apostolica. L’accettazione di questi documenti – perché parlavano con l’autorità di Gesù e degli apostoli –, non va però identificata con la loro recezione come ”Scrittura” al pari dell’Antico Testamento. Abbiamo menzionato gli accenni in 2 Pt 3,2.15–16, ma dobbiamo aspettare la fine del secondo secolo perché tale convinzione della parità sia generalizzata, e si mettano allo stesso livello i libri chiamati “Antico Testamento” e quelli denominati “Nuovo Testamento”.

Durante il primo secolo dopo Cristo, si passò dal “volume” (che aveva la forma di rotolo) al “codice” (costituito da pagine rilegate, come è abituale oggi per un libro); ciò contribuì notevolmente alla costituzione di piccoli insiemi letterari che potevano essere contenuti in un solo tomo, prima di tutto i vangeli e le lettere di Paolo. Più tardivi sono gli accenni alla costituzione di un corpus johanneum e di quello delle lettere cattoliche.

La necessità di delimitare la collezione di scritti autorevoli sorse quando, all’inizio del secondo secolo, gli gnostici cominciarono a comporre opere con gli stessi generi letterari della grande Chiesa (vangeli, atti, epistole e apocalissi) per divulgare le loro dottrine. Si avvertì allora il bisogno di criteri certi per distinguere i testi ortodossi da quelli eterodossi. Alcuni gruppi estremisti giudeo-cristiani, come gli Ebioniti, avrebbero voluto la damnatio memoriae di Paolo, mentre i Montanisti conferivano un’eccessiva importanza ai doni carismatici. Chi ebbe una decisiva influenza nel sostenere la dottrina di Paolo fu Luca con i suoi Atti degli Apostoli, che in gran parte descrivono l’attività di questo apostolo e il successo della sua missione. Anche Marcione contribuì, a suo modo, al processo di recezione dei testi neo-testamentari con la sua scelta di Paolo e di Luca come unici ”canonici”, poiché produsse una reazione che servì ad esplicitare quali scritti erano già venerati dai cristiani. Si affermarono gradualmente dei criteri di discernimento, fra cui la lettura pubblica e universale,  l’apostolicità intesa come la tradizione autentica di un apostolo, e specialmente la regula fidei (Ireneo), cioè la non contraddizione di uno scritto con la tradizione apostolica trasmessa dai vescovi in tutte le chiese. Rispetto a questa catholicitas mancò Marcione, limitando la tradizione apostolica solo a quella paolina e trascurando quella petrina, giovannea e giudeocristiana.  

Dalla fine del secolo secondo in avanti cominciano ad apparire liste di libri del Nuovo Testamento. Ebbero universale accettazione i quattro vangeli, gli Atti, tredici epistole paoline, mentre si manifestarono esitazioni sulla Lettera agli Ebrei, sulle lettere cattoliche e anche sull’Apocalisse. In alcune liste venivano aggiunti anche la prima Lettera di Clemente, Il Pastore di Erma e qualche altro scritto. Questi però, non essendo letti universalmente, non furono assunti nel Canone. Sulla base di un generale consenso delle Chiese, espresso in numerose dichiarazioni del Magistero e attestato in importanti pronunciamenti di vari sinodi locali, il Concilio di Ippona (alla fine del 4° secolo) fissò il Canone del Nuovo Testamento, confermato dalla definizione dogmatica del Concilio di Trento.

A differenza del Canone veterotestamentario, i ventisette libri del Nuovo Testamento vengono ritenuti canonici da cattolici, ortodossi e protestanti. La recezione di questi libri da parte della comunità credente esprime il riconoscimento della loro ispirazione divina e della loro qualità di libri sacri e normativi.

Come già detto, per la Chiesa Cattolica il riconoscimento definitivo e ufficiale sia del Canone ‘lungo’ dell’Antico Testamento sia dei ventisette scritti del Nuovo Testamento avvenne nel Concilio di Trento (D-S 1501-1503). La definizione era stata resa necessaria dal fatto che i riformatori escludevano i libri deuterocanonici dal Canone tradizionale.

   

SECONDA PARTE

LA TESTIMONIANZA DEGLI SCRITTI BIBLICI SULLA LORO VERITÀ

62. In questa seconda parte del nostro Documento ci occupiamo di illustrare come gli scritti biblici attestino la verità del loro messaggio. Dopo l’introduzione, in una prima sezione mostreremo come alcuni libri dell’Antico Testamento, preparando la rivelazione evangelica (cf. Dei Verbum [DV], n. 3), presentino la verità rivelata da Dio; in una seconda sezione illustreremo ciò che alcuni scritti del Nuovo Testamento espongono sulla verità rivelata per mezzo di Gesù Cristo, che porta a compimento la rivelazione divina (cf. DV, n. 4).

1. Introduzione

Per introdurre il nostro argomento, esaminiamo innanzi tutto come la Dei Verbum intende la verità biblica, e precisiamo poi quale focalizzazione tematica verrà data al nostro esame degli scritti biblici.

1.1. La verità biblica secondo la Dei Verbum

63. La verità della Parola di Dio nelle Sacre Scritture è intimamente legata alla loro ispirazione: il Dio che parla infatti non può ingannare. Nonostante questa dichiarazione di massima, diversi pronunciamenti del testo sacro creano difficoltà. Di queste erano consapevoli già i Padri della Chiesa, e ancora oggi persistono dei problemi, come testimoniano le discussioni avvenute durante il Concilio Vaticano II. Ciò che segue cercherà di chiarire il senso del termine “verità” come è inteso nel Concilio.

I teologi hanno fatto ricorso al concetto di ”inerranza” applicandolo alla Sacra Scrittura. Se è preso nel suo senso assoluto, questo termine direbbe che nella Bibbia non ci può essere errore di nessun genere. Ma con le progressive scoperte nel campo della storia, della filologia e delle scienze naturali, e a motivo dell’applicazione alla ricerca biblica del metodo storico-critico, gli esegeti hanno dovuto riconoscere che nella Bibbia non tutto è espresso in conformità con le esigenze delle scienze contemporanee, per il fatto che gli scrittori biblici riflettono i limiti delle loro conoscenze personali, oltre a quelli della loro epoca e cultura. Con una tale problematica si è dovuto confrontare il Concilio Vaticano II nella preparazione della Costituzione Dogmatica Dei Verbum.

Il n. 11 della Dei Verbum ripropone la dottrina tradizionale, che la Chiesa “ritiene sacri e canonici tutti interi i libri sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, con tutte le loro parti, perché, scritti per ispirazione dello Spirito Santo (cf. Gv 20,31; 2 Tm 3,16; 2 Pt 1,19-2; 3,15-16), hanno Dio per autore”. La Costituzione non entra nelle particolarità del modo di ispirazione (cf. l’Enciclica di Papa Leone XIII Providentissimus Deus), ma nello stesso n. 11 dice: “Poiché dunque tutto quello che gli autori ispirati, cioè gli agiografi, asseriscono è da ritenersi asserito dallo Spirito Santo, per conseguenza si deve professare che i libri della Scrittura insegnano fermamente, fedelmente e senza errore la verità che Dio in vista della nostra salvezza volle fosse consegnata alle sacre Lettere. Pertanto ”tutta la Scrittura è ispirata da Dio e utile per insegnare, convincere, correggere e formare alla giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona” (2 Tm 3,16-17 gr.)”.

La Commissione Teologica che si occupava della Costituzione, aveva eliminato l’espressione “verità salvifica” (veritas salutaris) introducendo una formulazione più lunga: “la verità che Dio in vista della nostra salvezza volle fosse consegnata alle sacre Lettere” (veritatem quam Deus nostrae salutis causa Litteris Sacris consignari voluit). Poiché la stessa Commissione ha spiegato che l’inciso “in vista della nostra salvezza” si riferisce a “verità”, ciò significa che quando si parla di “verità della Sacra Scrittura”, si intende quella verità che riguarda la nostra salvezza. Questo però non va interpretato nel senso che la verità della Sacra Scrittura riguarda soltanto quelle parti del Libro Sacro necessarie per la fede e la morale, a esclusione di altre (l’espressione veritas salutaris del quarto schema non era stata accettata proprio per escludere tale interpretazione). Il senso della espressione “la verità che Dio in vista della nostra salvezza volle fosse consegnata alle sacre Lettere” è piuttosto che i libri della Scrittura, con tutte le loro parti, in quanto ispirati dallo Spirito Santo e avendo Dio come autore, intendono comunicare la verità in quanto è in relazione con la nostra salvezza che è di fatto la finalità per la quale Dio si rivela.

Per avvalorare questa tesi, la Dei Verbum, n. 11 cita, oltre a 2 Tm 3,16-17, nella nota 21, il De Genesi ad litteram 2.9.20 e la Epistula 82,3 di Sant’Agostino, il quale esclude dall’insegnamento biblico tutto ciò che non è utile alla nostra salvezza; e San Tommaso, basandosi sulla prima citazione di Sant’Agostino, dice nel De veritate q. 12, a. 2: Illa vero, quae ad salutem pertinere non possunt, sunt extranea a materia prophetiae. (“Le cose tuttavia che non possono riguardare la salvezza non appartengono alla materia della profezia.”)

64. Il problema allora è di capire che cosa significa “verità in vista della nostra salvezza” nel contesto della Dei Verbum. Non basta considerare il termine ‘verità’ nella sua accezione comune: trattandosi di verità cristiana, la nozione viene arricchita dal significato biblico di verità, e ancor più dall’uso che ne fa il Concilio in altri documenti. Nell’Antico Testamento, Dio stesso è la somma verità per la fermezza delle sue scelte, delle sue promesse e dei suoi doni; le sue parole sono veritiere, e richiedono un’analoga fermezza di accettazione nella risposta dell’uomo, nel cuore e nelle opere (cf. p.es. 2 Sam 7,28 e Sal 31,6). La verità è il fondamento dell’alleanza. Nel Nuovo Testamento, Cristo stesso è la verità, perché egli è l’Amen incarnato di tutte le promesse di Dio (cf. 2 Cor 1,19-20), e perché egli, che è “la via, la verità e la vita” (Gv 14,6), rivelando il Padre (cf. Gv 1,18), dà accesso a Lui (cf. Gv 14,6), che è l’ultima fonte della vita (cf. Gv 5,26; 6,57). Lo Spirito che Cristo dona è lo Spirito di verità (Gv 14,17; 15,26; 16,13), che sosterrà la testimonianza degli apostoli (Gv 15,26-27) e la fermezza della nostra risposta di fede. La verità quindi ha una dimensione trinitaria, ma essenzialmente cristologica, e la Chiesa che la annuncia è “colonna e sostegno della verità” (1 Tm 3,15). Rivelatore e oggetto della verità per la nostra salvezza è dunque Cristo, preconizzato nell’Antico Testamento: la verità si manifesta nel Nuovo Testamento nella sua persona e nel Regno, presente ed escatologico, da lui annunciato e inaugurato. Il concetto di verità del Concilio Vaticano II si esplica nello stesso ambito trinitario, cristologico ed ecclesiale (cf. Dei Verbum, nn. 2.7.8.19.24; Gaudium et spes, n. 3; Dignitatis humanae, n.11): il Figlio in persona rivela il Padre, e la sua rivelazione viene comunicata e confermata dallo Spirito Santo e trasmessa nella Chiesa.

1.2. Il centro del nostro studio sulla verità biblica

65. Il nostro approfondimento del tema, condotto in alcuni scritti biblici, si basa sull’insegnamento e orientamento della Dei Verbum appena delineato. Citiamo innanzi tutto la frase con la quale la predetta Costituzione conclude il primo passo sulla rivelazione: “La profonda verità, sia su Dio sia sulla salvezza dell’uomo, per mezzo di questa rivelazione risplende a noi in Cristo, il quale nello stesso tempo è il mediatore e la pienezza dell’intera rivelazione (cf. Mt 11,27; Gv 1,14.17; 14,6; 17,1-3; 2 Cor 3,16 e 4,6; Ef 1,3-14)” (n. 2). Non c’è dubbio che la verità che è al centro della rivelazione e, di conseguenza, al centro della Bibbia quale strumento di trasmissione della rivelazione (cf. Dei Verbum, nn. 7-10), riguarda Dio e la salvezza dell’uomo. E non c’è dubbio che la pienezza di tale verità si manifesta per e in Cristo. Egli è in persona la Parola di Dio (cf. Gv 1,1.14) che viene da Dio e rivela Dio. Egli non soltanto dice la verità su Dio, ma è la verità su Dio, lui che afferma: “Chi ha visto me, ha visto il Padre” (Gv 14,9; cf. 12,45). La venuta del Figlio rivela anche la salvezza dell’uomo: “Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna” (Gv 3,16).

Studiando la verità degli scritti biblici, la nostra attenzione si concentrerà dunque su questi due temi intimamente connessi tra loro: che cosa gli scritti dicono su Dio, e che cosa dicono sul progetto di Dio per la salvezza dell’uomo. La pienezza della rivelazione e della verità è portata da Cristo; ma la sua venuta è preparata da una lunga rivelazione divina che viene attestata dagli scritti dell’Antico Testamento. Perciò vogliamo anche ascoltare che cosa questi scritti dicono su Dio e sulla salvezza, sapendo che il pieno significato di quanto essi attestano si rivela nella persona e nell’opera di Cristo. Non soltanto la meta, ma anche il cammino e la preparazione fanno parte essenziale della rivelazione di Dio.

2. La testimonianza di scritti scelti dell’Antico Testamento

66. Dall’immensa ricchezza della Bibbia abbiamo scelto alcuni libri rappresentativi, tenendo conto dei vari generi letterari e dell’importanza dei testi. Saranno esaminati alcuni temi centrali, riguardanti Dio e la salvezza, così come sono attestati nei racconti della creazione (Gen 1–2), nei decaloghi, nei libri storici e nei libri profetici, nei Salmi, nel Cantico dei Cantici e negli scritti sapienziali. Sebbene l’Antico Testamento sia la preparazione all’evento culminante della rivelazione di Dio in Cristo, la considerazione della sua maggiore estensione e della varietà e ricchezza dei suoi testi ci ha indotti a considerare un numero maggiore di brani dell’Antico Testamento rispetto a quelli del Nuovo Testamento. La nostra intenzione è di mostrare come i differenti testi rivelino Dio e la sua salvezza e di contribuire a una crescita di attenzione e di comprensione per questo argomento.

2.1. I racconti della creazione (Genesi 1–2)

67. Le prime pagine della Bibbia, che contengono i cosiddetti racconti della creazione (Gen 1–2), attestano la fede nel Dio che è origine e meta di tutto. In quanto “racconti della creazione”, essi non illustrano “come” abbia avuto principio il mondo e l’uomo, ma parlano del Creatore e del suo rapporto con la creazione e con la creatura. Si producono sempre grandi malintesi quando questi testi dell’antichità vengono letti secondo la prospettiva moderna, considerandoli affermazioni sul “come” sia stato prodotto il mondo e l’uomo.  È necessario contrastare una tale lettura per rispondere più adeguatamente all’intenzione dei testi biblici, senza dunque porre le loro asserzioni in concorrenza con le conoscenze delle scienze naturali del nostro tempo. Queste non sopprimono la pretesa della Bibbia di comunicare la verità, perché la verità dei racconti biblici di creazione riguarda la coerenza, piena di senso, del mondo come opera creata da Dio.

Il primo racconto della creazione (Gen 1,1–2,4a) descrive, proprio mediante la sua struttura ben ordinata, non come il mondo è divenuto, ma perché e con quale scopo esso è così com’è. In modo poetico, adottando le immagini della sua epoca, l’autore di Gen 1,1–2,4a mostra che Dio è l’origine del cosmo e dell’uomo. Il Dio Creatore, del quale parla la Bibbia, è orientato a relazionarsi con la creatura, cosicché il suo creare, come lo descrive la Bibbia, sottolinea tale relazione. Creando l’uomo “a sua immagine” e affidandogli il compito di prendersi cura della creazione, Dio manifesta la sua fondamentale volontà salvifica.

Gli elementi principali dell’esistenza umana sono al centro del racconto di Gen 1, che raggiunge il suo culmine nell’affermazione antropologica che l’uomo è “immagine di Dio”, cioè suo luogotenente nella creazione. La prima opera di Dio creatore è, secondo il racconto, il tempo (Gen 1,3-5), che viene rappresentato mediante il cambiamento di luce e tenebre. Ma con ciò non si descrive davvero che cosa sia il tempo. Mediante la distribuzione delle diverse opere della creazione in sei giorni, non si vuole affermare, come verità da credere, che il mondo abbia preso forma realmente in sei giorni, mentre nel settimo giorno Dio si sia dedicato al riposo; ma si intende comunicare piuttosto che esiste un ordine e una finalità nella creazione. L’uomo può e deve inserirsi in questo ordine, per riconoscere, nel passaggio dal lavoro al riposo, che il tempo che Dio ha strutturato per lui gli consente di comprendersi come creatura che deve la sua esistenza al Creatore.

Mediante le singole opere della creazione, viene mostrato che cosa sia la creazione e quale sia il suo scopo. Tutta la narrazione, come è stato già detto, è orientata all’uomo. Così il racconto della creazione non cerca di dare una definizione fisica della categoria dello spazio, ma di presentarlo come “spazio di vita” dell’uomo e di mostrarne il significato. Il cosiddetto “incarico di dominare la terra” (Gen 1,28) è una metafora che esprime la responsabilità dell’uomo per lo spazio di vita che gli è destinato assieme agli animali e alle piante.

I due testi di origine (Gen 1,1–2,4a; Gen 2,4b-25) introducono l’insieme canonico della Bibbia ebraica e più largamente quello della Bibbia cristiana. Usando immagini diverse, essi cercano di enunciare una medesima verità: il mondo creato è un dono di Dio, e il progetto divino ha di mira il bene dell’uomo (cf. Gen 2,18), come risulta, tra l’altro, dal frequente ricorso all’aggettivo ”buono“ (cf. Gen 1,4-31). L’umanità è così situata in un ”rapporto di creazione” nei confronti di Dio: il dono originario e gratuito del Creatore sollecita la risposta dell’uomo.

2.2. I decaloghi (Es 20,2-17 e Dt 5,6-21)

68. I due decaloghi di Es 20,2-17 e di Dt 5,6-21 introducono le diverse collezioni legislative, assemblate, da una parte, nei libri dell’Esodo, del Levitico e dei Numeri (Es 19,1–Nm 10,10), e, dall’altra, nel libro del Deuteronomio (Dt 12–26). Questi testi prendono la forma di un discorso del Signore (YHWH), che si rivolge in prima persona a Israele. Questa forma letteraria conferisce a tali testi un fortissimo statuto di autorità. I decaloghi costituiscono l’articolazione tra un riassunto della fede di Israele (Es 20,2 = Dt 5,6) – che fa riferimento ai racconti dell’Esodo –, da un lato, e l’insieme delle prescrizioni cultuali ed etiche, dall’altro. Tali decaloghi hanno numerosi punti in comune, e al tempo stesso ciascuno riveste una sua propria specificità teologica: infatti, mentre il decalogo di Es 20 sviluppa principalmente una teologia della creazione, il decalogo di Dt 5 insiste maggiormente sulla teologia della salvezza.

Essendo sintesi teologiche molto elaborate, i due decaloghi sono considerati “sommari” della Torah, e forniscono delle chiavi teologiche che ne permettono la giusta interpretazione.

a. La costruzione letteraria dei due decaloghi

L’introduzione dei decaloghi (Es 20,2 = Dt 5,6) definisce il Signore (YHWH) come Dio salvatore nella storia: il Dio di Israele si fa conoscere mediante l’opera di salvezza che realizza a favore di Israele. Questa presentazione narrativa del Dio d’Israele come salvatore del suo popolo riassume tutta la prima parte del libro dell’Esodo: la formula di auto-presentazione del Signore in Es 3,14: “Io sono colui che sono” introduce il lungo racconto della liberazione di Israele (Es 4-14). Il Signore rivela la sua vera identità apportando al suo popolo il dono della salvezza. Il dono di Dio costituisce dunque il fondamento delle prescrizioni legislative accolte nei decaloghi. Questo dono di Dio consiste nella liberazione accordata a Israele, ridotto alla servitù in Egitto. Le leggi dei decaloghi enunciano a loro volta le modalità della risposta di Israele al dono di Dio: Israele, liberato da Dio, deve ora entrare in questo cammino di libertà, rinunciando agli idoli e al male (cf., su questo punto, PCB, Bibbia e morale. Radici bibliche dell’agire cristiano, LEV, Città del Vaticano 2008, n. 20). 

La prima sezione del testo sviluppa le proibizioni riguardanti l’idolatria, la fabbricazione delle immagini, e invita a uno stretto monoteismo (Es 20,3-7 = Dt 5,7-11). Rinunciare agli idoli è consentire al culto esclusivo del Signore e accettare una alleanza definitiva con lui: il Signore è l’unico salvatore del popolo, il solo vero Dio.

I due comandamenti positivi del Decalogo riguardano il sabato e il rispetto dei genitori (Es 20,8-12 e Dt 5,12-16). Il giorno di sabato può essere definito come il “santuario di Dio” nel tempo e nella storia; rispettando il sabato, Israele manifesta che solo il Signore può dare senso alla storia degli uomini.

L’ultima sezione del testo dei decaloghi concerne il dispositivo della giusta relazione con il prossimo (Es 20,13-17 e Dt 5,17-21). La rinuncia a ogni progetto di sopruso sul prossimo è la condizione indispensabile per la costruzione di una vera comunità, a testimonianza della possibile vittoria dell’amore fraterno sulla violenza.

b. Commento e implicazioni teologiche

69. I decaloghi propongono a Israele il cammino dell’obbedienza alla legge rivelata da Dio al Sinai (o all’Oreb). Il progetto divino fa appello alla risposta degli uomini, nel quadro dell’alleanza (Es 24,7-8; Dt 5,2-3).

Le leggi che nella Torah fanno seguito ai decaloghi ne sviluppano il contenuto. La proibizione dell’idolatria è il leitmotiv del Deuteronomio, mentre l’appello a una vita fraterna si tematizza nella Legge di Santità (Lv 17–26) e culmina nell’invito all’amore del prossimo, cioè sia di colui che è membro della comunità di Israele, sia dello straniero residente (Lv 19,18.34).

I decaloghi manifestano il modo con cui il Dio creatore si rivela pure come salvatore nella storia e invita ogni membro della comunità a entrare, a sua volta, in questa logica di salvezza, mettendo in opera un’etica comunitaria esigente. L’alleanza con il Dio creatore e salvatore conduce i credenti a “vivere conformemente alla verità”.

I decaloghi forniscono una chiave interpretativa dell’insieme della Torah, e costituiscono alla fine un vero “catechismo” per la comunità di Israele. Questo catechismo permette agli Israeliti di affermare la loro fede nel solo vero Dio, fronteggiando le sfide della storia, e di impegnarsi in una vita comunitaria fraterna, rinunciando alle strategie di potere e di violenza. Detto in altre parole, i decaloghi coniugano l’attestazione di una verità concernente Dio stesso (lui è il creatore e salvatore) con una verità riguardante le modalità di una vita giusta e retta. La relazione al Dio di Israele appare così inseparabile dalla relazione al prossimo, che è il luogo per eccellenza in cui si esprime l’adesione dei credenti alla verità rivelata.

2.3. I libri storici

70. Il compendio della storia d’Israele che occupa tanti libri della Bibbia, specialmente i cosiddetti libri storici (Giosuè; Giudici; 1-2 Samuele; 1-2 Re; 1-2 Cronache; Esdra; Neemia; 1-2 Maccabei), mostra chiaramente che non si tratta di una storiografia nel senso moderno, intesa cioè come la cronaca, la più oggettiva possibile, degli avvenimenti del passato. Ogni tentativo di interpretare la storia biblica in una prospettiva moderna si espone al pericolo di leggere i testi al di fuori della loro intenzione e di non coglierne la pienezza di significato.

La presentazione biblica della storia si sviluppa armonicamente sulla base della teologia della creazione, così come è esposta nelle prime pagine della Bibbia (vedi sopra), in quanto è una testimonianza dell’esperienza di Dio, e in quanto rivela che Egli agisce per la salvezza degli uomini anche nella storia (Gs 24). Di conseguenza, la storiografia biblica cerca di mostrare che la volontà salvifica di Dio è pienamente sensata essendo totalmente finalizzata al bene dell’umanità. Nella storia biblica non sono narrati solo eventi positivi; al contrario viene mostrato come, nella contraddittoria vicenda umana, Dio manifesti il suo costante intento di realizzare la salvezza dell’umanità. In questo modo la storia biblica (Gdc 6,36; 2 Sam 22,28) Lo rivela come il “Salvatore”.

La vicenda di Dio con gli uomini attestata nel racconto biblico è presentata quindi come una storia di “alleanze”, cominciando da quella con Noè per tutta l’umanità, e proseguendo con quelle che caratterizzano la storia di Israele. L’alleanza, che Dio offre al suo popolo nella persona di Abramo e poi stipulata solennemente con Israele al Sinai, viene continuamente trasgredita dal popolo nel corso della sua storia, cosicché si deve unicamente alla fedeltà di Dio il fatto che essa venga chiamata “eterna”.

Di conseguenza, il programma teologico della storiografia biblica si presenta in primo luogo come teo-logia nel senso letterale del termine, che vuol mostrare Dio fedele nel suo rapporto con l’uomo. Ciò viene confermato fino all’annuncio di una nuova alleanza in Ger 31,31. È l’alleanza di Dio, che conduce il suo popolo, attraverso la storia, alla salvezza presso di Lui e con Lui.

2.4. I libri profetici

71. La profezia biblica attesta in modo eminente il rivelarsi di Dio, poiché la parola umana dei profeti coincide esplicitamente con la stessa Parola di Dio: “così dice il Signore” è infatti una formula tipica di questa letteratura. E caratteristica essenziale di tale rivelazione è il suo manifestarsi nella storia umana, in eventi inseriti in una cronologia attendibile, in parole indirizzate a personaggi concreti, da parte di uomini di cui spesso si conosce il nome, l’origine e la datazione. Il disegno eterno di Dio di stabilire con l’umanità un’alleanza di amore (cf. Dei Verbum, n. 2) è fatto conoscere ai profeti (Am 3,7), e dai profeti viene proclamato a Israele e alle nazioni, così che a tutti sia manifestata l’autentica verità di Dio e della storia.

Dalla inesauribile ricchezza della parola profetica, segno della sapienza infinita di Dio, scaturiscono alcuni tratti salienti che, in modo specifico, concorrono a delineare il volto del vero Dio e a favorire l’adesione di fede.

a. Il Dio fedele

I profeti si succedono nella storia, secondo la promessa del Signore: “Io susciterò loro un profeta in mezzo ai loro fratelli, e gli porrò in bocca le mie parole, ed egli dirà loro quanto io gli comanderò” (Dt 18,18). Il carisma di Mosè (Dt 18,15) è trasmesso, nella successione profetica, a coloro che, mediante il loro stesso apparire, diventano testimoni della fedeltà di Dio alla sua alleanza (Is 38,18-19; 49,7), testimoni di una bontà che si estende per mille generazioni (Es 34,7; Dt 5,10; 7,9; Ger 32,18). Il Dio che è Origine dell’umana vicenda, il Padre da cui scaturisce la vita, non abbandona (Is 41,17; Os 11,8), non dimentica le sue creature (Is 44,21; 54,10; Ger 31,20): “Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai” (Is 49,15).

I profeti, inviati instancabilmente dal Signore (Ger 7,13.25; 11,7; 25,3-4; ecc.), sono la voce autorevole che ricorda la presenza indefettibile del vero Dio nella travagliata storia umana (Is 41,10; 43,5; Ger 30,11); essi proclamano: “Conserverai a Giacobbe la tua fedeltà, ad Abramo il tuo amore, come hai giurato ai nostri padri, fin dai tempi antichi” (Mi 7,20).

La verità del Signore è perciò paragonabile a quella della Roccia (Is 26,4), pienamente affidabile (Dt 32,4); se ci si attiene saldamente alle sue parole, ci si potrà mantenere saldi (Is 7,9) senza timore di perdersi (Os 14,10).

b. Il Dio giusto

72. Rivelandosi, il Dio fedele domanda fedeltà, il Dio santo esige che chi entra nella sua alleanza sia santo come lui è santo (Lv 19,2), il Dio giusto chiede ad ognuno di percorrere la via della rettitudine tracciata dalla Legge (Dt 6,25). I profeti, nel corso della storia, sono gli araldi della perfetta giustizia, quella compiuta da Dio (Is 30,18; 45,21; Ger 9,3; 12,1; Sof 3,5) e quella che Egli sollecita negli uomini (Is 1,17; 5,7; 26,2; Ez 18,5-18; Am 5,24); essi non soltanto ricordano le direttive del Signore esplicitandone il senso, ma denunciano con coraggio ogni deviazione dalla via del bene, attuata dai singoli e dalle nazioni. In tal modo chiamano alla conversione, minacciando la giusta punizione per i crimini commessi, e annunciano l’inevitabile catastrofe su coloro che, nella loro perversione, non vogliono ascoltare il monito divino (Is 30,12-14; Ger 6,19; 7,13-15).

È qui che si manifesta la verità della parola profetica, in opposizione alla facile consolazione dei falsi profeti, i quali – noncuranti delle doverose esigenze morali della Legge – annunciano la pace quando invece incombe la spada del giudizio (Ger 6,14; 23,17; Ez 13,10), ingannando il popolo con illusorie promesse (Is 9,14-15; Ger 27,14; 29,8-9; Am 9,10; Zac 10,2) e favorendo perciò il perdurare dell’iniquità. “I profeti che furono prima di me e di te – dice Geremia al (falso) profeta Anania – dai tempi antichissimi profetizzarono guerra, fame e peste contro molti paesi e regni potenti” (Ger 28,8); la parola autentica del Signore afferma dunque che la malvagità del mondo è rivelata storicamente dal Dio giusto proprio mediante la sofferenza della sanzione. Il passaggio attraverso l’umiliazione e la morte è così spiegato dai profeti come la necessaria disciplina che favorisce il riconoscimento del peccato (Ger 2,19) e il disporsi umile del penitente all’attesa del perdono (Gl 2,12-14).

c. Il Dio misericordioso

73. Buona parte della letteratura profetica assume un tono minaccioso, simile a quello di Giona a Ninive (Gn 3,4), perché annuncia la sventura “su ogni carne” (Ez 21,8-9), non solo dichiarando la dissoluzione del regno di Israele (Ger 5,31; Os 10,15; Am 8,2), ma evocando addirittura la fine del mondo (Ger 4,23-26; 45,4; Ez 7,2-6; Dn 8,17). Questa prospettiva catastrofica potrebbe far pensare che Dio non sia stato fedele alla sua promessa: “Ah, Signore Dio, hai dunque del tutto ingannato questo popolo e Gerusalemme quando dicevi: «Voi avrete pace», mentre una spada giunge fino alla gola” (Ger 4,10); “Dove sono il tuo zelo e la tua potenza, il fremito delle tue viscere e la tua misericordia?” (Is 63,15).

A questo lamento, diventato preghiera di un popolo in esilio, risponde la voce dei profeti che proclamano la consolazione di Israele (Is 40,1): ciò che poteva essere ritenuto un evento finale, si tramuta, per la potenza del Creatore, in nuova origine (Ger 31,22; Ez 37,1ss; Os 2,16-17); ciò che apparentemente era stato un fallimento, diventa principio di una realtà meravigliosa, perché il peccato che aveva prodotto la catastrofe viene perdonato definitivamente dalla misericordia del Padre (Ger 31,34; Ez 16,63; Os 14,5; Mi 7,19).

Sono i profeti a dichiarare la svolta radicale nella storia di Israele (Ger 30,3.18; 31,23; Ez 16,53; Gl 4,1; Am 9,14; Sof 3,20) e nella stessa storia del mondo, poiché annunciano cieli nuovi e terra nuova (Is 65,17; 66,22; Ger 31,22). L’evento del perdono divino, che si accompagna a una inaudita ricchezza di doni spirituali (Ger 31,33-34; Ez 36,27; Os 2,21-22; Gl 3,1-2) e che viene reso visibile dalla straordinaria fioritura del popolo ripristinato in perfette forme istituzionali (Is 54,1-3; 62,1-3; Ger 30,18-21; Os 14,5-9), l’evento dunque definitivo della storia non poteva essere previsto o immaginato dalla mente umana: “Ora – dice il Signore per mezzo di Isaia – ti faccio udire cose nuove e segrete, che tu nemmeno sospetti. Ora sono create e non da tempo; prima di oggi tu non le avevi udite, perché tu non dicessi: «Già lo sapevo»” (Is 48,6-7). È il Signore, per mezzo dei profeti, a rivelare i suoi progetti, infinitamente superiori a quanto le creature possano concepire (Is 55,8-9); ed è nel manifestarsi efficace della grazia che Dio fa conoscere la perfezione della sua verità, portando a compimento il senso della storia.

Questa Parola di promessa è veritiera proprio perché si compie (Dt 18,22; Is 14,24; 45,23; 48,3; Ger 1,12; 28,9): “Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza aver irrigato la terra, senza averla fecondata e fatta germogliare, perché dia il seme a chi semina e il pane a chi mangia, così sarà della mia parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata” (Is 55,10-11). L’evento unico ed epocale produce un’alleanza eterna (Is 55,3; Ger 32,40; Ez 16,60). Da qui scaturisce la lode, effetto ultimo della salvezza: “Signore, tu sei il mio Dio; voglio esaltarti e lodare il tuo nome, perché hai eseguito progetti meravigliosi, concepiti da lungo tempo, fedeli e stabili” (Is 25,1).

I credenti in Cristo riconosceranno di essere i figli dei profeti e della promessa (At 3,25) a cui è stata mandata la parola consolante della salvezza (At 13,26): nella Pasqua del Signore Gesù vedranno, adoranti, la manifestazione piena del Dio fedele, giusto e misericordioso.

2.5. I Salmi

74. Le preghiere dei Salmi presuppongono e manifestano questa essenziale verità su Dio e sulla salvezza: Dio non è un principio assoluto impersonale, ma una persona che ascolta e risponde. Ogni israelita sa che può rivolgersi a lui in ogni situazione di vita: nella gioia e nel dolore. Dio si è rivelato come il Dio presente (cf. Es 3,14), che conosce colui che prega e nutre per lui il più vivo e benevolo interesse.

Fra le diverse caratteristiche di Dio attestate dai Salmi, ne ricordiamo due: Dio si rivela (a) come il Dio della potenza protettrice, e (b) come il Dio della giustizia che trasforma il peccatore in un giusto. Dio è dunque sempre Colui che salva gli esseri umani.

a. Il Dio onnipotente: Sal 46

La presenza e l’attività di Dio si manifestano in modo emblematico nel Sal 46, e sono espresse nella frase: “Il Signore degli eserciti è con noi” (vv. 8.12). All’inizio, al centro e alla fine del Salmo si sottolinea la presenza di Dio, che è “per noi” e “con noi” (vv. 2.8.12). Egli con la sua forza domina la natura (vv. 2-7), difende Israele e crea la pace (vv. 8-12).

La potenza di Dio domina la natura: Dio è creatore

Di fronte agli sconvolgimenti cosmici il popolo dell’alleanza rimane tranquillo: “Dio è per noi rifugio e fortezza, aiuto infallibile si è mostrato nelle angosce. Perciò non temiamo se trema la terra, se vacillano i monti nel fondo del mare. Fremano, si gonfino le sue acque, si scuotano i monti per i suoi flutti” (vv. 2-4). Dio domina le forze caotiche. Anche se esse attenteranno alla stabilità di Sion, la città santa “non potrà vacillare” (v. 6a), perché “Dio è in mezzo ad essa” (v. 6a), e lo stesso “Dio la soccorre allo spuntare dell’alba” (v. 6b).

La potenza di Dio difende il suo popolo e crea la pace: Dio è salvatore

La dichiarazione “Il Signore degli eserciti è con noi” appare come risposta al grido angosciato del popolo accerchiato dai nemici: “Alzati, vieni in nostro aiuto!” (Sal 44,27). Dio viene chiamato “rifugio e fortezza” (Sal 46,2) e “baluardo” (vv. 8.12) per indicare la potenza con la quale protegge i suoi fedeli radunati in Sion. Tutti sono invitati a riconoscerlo: “Venite, vedete le opere del Signore” (v. 9). Il Salmo poi precisa quali sono queste opere: “Farà cessare le guerre sino ai confini della terra, romperà gli archi e spezzerà le lance, brucerà nel fuoco gli scudi” (v. 10). Il Signore stesso si rivolge ai fedeli, dicendo: “Fermatevi! Sappiate che io sono Dio, eccelso tra le genti, eccelso sulla terra” (v. 11). Gli avversari devono cessare di combattere, devono riconoscere il Signore e la sua maestà universale che sovrasta tutte le genti e tutta la terra. L’intervento potente di Dio in favore di Sion ha un significato universale: Egli apporta la pace non soltanto alla città di Dio (cf. v. 5), ma a tutte le nazioni, a tutta la terra (cf. v. 11).

b. Il Dio della giustizia: Sal 51

75. In questo Salmo la confessione dei peccati si coniuga con la supplica. Il dinamismo fondamentale – accennato al centro della prima e della seconda parte del Salmo – è la giustizia di Dio: “Sei giusto nella tua sentenza, sei retto nel tuo giudizio” (v. 6); “Liberami dal sangue, o Dio, Dio mia salvezza: la mia lingua esalterà la tua giustizia” (v. 16; cf. v. 21). La giustizia salvifica di Dio opera nell’uomo peccatore, non soltanto cancellando le sue colpe e purificandolo, ma anche giustificandolo e trasformandolo. Tutta questa azione del Dio giusto procede dal suo amore, che è fedele e misericordioso.

Il Dio della giustizia ama l’uomo peccatore

Dio, spinto dal suo amore, giustifica il peccatore. Il Salmo comincia con la supplica: “Pietà di me, o Dio, nel tuo amore; nella tua grande misericordia cancella la mia iniquità” (v. 3). L’orante invoca l’amore  e la misericordia di Dio.

Il primo sostantivo, “amore” (hesed), è uno dei termini fondamentali nella teologia dei Salmi e dell’alleanza (molto frequente nell’Antico Testamento, specie nei Salmi): indica quell’atteggiamento di Dio che implica bontà, generosità, fedeltà nei confronti dell’orante. Nei Salmi, questo amore viene spesso presentato quasi fosse una persona: “Il tuo amore e la tua fedeltà mi proteggano sempre!” (Sal 40,12); Dio lo manda dal cielo (Sal 57,4; cf. 61,8; 85,11; 89,15) così che accompagni il credente, lo segua come un amico (Sal 23,6), lo circondi (Sal 32,10) e lo sazi (Sal 90,14). Esso è più importante della vita stessa: “Il tuo amore vale più della vita” (Sal 63,4; cf. Sal 42,9; 62,13). L’amore di Dio non sarà tolto al peccatore, nonostante il suo peccato (cf. Sal 77,9), perché Dio lo ama come un padre. Questo amore ispirerà la giustizia di Dio che giustificherà il peccatore.

Il secondo termine, “misericordia” (rehem) (cf. Sal. 40,12; 69,17; e altri), si trova frequentemente in contesti penitenziali (cf. Sal 25,6; 79,8), e di solito viene usato al plurale (rahamim). Esso evoca le “viscere” della madre, simbolo archetipico di un amore istintivo e radicale. Dio viene presentato come attaccato alla persona umana ancor più di quanto lo sia la madre per il proprio figlio (cf. Is 49,15). Perciò il salmista dice: “Ma tu, Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di amore e di fedeltà” (Sal 86,15).

In realtà, i due termini, che in un certo senso descrivono due modalità dell’amore di Dio (paterna e materna), vengono congiunti: “Ricordati, Signore, della tua misericordia e del tuo amore, che è da sempre” (Sal 25,6; cf. 103,13). Dio ama l’uomo – anche se questi è peccatore – come una madre ama suo figlio, con un amore che non è frutto di meriti, ma è totalmente gratuito, con un amore che costituisce una essenziale esigenza del cuore. Nello stesso tempo lo ama come un padre, con un amore generoso e fedele. Le due dimensioni dell’amore di Dio, evocate all’inizio del Sal 51, sono come due coordinate della sua giustizia che giustifica il peccatore. Il Dio, che ama ed è misericordioso (v. 3; cf. v. 20), è nello stesso tempo il Dio che giudica (v. 6; cf. v. 16).

La giustizia di Dio giustifica, cioè trasforma il peccatore in giusto (vv. 6.16)

76. Rivolgendosi al peccatore, Dio instaura con lui un rapporto dinamico e profondo, ispirato alla giustizia. Questo processo si svolge in diverse tappe:

- La compassione o pietà amorosa: “Pietà di me, o Dio” (v. 3). Qui si usa il verbo “essere benigni” (hanan) (cf. Sal 4,2; 6,3 e altri), che indica un “piegarsi” grazioso del sovrano verso il suo suddito. Colui che si è ribellato contro Dio ed è diventato abominevole ai suoi occhi chiede di trovare la sua compassione. Essa lo solleverà dalla sua miseria più profonda, quella del peccato.

- L’insegnamento interiore: “Ma tu gradisci la sincerità nel mio intimo, nel segreto del cuore mi insegni la sapienza” (v. 8). Dio opera nella coscienza del peccatore, offuscata dal peccato, e vi immette la luce della verità, che fa riconoscere i peccati, e l’irradiazione della sua saggezza, che apre gli occhi alla retta condotta.

- Il verdetto di grazia che accorda il perdono. Il peccatore, chiuso nel regno del peccato, riconosce: “Sei giusto nella tua sentenza” (v. 6). Dopo le sue invocazioni: “Cancella, lava, purifica” (vv. 3-4, ripetute nei vv. 9.11), subentra una forte speranza: “Distogli lo sguardo dai miei peccati, cancella tutte le mie colpe” (v. 11). Liberato da una presenza ossessiva del peccato, egli chiede: “Fammi sentire gioia e letizia!” (v. 10; cf. Is 66,14).

- La nuova creazione. Il peccatore chiede a Dio una nuova creazione: “Crea in me, o Dio, un cuore puro” (v. 12). Dopo questa domanda fondamentale, l’orante per tre volte supplica di ricevere lo spirito: “uno spirito saldo”; la presenza “del tuo santo spirito”; “uno spirito generoso” (vv. 12.13.14). Chiede un rinnovamento interiore e permanente, per il quale è decisiva la presenza dello Spirito di Dio, da cui proviene la “gioia della salvezza” (v. 14).

- L’impulso alla testimonianza. Rinnovato da Dio, l’uomo vuole comunicare la propria esperienza a quanti ne hanno bisogno: “Insegnerò ai ribelli le tue vie” (v. 15). Soprattutto vuole insegnare loro quella sapienza che gli è stata inculcata interiormente da Dio.

- L’apertura alla gioia e alla lode. Il penitente rinnovato si sente pervaso dalla gioia, che vuole esprimere nella lode: “La mia lingua esalterà la tua giustizia. Signore, apri le mie labbra e la mia bocca proclami la tua lode” (vv. 16-17; cf. Sal 35,28; 71,24).

- Il parallelismo fra “la tua giustizia” e “la tua lode”, negli ultimi versetti, permette di concludere che Dio, nella sua giustizia, non fa paura; anzi, proprio Dio – ispirato dal suo amore paterno e materno – è l’unica causa che opera la giustificazione del peccatore, cioè la sua nuova creazione e la sua felicità, liberandolo dall’oppressione del peccato.

2.6. Il Cantico dei Cantici

77. È sorprendente che il Cantico dei Cantici sia stato accolto nella Bibbia ebraica (fra i cinque rotoli); il suo contenuto è infatti del tutto particolare. Riconosciuto come testo ispirato e integrato nel Canone cristiano, esso ha dato luogo a una originale interpretazione cristologica. Il Cantico è un poema che celebra l’amore nuziale quale pienezza dell’esperienza umana, quell’amore cioè che consiste nella reciproca ricerca e nella comunione personale fra l’uomo e la donna. Questa ricerca e comunione hanno in sé un dinamismo affascinante e infinito, che trasfigura due creature umane – un pastore e una giovane donna – in re e regina, in una coppia regale.

Il Cantico celebra poeticamente l’amore umano, amore reale, nella sua dimensione corporea e al tempo stesso spirituale. Ma lo fa in una forma aperta a una dimensione più misteriosa e più teologica. Il testo è caratterizzato dalla “polisemia”: al significato basilare dell’amore umano si aggiungono significati ulteriori, radicati però in quello sponsale, che è per così dire il simbolo di ogni altra forma di amore.

Il primo significato ulteriore riguarda l’amore di Dio verso ogni persona umana. Il poema, fondato sull’affermazione che “Dio creò l’uomo a sua immagine” (Gen 1,27), canta l’amore appassionato di un uomo e di una donna come immagine dell’amore appassionato e personale di Dio. L’amore di Dio per ogni creatura umana (cf. Sap 11,26) ha in sé tutte le caratteristiche dell’amore maschile (dello sposo, del marito e del padre) e nello stesso tempo dell’amore femminile (della sposa, della moglie e della madre). L’amore umano autentico è un simbolo tramite il quale il Creatore si rivela agli uomini come Dio-Amore (cf. 1 Gv 4,7.8.16). Con molti simboli il libro ci fa capire che Dio è fonte dell’amore umano: lo crea, lo nutre, lo fa crescere, e gli dà forza per cercare l’altro (l’altra) e per vivere con lui (lei), e infine con la famiglia o la comunità, in comunione perfetta. Perciò ogni amore umano (considerato in sé, e non soltanto come una metafora) contiene un seme e un dinamismo divino. Quindi, conoscendo e vivendo l’amore, si può scoprire e conoscere Dio. Inoltre, tramite l’amore umano l’uomo e la donna vengono raggiunti dall’amore di Dio stesso (cf. 1 Gv 4,17). E rimanendo nell’amore, si entra in comunione con Dio (cf. 1 Gv 4,12).

Il secondo significato ulteriore riguarda l’amore di Dio verso il popolo dell’alleanza (cf. Os 1-3; Ez 16 e 23; Is 5,1-7; 62,5; Ger 2-3). Esso trova una nuova attualizzazione, e raggiunge il suo compimento nell’amore di Cristo per la Chiesa. Cristo si presenta o viene presentato come sposo in diversi contesti (Mc 2,19; Gv 3,29; 2 Cor 11,2; Ef 5,25.29; Ap 19,7.9; 21,2.9), e la Chiesa viene raffigurata come la fidanzata (Ap 19,7.9), che diventa sposa nel compimento escatologico (Ap 21,9). L’amore di Cristo per la Chiesa è così importante e fondamentale per la salvezza degli uomini che il vangelo di Giovanni presenta l’opera di Gesù alle nozze di Cana come inizio dei suoi segni (Gv 2,11), di tutta la sua attività. Gesù si rivela come il vero sposo (Gv 3,29) che procura in pienezza il vino buono per tutti, e rivela questo amore che egli donerà “fino alla fine” (Gv 13,1; cf. 10,11.15; 15,13; 17,23.26).

2.7. I libri sapienziali

78. Anche i testi sapienziali manifestano diverse caratteristiche di Dio Creatore, in particolare quelle di Dio misericordioso e imperscrutabile. Il Creatore infatti è il Dio misericordioso che dimentica i peccati degli uomini in vista della loro conversione. D’altra parte, Egli è misterioso e imperscrutabile; gli esseri umani devono così riconoscere i propri limiti di creature, camminando per la via della fedeltà senza poter scoprire la ragione di ciò che Egli compie nella storia. Sottolineiamo qui alcuni tratti sapienziali che illustrano l’autentica verità di Dio: essa vuole condurre l’uomo all’adesione di fede nel Signore, e intende suscitare in lui “il timore del Signore”, cioè un rispetto profondo, consapevole dell’immensa distanza che c’è fra il Creatore e le sue creature (Qo 3,10-14).

2.7.1. Il libro della Sapienza e il Siracide: la filantropia di Dio

a. Il libro della Sapienza

79. La filantropia di Dio, comunicata in Sap 11,15–12,27, viene espressa soprattutto mediante il ricordo delle cosiddette piaghe che colpirono gli egiziani, interpretando in modo innovativo i castighi di Dio e la sua pedagogia. Il Dio dell’alleanza, padrone della creazione (Sap 16,24-29; 19,6-21), intervenendo ripetutamente nella storia della salvezza, si prende cura del suo popolo come di ogni “giusto” (cf. Sap 3,1-4,19); è Lui che premia e castiga (cf. Sap 4,20-5,23; 11,1-5), trattando tutti con longanimità per condurli alla conversione (Sap 12,9-18; cf. Rm 2,3-4; 2 Pt 3,9) e per educare il giusto a giudicare con clemenza (Sap 12,19-22).

Dopo aver ricordato che al tempo dell’esodo Dio ha punito con moderazione i nemici del suo popolo, l’autore spiega le ragioni di tale comportamento. Pur riconoscendo il fatto che “non era certo in difficoltà la tua mano onnipotente, che aveva creato il mondo da una materia senza forma” (Sap 11,17), aggiunge: “Hai compassione di tutti, perché tutto puoi; chiudi gli occhi sui peccati degli uomini, aspettando il loro pentimento” (Sap 11,23; cf. Sal 103,8-12; 130,3-4; Es 34,6-7). La moderazione verso l’Egitto (Sap 11,15-12,2) non è segno di debolezza; Dio ha invece agito così per la sua “compassione verso tutti” e perché vuole condurre gli uomini alla conversione, così che, rinunciando alla malvagità, giungano alla fede in lui: “Per questo tu correggi a poco a poco quelli che sbagliano e li ammonisci ricordando loro in che cosa hanno peccato, perché, messa da parte ogni malizia, credano in te, Signore” (Sap 12,2). L’onnipotenza di Dio non si manifesta nella sua forza, ma, al contrario, nella sua misericordia. La potenza di Dio non è fonte di giudizio, ma di perdono (cf. Sir 18,7-12; Rm 2,4). È proprio l’onnipotenza stessa di Dio che motiva la sua compassione. La misericordia di Dio si manifesta anche nel modo in cui Egli punisce gli abitanti del paese (Sap 12,8): li tratta benevolmente, con clemenza (cf. 11,26), perché sono uomini fragili (cf. Sal 78,39). Se Dio ha usato longanimità nel castigarli e li ha perdonati, non è stato per impotenza o perché ignorava i loro crimini (Sap 12,11).

L’autore non si ferma qui, e ci offre una delle intuizioni più belle di tutto l’Antico Testamento: “Tu infatti ami tutte le cose che esistono e non provi disgusto per nessuna delle cose che hai creato; se avessi odiato qualcosa, non l’avresti neppure formata. […] Tu sei indulgente con tutte le cose, perché sono tue, Signore, amante della vita” (Sap 11,24.26). Dio non può non amare quanto Egli stesso ha formato, perché il suo spirito incorruttibile è in tutte le cose (cf. Sap 1,7; 12,1). Dio ha creato ogni cosa per salvarla, ha compassione di tutti in vista della conversione e non vuole distruggere nulla di quanto Egli ha creato (Sap 11,26).

L’amore di Dio si manifesta persino nella morte prematura del giusto. Egli ama il giusto per le sue virtù, per la sua vita immacolata (Sap 4,9), e lo toglie da questo mondo perverso perché non si corrompa: “Divenuto caro a Dio, fu amato da lui e, poiché viveva fra peccatori, fu portato altrove” (Sap 4,10; cf. Gen 5,24; Sir 44,16; Eb 11,5).

L’amore di Dio per le sue creature non è un amore statico, ma dinamico, si rivela nell’azione. Il fatto che le creature permangano nell’esistenza, e il fatto che se ne conservi l’essere multiforme, attivo, misterioso, sono la prova più tangibile dell’amore di Dio in azione.

b. Il libro del Siracide

80. Anche Ben Sira ha un vivo senso della grandezza di Dio, come onnipotenza e misericordia. Egli parla di Dio con commosso entusiasmo e stupore. Dio è onnipotente e nella sua provvidenza concede allo scriba la sapienza (Sir 37,21; 39,6) e il successo che ne deriva (Sir 10,5), e dona anche al povero la ricchezza (Sir 11,12-13.21); da Lui viene anche il decreto della morte per ciascuno (Sir 41,4). Accanto alla grandezza di Dio, risalta la sua misericordia: “La potenza della sua maestà chi potrà misurarla? Chi riuscirà a narrare le sue misericordie?” (Sir 18,4). A motivo della fragilità della creatura, fatta di carne e di sangue, di terra e di cenere, Dio è stato longanime con l’uomo, riversando su “ogni essere vivente” (Sir 18,13; cf. Sap 11,21–12,18; Sal 145,9) la sua misericordia (Sir 18,10). Questa indulgenza di Dio non deve servire a deresponsabilizzare l’uomo, ma è piuttosto un invito alla conversione: “Ritorna al Signore e abbandona il peccato, prega davanti a lui e riduci gli ostacoli. Volgiti all’Altissimo e allontanati dall’ingiustizia” (Sir 17,25-26).

2.7.2. Il libro di Giobbe e il libro di Qoèlet: la imperscrutabilità di Dio

a. Il libro di Giobbe

81. Il libro di Giobbe – incorniciato da un doppio prologo (1,1-2,13) e un doppio epilogo (42,7-17) – è un lungo dialogo, attraverso il quale, da un Dio “conosciuto” si giunge alla rivelazione di un Dio imprevedibile e misterioso.

Giobbe aveva desiderato ardentemente la presenza del Signore (9,32-35; 13,22-24; 16,19-22; 23,3-5; 30,20), ne aveva anzi preteso una risposta (31,35), perché voleva discutere la sua causa direttamente con Lui. Ma era uno sbaglio il confrontarsi con Dio, trattandolo su un piano di uguaglianza. Contestando il modo di agire di Dio, domandandogli conto dei suoi criteri, Giobbe in qualche modo si rende uguale al suo Creatore. È impossibile per lui giungere alle altezze infinite dell’Onnipotente, la cui perfezione è inaccessibile allo spirito umano (Gb 11,7). Per esprimere in modo eloquente e poetico la trascendenza divina che supera ogni comprensione umana, vengono presentati i cieli, gli inferi, la terra e il mare come simboli dell’altezza, profondità, lunghezza e larghezza cosmiche, superate dall’immensità divina (Gb 11,8-9). La profondità del mistero divino lascia l’uomo ignorante e impotente (cf. Am 9,1-4; Ger 23,24; Dt 30,11-14; Ef 3,18-21). Infatti, agli esseri umani è dato di toccare con mano i limiti della grandezza umana; già i profeti stigmatizzavano coloro “che si credono sapienti e si reputano intelligenti” (Is 5,21; cf. Is 10,13; 19,12; 29,14; Ger 8,8-9; 9,22-23; Ez 28).

Benché Dio non risponda a nessuna delle domande di Giobbe, alla fine Egli fa un bellissimo discorso nei capitoli 38–41 del libro. In una grandiosa teofania in forma di tempesta, Egli prende finalmente la parola, non per replicare a quelli che avevano parlato, ma per sottoporre Giobbe a una specie di interrogatorio, per indirizzarlo verso il mistero della Sua persona. Nel suo discorso si susseguono numerose e rapide le domande, accompagnate talvolta da ampie descrizioni. Dio fa capire a Giobbe la sua ignoranza, i suoi limiti di creatura, mentre la sapienza del Creatore non ha confini (cf. Gb 28). A tutti gli interrogativi del Signore sottostà una chiara affermazione: Dio è presente nella sua creazione, che nella sua infinita varietà rimane un mistero per l’uomo. I criteri umani di giudizio non sono adeguati per affrontare i misteri della creazione.

Giobbe aveva conosciuto Dio “per sentito dire” (42,5), secondo il modulo tradizionale di una teologia basata sul principio rigido della retribuzione. Dopo il lungo discorso di Dio, egli finalmente conosce Dio in modo più adeguato. Alla fine della sua lotta, confessa: “Comprendo che tu puoi tutto e che nessun progetto per te è impossibile. Chi è colui che, da ignorante, può oscurare il tuo piano? Davvero ho esposto cose che non capisco, cose troppo meravigliose per me, che non comprendo” (42,2-3). Giobbe ha trovato il suo posto e ha potuto scoprire la grandezza di Dio e l’inaccessibilità della sua onnipotenza. Il suo incontro con Dio gli ha rivelato la vanità della sua pretesa di intentare un processo a Dio. Egli rimane un uomo sofferente, ma senza pretese. Alla fine ritrova se stesso; si ritrova come polvere, e così diventa più vero e più umano (42,6).

Giobbe capisce che l’uomo non può conoscere i disegni di Dio, ma alla fine comprende che i suoi occhi hanno visto Dio stesso attraverso quanto Egli opera nel mondo (Gb 42,5). Guardando l’universo e l’umanità con gli occhi di Dio, può confessare l’errore della sua prospettiva, il fatto di essere andato troppo lontano; perciò dice: “Io mi pento” (Gb 42,6a). Per Giobbe, la sapienza consiste ora nel confessare che Dio può essere riconosciuto come giusto senza essere totalmente compreso; e l’uomo può impegnarsi nella fedeltà a Lui senza sapere “dal principio alla fine” (Qo 3,11) il senso di ciò che Dio ha fatto. Dio rimane un mistero insondabile per gli esseri umani.

b. Il libro di Qoèlet

82. L’autore di questo libro sviluppa ulteriormente il motivo della imperscrutabilità dell’operato di Dio. Assumendo il punto di vista dei saggi (Qo 8,16-17), egli si mette alla ricerca del senso della vita per quanto è dato di vedere nelle realtà del mondo, sulla terra e sotto il sole. Il saggio vuole comprendere il significato delle occupazioni affannose degli uomini sulla terra (8,16), e constata: “Ho visto che l’uomo non può scoprire tutta l’opera di Dio, tutto quello che si fa sotto il sole. […] Anche se un sapiente dicesse di sapere, non potrà scoprire nulla” (8,17; cf. Gb 42,3). Nessun uomo può mai modificare ciò che Dio compie a suo tempo (cf. Qo 1,15; 3,1-8.14; 6,10; 7,13). Dio ha impedito all’uomo di conoscere la propria opera (Qo 7,13-14; cf. Gb 9,2-4). Qoèlet riprende questo tema in 11,5, dove l’opera di Dio viene descritta come incomprensibile e paragonata al mistero della gestazione nel grembo materno. L’uomo ignora il senso della vita, ma nella volontà di Dio tutte le cose create hanno il proprio posto e il proprio tempo (Qo 3,11). Il segreto dell’opera di Dio è inaccessibile, insondabile e incomprensibile per l’uomo che cerca il senso in base alla propria esperienza. Sia l’opera di Dio sia Dio stesso, il Creatore, rimangono un mistero inscrutabile per gli esseri umani.  

Conclusione

83. La testimonianza della sapienza biblica manifesta a tutti l’autentica verità di Dio che è misericordioso; nello stesso tempo, egli si presenta come un mistero insondabile per gli esseri umani. La filantropia di Dio conduce l’uomo alla conversione e alla fede, mentre l’imperscrutabilità di Dio gli fa riconoscere la grandezza del Creatore e la propria limitatezza, e lo conduce ad avere “il timore del Signore, e ad osservarne i comandamenti.

Notiamo che gli approcci alla verità su Dio sono molto diversi nel libro della Sapienza e nel Siracide, da una parte, e in Giobbe e in Qoèlet, dall’altra. Secondo i primi due libri la verità può essere raggiunta con la ragione e/o mediante la conoscenza della Torah, mentre il libro di Giobbe e quello di Qoèlet insistono sull’incapacità umana di comprendere il mistero di Dio e della sua attività: rimane soltanto la fiducia che i credenti hanno in Dio stesso, sebbene non comprendano la logica degli avvenimenti e del mondo.

Il Nuovo Testamento cambia l’orizzonte della riflessione e mostra che la verità va oltre la comprensione che ne ha la saggezza d’Israele, e si manifesta in modo pieno e definitivo nella persona di Cristo.

3. La testimonianza di scritti scelti del Nuovo Testamento

84. Nel Nuovo Testamento possiamo distinguere, a motivo del loro specifico genere letterario, i vangeli dalle lettere degli Apostoli e dal libro dell’Apocalisse. Questa suddivisione comanda anche la nostra presentazione riguardante la verità attestata in questi libri.

3.1. I vangeli

Fra i libri della Bibbia cristiana un posto preminente spetta ai vangeli quale testimonianza scritta della rivelazione divina nel suo punto culminante; in essi infatti troviamo l’auto-manifestazione di Dio Padre attraverso suo Figlio, il quale, diventato uomo, ha vissuto, sofferto ed è morto, e ha elevato la nostra natura umana alla gloria divina mediante la sua risurrezione. La Costituzione Dogmatica Dei Verbum afferma: “La profonda verità sia su Dio sia sulla salvezza dell’uomo […] risplende a noi in Cristo” (n. 2). Da qui la Costituzione trae la conseguenza “che tra tutte le Scritture, anche del Nuovo Testamento, i Vangeli hanno una meritata superiorità, in quanto sono la principale testimonianza sulla vita e sulla dottrina del Verbo incarnato, nostro Salvatore” (n. 18). Il medesimo testo conciliare asserisce pure l’origine apostolica dei quattro Vangeli (ibid.): gli apostoli, come “testimoni oculari e ministri della parola” (Lc 1,2) e i loro discepoli collegano, mediante la testimonianza scritta dei vangeli, la Chiesa con Cristo stesso.

La Dei Verbum ribadisce inoltre il carattere storico dei Vangeli: essi “trasmettono fedelmente quanto Gesù Figlio di Dio, durante la sua vita tra gli uomini, effettivamente fece e insegnò per la loro salvezza eterna” (n. 19). Descrive poi il processo che ha condotto alla stesura dei quattro vangeli: questi non vanno ridotti a creazioni simboliche, mitiche, poetiche di autori anonimi, ma sono un’affidabile narrazione degli eventi della vita e del ministero di Gesù. Sarebbe errato pretendere una precisa equivalenza fra ogni singolo elemento del testo e le particolarità degli avvenimenti, perché ciò non corrisponde alla natura e all’intento dei vangeli. I diversi fattori che modificano i racconti e creano differenze tra loro non impediscono una presentazione attendibile degli eventi. Va anche ritenuto improprio l’assunto che teorizza la discontinuità fra Gesù e le tradizioni che lo attestano, oppure la mancanza di interesse o l’incapacità di presentarlo in modo adeguato. I Vangeli stabiliscono dunque un collegamento veritiero con il vero Gesù.

3.2. I Vangeli sinottici

85. Esamineremo ora, prima nei vangeli sinottici e poi nel vangelo di Giovanni, quale verità Cristo riveli su Dio e sulla salvezza umana. Ovviamente è impossibile darne un quadro completo; perciò dobbiamo accontentarci di alcuni cenni.

a. La verità su Dio

Gesù dice in mt 11,27 (Lc 10,22): “Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo”. Gesù afferma un rapporto esclusivo di conoscenza reciproca tra lui e Dio. Dio conosce Gesù come il suo proprio Figlio (Mt 3,17; 17,5; Lc 3,22; 9,35), e Gesù conosce Dio come il suo proprio Padre, con il quale intrattiene una relazione assolutamente unica. Questa conoscenza del Padre è la base della singolare capacità di Gesù di rivelare Dio, di farne conoscere il vero volto. E la sua rivelazione di Dio come Padre implica sempre la rivelazione di se stesso come Figlio. Da questa singolare capacità di Gesù deriva il compito principale della sua missione, la rivelazione di Dio. Non soltanto le parole, ma anche le opere e tutto il cammino di Gesù rivelano Dio, e richiedono una continua e vigile attenzione per tale rivelazione.

Gesù rivela Dio come Padre dei suoi ascoltatori in modo particolarmente esplicito nel vangelo di Matteo. Ciò si verifica specialmente nel Discorso della Montagna (Mt 5-7). Lì Gesù fa sapere ai suoi uditori che il loro Padre sa di che cosa essi hanno bisogno prima che gliela chiedano (6,8), e insegna loro a rivolgersi a Dio chiamandolo “Padre nostro che sei nei cieli” (6,9). Li istruisce sulla sua cura sollecita, che rende superflue le preoccupazioni umane (6,25-34). Il Padre che è benefico verso i buoni e verso i cattivi (5,45) costituisce il modello per il loro agire: “Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (5,48). Solo “colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli” (7,21) – dice Gesù – si trova sul cammino giusto e sfugge alla sciagura finale (cf. 7,24-27). Gli uditori di Gesù sono “la luce del mondo” (5,14) e hanno il compito di far conoscere, mediante le loro opere buone, il Padre, così che gli uomini “rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli” (5,16). Rivelando il Padre, Gesù conferisce anche la missione di far conoscere il Padre.

Nel vangelo di Luca, Gesù, rivelando il Padre, ne mette in risalto soprattutto la misericordia verso i peccatori. Esprime in modo meraviglioso questa qualità di Dio nella parabola del padre che ha due figli e accoglie con compassione e gioia quello perduto e, d’altra parte, cerca di convincere quello che è rimasto a casa (Lc 15,11-32). Con questa parabola Gesù spiega e giustifica il suo atteggiamento verso i peccatori (cf. Lc 15,1-10). A conclusione dell’episodio del pubblicano Zaccheo, egli afferma: “Il Figlio dell’uomo infatti è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto” (19,10). Così presenta il nucleo della sua missione e manifesta la volontà e l’agire di Dio Padre.

Significativo e programmatico è il modo in cui Marco descrive l’inizio del ministero pubblico di Gesù: “Dopo che Giovanni fu consegnato, Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo” (1,14-15). Il contenuto dell’annuncio di Gesù è “il Vangelo di Dio”, la buona notizia che parla di Dio e proviene da Dio. Gesù viene come rivelatore di Dio, e la sua rivelazione è buona notizia. Proclama che il Regno di Dio si è fatto vicino. La realtà del “Regno di Dio” è al centro della predicazione di Gesù nei vangeli sinottici. Rivela e sottolinea la sovranità regale di Dio, la sua cura di pastore per gli uomini, il suo attivo e potente intervento nella storia umana. Mediante tutta la sua attività, Gesù spiega ed esplicita questa verità su Dio.

b. La verità sulla salvezza umana

86. L’essere umano è creatura di Dio, per la quale Gesù, Figlio di Dio, costituisce un modello sempre valido di gratitudine, ubbidienza e apertura nei confronti di Dio Padre, che è la fonte di ogni salvezza.

La guarigione dei malati e la liberazione degli indemoniati rappresentano una parte essenziale del ministero di Gesù. Matteo pone il medesimo sommario all’inizio (4,23) e alla fine (9,35) del grande esordio dell’attività di Gesù (5,1–9,34), che, nella seconda parte, espone una serie di suoi interventi prodigiosi (8,1–9,34). In questo sommario vengono menzionate due opere di Gesù: l’annuncio del vangelo del Regno e la guarigione da “ogni sorta di malattie e di infermità nel popolo” (4,23). In questa attività si manifestano sia l’infermità e il bisogno degli uomini, sia la generosa e potente capacità di Gesù di superare tale miseria. L’araldo del Regno di Dio apporta in maniera efficace la salute del corpo, e manifesta la compassione di Dio per la sua creatura sofferente e la sua volontà di salvarla. Questa attività di Gesù è accolta con entusiasmo; Matteo dice: “Conducevano a lui tutti i malati, tormentati da varie malattie e dolori, indemoniati, epilettici e paralitici; ed egli li guarì” (4,24). In non pochi racconti si mette in evidenza che Gesù non impone la guarigione, ma presuppone la fede di quelli che vengono da lui (cf. Mt 8,10; 9,22.28; 15,28). Il resoconto della sua visita a Nazaret si conclude con l’osservazione: “E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi” (Mt 13,58).

Le guarigioni sono reali e hanno un grande significato, ma non costituiscono lo scopo del ministero di Gesù. Già prima della sua nascita, l’angelo spiega a Giuseppe il significato del nome di Gesù: “Tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati” (Mt 1,21). La più grande miseria degli esseri umani non sono le malattie, ma i peccati, cioè il rapporto con Dio e con il prossimo che è stato alterato e infranto. Gli uomini sono incapaci di uscire da questa misera condizione, hanno bisogno di un salvatore potente che li riconcili con Dio. Il nome “Gesù” significa “il Signore salva”; nella persona di suo Figlio Gesù, Dio ha mandato il Salvatore d’Israele e di tutta l’umanità. Gesù si avvicina ai peccatori non come giudice, ma come medico pieno di misericordia, per guarirli, e li chiama alla conversione (Mt 9,12-13). Egli dà “la propria vita in riscatto per molti” (Mt 20,28; Mc 10,45). Il suo sangue è “il sangue dell’alleanza, che è versato per molti per il perdono dei peccati” (Mt 26,28). Il sacrificio della sua vita ratifica la nuova e definitiva alleanza di Dio con Israele e con l’umanità, la riconciliazione di Dio con gli esseri umani. Questa è un dono gratuito di Dio. Dipende dalla libera decisione degli uomini accettare l’invito ed essere salvati, oppure rifiutarlo ed essere perduti (cf. Mt 22,1-13; 25,1-13.14-30).

Il vangelo di Luca descrive in modo incisivo quale sia la salvezza che Dio dona attraverso suo Figlio. Alla nascita di Gesù, un angelo del Signore proclama: “Vi annuncio una grande gioia: […] è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore” (2,10-11). L’evangelista descrive poi tutta l’attività e il cammino di Gesù fino alla sua crocifissione. Ad essa fa seguito la molteplice derisione del Salvatore e Cristo, che non è in grado di salvare se stesso (23,35-39). Alla fine però uno dei malfattori che sono stati crocifissi con lui (23,33) si pente delle sue azioni malvagie ed esprime la sua fede in Gesù e nel Regno da lui annunciato (23,40-42). E Gesù gli risponde: “In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso” (23,43). Gesù promette al malfattore pentito la piena salvezza, cioè la comunione immediata con Dio, che include il perdono dei peccati e il superamento della morte. Le apparizioni di Gesù risorto (24,1-53) mettono in risalto e confermano che Cristo è entrato nella sua gloria (cf. 24,26), e che di fatto egli è il Salvatore, capace di dare la salvezza promessa al malfattore crocifisso.

Sottolineiamo ancora una volta il carattere universale della salvezza rivelata e attuata da Gesù. La sua missione è rivolta dapprima al popolo d’Israele (Mt 15,24; cf. 10,6), ma è destinata a tutti i popoli. Il suo vangelo viene annunciato in tutto il mondo (Mt 24,14; 26,13; cf. Mc 14,9), e i suoi discepoli sono inviati a tutti i popoli (Mt 28,19; cf. Lc 24,47). Dio ha mandato Gesù come Salvatore di tutta l’umanità.

3.3. Il Vangelo di Giovanni

87. In questo vangelo troviamo una connessione molto stretta fra la verità su Dio e la verità sulla salvezza degli uomini. Gesù dice in Gv 3,16: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna”. Dio manda suo Figlio per salvare gli uomini, ma proprio con questo invio Egli fa conoscere se stesso, rivelando il suo rapporto con il Figlio e il suo amore per il mondo. Per gli esseri umani si determina così un’intrinseca correlazione fra la loro conoscenza di Dio e la loro salvezza. Gesù dice infatti sulla vita eterna in cui consiste la piena salvezza: “Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo” (17,3). Il mediatore è Gesù, Verbo di Dio e Figlio di Dio fatto carne (1,14). Egli rivela il Padre (1,18) e porta la salvezza degli uomini; o meglio, rivelando il Padre, rivela la salvezza. Consideriamo ora il ruolo di Gesù sotto tre aspetti: il rapporto del Figlio con il Padre; il rapporto del Figlio e Salvatore con gli uomini; l’accesso degli uomini alla salvezza.

a. Il rapporto del Figlio con il Padre

88. Il tratto fondamentale e più caratteristico del rapporto tra il Figlio e il Padre è la loro perfetta unità; Gesù dice: “Io e il Padre siamo una cosa sola” (10,30), e: “Il Padre è in me e io nel Padre” (10,38; cf. 17,21.23). Questa unione si esprime come intima conoscenza reciproca e come amore sublime: “Il Padre conosce me e io conosco il Padre”, afferma Gesù (10,15); il Padre ama il Figlio (3,35; 5,20; 10,17; 15,9; 17,23.24.26), e il Figlio ama il Padre (14,31).

Dobbiamo subito notare che l’unione, la conoscenza e l’amore che caratterizzano il rapporto fra il Padre e il Figlio sono il fondamento e il modello per il rapporto fra il Figlio e gli uomini. Gesù prega e chiede al Padre: “Perché tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi” (17,21; cf. 17,22-23). Presentando se stesso come il buon pastore, Gesù dice: “Conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre” (10,14-15). Anche per l’amore egli afferma la stessa connessione e comunicazione: “Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. […] Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi” (15,9.12; cf. 13,34). L’amore del Figlio proviene dall’amore del Padre, e l’amore dei discepoli deve essere radicato nell’amore che essi hanno ricevuto dal Figlio e deve rispecchiarne la qualità e l’intensità. L’origine di tutto è sempre il Padre. Ciò che il Figlio comunica viene dal Padre e fa conoscere il Padre; non è soltanto dono dal Padre, ma è anche verità sul Padre, che diviene modello per l’agire degli uomini.

La perfetta unione fra il Padre e il Figlio non significa identità di ruolo. Il Figlio è colui che riceve tutto dal Padre; Gesù afferma di ricevere in particolare dal Padre la vita, le opere e le parole. Dice: “Come infatti il Padre ha la vita in se stesso, così ha concesso anche al Figlio di avere la vita in se stesso” (5,26; cf. 6,57). Il Figlio dipende dal Padre anche per le opere: “Il Figlio da se stesso non può fare nulla, se non ciò che vede fare dal Padre” (5,19). E più volte Gesù dice che la sua dottrina e le sue parole vengono dal Padre: “Colui che mi ha mandato è veritiero, e le cose che ho udito da lui le dico al mondo. […] Parlo come il Padre mi ha insegnato” (8,26.28; cf. 7,16). Gesù conclude tutta la sua attività pubblica con questa dichiarazione: “Io non ho parlato da me stesso, ma il Padre, che mi ha mandato, mi ha ordinato lui di che cosa parlare e che cosa devo dire. E io so che il suo comandamento è vita eterna. Le cose dunque che dico, le dico così come il Padre le ha dette a me” (12,49-50).

L’orientamento salvifico di questa molteplice dipendenza del Figlio dal Padre è evidente. In forza della vita che ha in se stesso, il Figlio, secondo la volontà del Padre, risuscita i morti nell’ultimo giorno (6,39-40). Le parole che ha udito dal Padre sono la dottrina che Gesù comunica agli uomini (cf. 7,16; 17,8.14). Le opere che egli apprende dal Padre sono i segni che costituiscono il nucleo della sua attività e che, scritti e trasmessi nel vangelo, sono la base per la fede delle future generazioni (20,30-31). Così appare chiaro che non possiamo occuparci del rapporto fra il Padre e il Figlio senza considerare il significato di tale rapporto per la salvezza dell’uomo; appare chiaro che il rapporto tra il Padre e il Figlio ha un’intrinseca qualità salvifica.

Secondo quanto si è visto finora, non è possibile separare il Padre e il Figlio, né il loro intimo rapporto reciproco dall’opera salvifica del Figlio. Nel vangelo di Giovanni, Gesù non parla del Padre prescindendo dal Figlio e, d’altra parte, non parla della salvezza umana prescindendo dall’intimo rapporto del Padre e del Figlio. Dice: “Chi ha visto me ha visto il Padre” (14,9; cf. 12,45), e: “Questa è infatti la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna” (6,40). La verità su Dio e la verità sulla salvezza umana sono inseparabilmente connesse tra loro.

b. Il rapporto del Figlio e Salvatore con gli uomini

89. Sulla base di ciò che abbiamo constatato, nel vangelo di Giovanni troviamo ulteriori precisazioni sull’opera salvifica del Figlio e, di conseguenza, sulla salvezza umana. Giovanni Battista presenta Gesù nella sua prima manifestazione pubblica con queste parole: “Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo!” (1,29; cf. 1,36; Mt 1,21). I Samaritani comprendono che “questi è veramente il salvatore del mondo” (4,42). Fondamentale per l’opera salvifica di Gesù è il suo essere innalzato in croce. Nella sublime affermazione “Io sono”, Gesù rivela in modo eminente la prospettiva salvifica, nei suoi diversi aspetti.

Già nel suo colloquio con Nicodemo egli afferma: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna” (3,14-15). In un altro passo dice: “Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora conoscete che Io Sono” (8,28); cioè gli uomini comprenderanno la sua vera identità come presenza di Dio. Gesù dice anche riguardo a se stesso innalzato in croce: “Attirerò tutti a me” (12,32). Egli sarà “il chicco di grano, caduto in terra”, che morendo “produce molto frutto” (12,24). Il suo innalzamento è allo stesso tempo la sua glorificazione (cf. 12,23.28; 17,1.5), cioè la piena rivelazione sia del suo amore per il Padre che si esprime nell’ubbidienza all’invio e alla volontà del Padre (14,31; cf. 4,34), sia dell’amore sconfinato che il Padre dimostra, mandando e consegnando suo Figlio per salvare il mondo (3,16). Accettando l’ora che è stata determinata dal Padre, Gesù spinge il suo amore per i suoi fino al punto estremo, “fino alla fine” (13,1). E la sua ultima parola, che precede la sua morte in croce, è questa: “È compiuto!” (19,30). Morendo in croce, Gesù ha portato a compimento l’opera che il Padre gli ha affidato per la salvezza degli uomini; ha rivelato, non soltanto nelle parole ma anche nelle opere, il suo amore e l’amore del Padre per gli uomini.

Essendo stato mandato dal Padre e avendo ricevuto tutto dal Padre, Gesù rivela il significato salvifico della sua persona specialmente nelle parole che hanno l’inizio “Io sono”. Con questa espressione, – da comprendersi alla luce della rivelazione di Dio a Mosè: “Io sono colui che sono!” (Es 3,14) –, Gesù esprime che nella sua persona Dio Padre è presente, e al tempo stesso concretizza l’effetto salvifico di tale presenza. Gesù usa la locuzione “Io sono”, senza alcun complemento, tre volte: quando cammina sulle acque (6,20), riguardo a se stesso innalzato in croce (8,28) e nell’asserzione solenne: “In verità, in verità vi dico: prima che Abramo fosse, Io Sono” (8,58), sempre affermando la sua presenza salvifica fondata sulla sua perfetta unione con il Padre. Altre sette volte invece, l’espressione “Io sono” viene precisata da un complemento che introduce realtà fondamentali della vita umana. Possiamo solo accennare brevemente al significato di tali parole.

Nella prima, Gesù afferma: “Io sono il pane della vita” (6,35.48.51). Aggiungiamo subito che il termine “vita” ricorre esplicitamente ancora in altre due dichiarazioni (11,25; 14,6), ed è presente implicitamente in tutte. La vita terrena è il bene fondamentale, la base per tutti gli altri beni. Gesù rivela che la vita eterna, che consiste nell’unione più viva e completa con Dio (cf. 17,3), è il bene più alto, è la salvezza perfetta. La parola di Gesù sul pane contiene tre duplici affermazioni: 1. Il pane vi mantiene nella vita terrena. Da me ricevete la vita eterna. 2. Dipendete dal pane (cibo) per poter vivere; senza il pane la vita finisce. Dipendete da me per ottenere la vita eterna; non potete darvi questa vita da voi stessi. 3. Per poter vivere, dovete mangiare il pane; chi non mangia muore. Per avere la vita eterna dovete credere in me; chi non crede perisce.  

Le altre parole con le quali Gesù definisce la natura della sua persona sono strutturate in modo simile a quella appena descritta, e coincidono quanto al loro significato salvifico. Esse sono spesso connesse con uno dei suoi segni e/o si trovano all’interno di una sua ampia istruzione; il contesto ne chiarisce il significato.

La parola seguente è: “Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita” (8,12; cf. 9,5; 12,35). È estremamente pericoloso camminare nelle tenebre, senza avere la luce. Gesù conosce la vera meta (cf. 8,14), il Padre; egli persegue il giusto cammino e lo mostra ai discepoli. Con la successiva parola: “Io sono la porta” (10,7.9) Gesù dice che Egli dà l’accesso verso le pecore (10,7): i veri e autentici pastori del popolo di Dio sono soltanto le persone che Gesù ha incaricato e che vengono nel suo nome (cf. 21,15-17). E Gesù è anche la porta per le pecore: solo per mezzo di lui i fedeli trovano un cibo buono e abbondante per avere vita in pienezza (10,10). Allo stesso ambito parabolico appartiene l’altra parola di Gesù: “Io sono il buon pastore” (10,11.14); essa mette in rilievo la sollecita cura di Gesù per i suoi, che va fino alla consegna della propria vita, ed è caratterizzata da una reciproca familiarità (10,14-18).

La parola “Io sono la risurrezione e la vita” (11,25) esprime il ruolo di Gesù per il superamento della morte. Nella parola seguente Gesù dice: “Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (14,6). Essa indica sinteticamente il ruolo di Gesù per l’accesso a Dio Padre, che è l’unica fonte di salvezza e di vita; esprime il suo ruolo per raggiungere il Padre, per conoscere il Padre, per partecipare alla vita del Padre.

L’ultima parola: “Io sono la vite, voi i tralci” (15,5; cf. 15,1), riassume in certo modo il rapporto fra Gesù e gli uomini: solo se rimangono nella vite, i tralci possono vivere e portare frutto. La domanda: “Cosa devono fare allora gli uomini per essere uniti a Gesù?”, ci conduce alla considerazione che segue.

c. L’accesso degli uomini alla salvezza

90. Insieme con la vite, Gesù indica due modi di unione con lui (le sue parole e il suo amore): “Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi…” (15,7), e: “Rimanete nel mio amore” (15,9). Le parole di Gesù comprendono tutta la rivelazione portata da lui. Esse hanno la loro origine nel Padre (cf. 14,10; 17,8) e rimangono in colui che le accetta credendo in Gesù (cf. 12,44-50). E questo è il nucleo della fede: “Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me” (14,11). Si rimane poi nell’amore di Gesù accogliendolo con viva gratitudine e avendo piena fiducia in lui, ma anche osservando il suo comandamento: “che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi” (15,12; cf. 13,34). Credere in Gesù, nelle sue parole e nel suo amore, e amare gli altri sono le vie per rimanere in lui, per mantenere l’unione con lui, che è la vite, cioè la sorgente di ogni vita e salvezza (cf. 1 Gv 3,23).

Proprio nel contesto dell’ultima parola “Io sono”, Gesù dice: “Vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi” (15,15). Il suo rapporto con i discepoli corrisponde al suo rapporto con il Padre ed è di natura perfettamente personale, familiare e cordiale. Permanere in questo rapporto con Gesù costituisce la vita eterna, la salvezza rivelata da Gesù. Con quale intensità Egli desideri tale unione, Gesù lo mostra alla fine della sua grande preghiera al Padre; dal “prego” (17,9.15.20) egli passa al singolare e inaudito “voglio”, dicendo: “Padre, voglio che quelli che mi hai dato siano anch’essi con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria, quella che tu mi hai dato; poiché mi hai amato prima della creazione del mondo” (17,24).

 Il fatto che la rivelazione di Dio sia concentrata su Dio stesso e sulla salvezza umana (cf. Dei Verbum, n. 2) si manifesta dunque in modo particolare nel vangelo di Giovanni.

3.4. Le lettere dell’Apostolo Paolo

91. Quelli di Paolo sono i più antichi scritti del Nuovo Testamento; essi riferiscono la verità che Dio ha rivelato a Israele, e che, con l’invio del Figlio di Dio, Gesù Cristo, è stata portata a compimento e annunciata oltre i limiti del popolo eletto, in modo tale che “non c’è più Giudeo né Greco” (Gal 3,28). A differenza dei vangeli, tutti posteriori al suo epistolario, Paolo non considera tanto il passato quanto l’attuazione e il futuro della vita in Cristo delle comunità cristiane, fondate da lui o da altri, ma tutte unite dalla stessa risposta di fede e di amore.

Sono assai limitati i ricordi storici di Gesù che si possono ricavare dalle sue lettere. E va anche notato che nei suoi scritti sono assenti i titoli attribuiti dagli evangelisti al Gesù terreno (maestro, rabbi, profeta, figlio di Davide, Figlio dell’uomo), mentre prevalgono quelli che qualificano direttamente il Risorto, come Signore (Fil 2,11), Cristo (con la tendenza a essere impiegato come nome proprio di Gesù; cf. Rm 5,6.8; ecc.), Figlio di Dio (Rm 1,4; Gal 4,4; ecc.), immagine di Dio (2 Cor 4,4), e altri. La morte e la risurrezione del Signore e gli effetti salvifici che provengono da esse concentrano su di sé in modo quasi esclusivo l’interesse personale e pastorale di Paolo. Egli vive “nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Gal 2,20). Perciò combatte accanitamente contro quanti deformano questa “verità del Vangelo” (Gal 2,5), e si oppone perfino a “Cefa” (Gal 2,11). In un certo senso, Paolo comincia là dove finiscono i Vangeli.

 Esponiamo la testimonianza di Paolo su Dio e sulla salvezza umana in quattro passi: a. Paolo conosce la rivelazione dalla propria vocazione e dalla tradizione della Chiesa; b. Dio si rivela nel Cristo crocifisso e risorto; c. Si riceve e si vive la salvezza nella Chiesa, Corpo di Cristo; d. La pienezza della salvezza consiste nella risurrezione con Cristo.

a. Paolo conosce la rivelazione dalla propria vocazione e dalla tradizione della Chiesa

92. Collegando la sua particolare vocazione con quanto già si predicava e viveva nella Chiesa, da lui prima ferocemente perseguitata (1 Cor 15,9; Gal 1,13; Fil 3,6), Paolo si pone in continuità con la tradizione e con la fede comune delle Chiese. Consapevole della singolare comunicazione, personalmente ricevuta, della verità del Vangelo (Gal 1,11-17; 1 Cor 15,8), egli nondimeno sperimenta la necessità di raccordarla con tutte le altre comunità cristiane. La relazione di Paolo con i credenti in Cristo non è soltanto quella di un padre che dona (1 Cor 4,15; Gal 4,19), ma anche e anzitutto quella di colui che ha un debito verso i predecessori, dai quali riceve la stretta di mano (Gal 2,9). Tra Gesù e l’attività apostolica di Paolo intercorrono circa vent’anni di vita ecclesiale, che si è sviluppata a Gerusalemme, in Samaria, a Damasco e ad Antiochia di Siria. È in questo periodo che la fede in Gesù si consolida sempre più profondamente nella mente e nel cuore dei primi cristiani, configurandosi presto nella sua originale identità, anche se con successivi chiarimenti. Paolo è debitore anche a questo sviluppo e a queste Chiese. Di conseguenza, egli, dopo aver insistito con forza sul fatto che la chiamata rivolta a lui direttamente da Cristo era sufficiente per autenticare il suo vangelo, senza dover aspettare l’approvazione degli apostoli precedenti (Gal 1,11–17), nondimeno sente l’urgenza di collegare la rivelazione da lui ricevuta con l’eredità comune visitando Cefa (Gal 1,18) e confrontando la sua predicazione, “per non correre o aver corso invano” (Gal 2,2). Parimenti, pur mettendo in risalto la supremazia del suo lavoro apostolico (“ho faticato più di tutti loro”, 1 Cor 15,10), Paolo si affretta a dichiarare: “Sia io che loro, così predichiamo e così avete creduto” (1 Cor 15,11).

 Egli rifiuta perciò qualsiasi forma di separatismo locale, che si distacchi dalle altre Chiese, e domanda ai Corinzi: “Da voi forse è partita la parola di Dio? O è giunta soltanto a voi?” (1 Cor 14,36). Ci sono tante divisioni in questa Chiesa: gruppuscoli che, in modo anche polemico, si rifanno a diverse personalità ecclesiali (cap. 1–4); celebrazioni di tono “classista” della stessa Cena del Signore (1 Cor 11,17–34); emulazioni per i carismi più in vista (cap. 12–14). Una simile situazione di divisione spiega l’ampia portata del saluto iniziale di Paolo: “Alla Chiesa di Dio che è a Corinto [… ai] santi per chiamata, insieme a tutti quelli che in ogni luogo invocano il nome del Signore nostro Gesù Cristo, Signore nostro e loro” (1,2). Giustamente questa comunità, assediata da tanti pericoli di disgregazione, viene esortata da Paolo a ricordare tanti importanti fattori di unità: il Cristo indiviso (1,13); il battesimo in un solo Spirito (12,13); l’eucaristia (10,14-17; 11,23-34); l’amore (8,1; 13; 16,24).

b. Dio si rivela nel Cristo crocifisso e risorto

93. La morte in croce del Figlio di Dio è il cuore della verità rivelata che viene annunciata da Paolo (1 Cor 2,1-2). È “la parola della croce” (1 Cor 1,18), che si oppone alle pretese di Giudei e Greci (1,22-23). Al vanto dei Greci, fieri della loro “sapienza”, egli contrappone “la stoltezza” della croce (1,23). Paolo reagisce anche al legalismo dei Galati: niente si può aggiungere a Cristo, neanche la legge che Dio ha dato come elemento preparatorio e che Cristo ha portato a compimento e superato.

Sorprende davvero che, per contrastare l’autosufficienza dei Corinzi, Paolo non faccia ricorso alla risurrezione, che avrebbe controbilanciato splendidamente lo scandalo della croce. Sebbene la risurrezione abbia un’importanza unica nel suo Vangelo (vana è la predicazione e la fede senza la risurrezione: 1 Cor 15,14), Paolo, contro il trionfalismo dei Corinzi, ha voluto ricordare che non si giunge alla Pasqua senza passare prima per il Golgota. Dobbiamo notare come, riferendosi al crocifisso, egli usi il participio perfetto (estauroménos: 1,23; 2,2; Gal 3,1), indicando così fino a che punto Cristo, sebbene già glorificato, continui a essere anche il crocifisso. È dunque evidente che Dio si manifesta definitivamente mediante lo scandalo della croce di Cristo, mostrandosi come Dio di grazia, che preferisce i deboli, i peccatori e i lontani. Egli è presente e agisce là dove non si potrebbe immaginare: in Gesù di Nazaret condannato alla morte in croce.

Ma “la morte non ha più potere su di lui” (Rm 6, 9). Qui dobbiamo ancora notare che Paolo non presenta mai la risurrezione come un fatto indipendente dalla croce. Tra il crocifisso e il risorto esiste un’assoluta identità, non si interrompe cioè la continuità tra colui che “umiliò se stesso, facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce”, e colui che “Dio esaltò e [a cui] donò il nome che è al di sopra di ogni nome”, cioè il nome “Signore” (Kyrios: Fil 2,8-9.11). Se si guardasse soltanto il crocifisso, non si troverebbe nessuna differenza tra Gesù e gli altri due malfattori che sono stati condannati assieme a lui, e neppure tra lui e l’eroico crocifisso Spartaco. D’altra parte, se si considerasse soltanto il risorto, si finirebbe in una religione astratta, alienante, dimentica della via (crucis) che bisogna percorrere prima di giungere alla gloria. In ogni caso, è stato l’incontro con Cristo vincitore della morte che ha fatto capire a Paolo la vitalità del crocifisso, e non viceversa. Questo è stato possibile, sia per l’esperienza personale dell’apostolo (Gal 1,15-16; 1 Cor 9,1; 15,8), sia per la mediazione della Chiesa (1 Cor 11,23; 15,3: “A voi ho trasmesso […] quello che anch’io ho ricevuto”).

c. Si riceve e si vive la salvezza nella Chiesa, Corpo di Cristo

94. La fondamentale e singolare armonia tra diversità e unità nelle comunità cristiane ha spinto Paolo a servirsi della metafora del “corpo” per approfondire i misteri della Chiesa di Cristo. Si tratta di una considerazione che nel Nuovo Testamento è esclusivamente paolina (1 Cor 12,12-27; Rm 12,4-5). Essa viene considerevolmente sviluppata nella lettera ai Colossesi (1,18.22.24; 2,9-19) e in quella agli Efesini (2,15-16; 4,4.12-16; 5,28-33), che secondo molti appartengono a una posteriore “scuola paolina”.

Parlando dei cristiani come “Corpo di Cristo”, Paolo va oltre il semplice paragone: le membra del Cristo costituiscono una sola cosa con lui, la Chiesa è corpo “in lui”. Essa non è frutto della somma degli individui e della loro collaborazione, perché è preesistente all’aggregazione di ciascun membro ad essa. Perciò anche il risultato non è qualcosa di neutro (hen), ma qualcosa di personale (heis): “Non c’è Giudeo né Greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno (heis) in Cristo Gesù” (Gal 3,28).

Questo passo insegna che “noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo corpo” (1 Cor 12,13). Quasi preannunciando l’uso di tale metafora, Paolo aveva già sottolineato la fonte originaria di questa unità: “Vi sono diversi carismi, ma uno solo è lo Spirito; vi sono diversi ministeri, ma uno solo è il Signore; vi sono diverse attività, ma uno solo è Dio, che opera tutto in tutti” (1 Cor 12,4-6). Così si sottolinea fino a che punto le differenze, armonizzate in unità nella Chiesa, riflettano la unità originaria divina, nella quale esse sono radicate. Lo fa capire anche la preziosa benedizione finale in 2 Cor 13,13: “La grazia del Signore Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi”. Questo augurio di Paolo non inizia con Dio Padre, ma con Gesù Cristo, perché soltanto lui ci ha introdotti nel mistero trinitario (Rm 8,39). Dobbiamo anche notare, alla fine, il compito dello Spirito Santo di creare comunione, perché spetta a Lui realizzare lungo i secoli l’opera della salvezza: “Perché in Cristo Gesù la benedizione di Abramo passasse ai pagani e noi, mediante la fede, ricevessimo la promessa dello Spirito” (Gal 3,14). Così tutti sono stati dissetati dallo stesso Spirito (1 Cor 12,13), e formano una comunità fraterna, diversificata ma unanime. Il dono inestimabile di questa unità, che ha superato perfino l’antica divisione tra “Giudeo e Greco” (Rm 10,12; 1 Cor 1,24; 12,13; Gal 3,28), obbliga a camminare “in una vita nuova” (Rm 6, 4), “secondo lo Spirito, che è nuovo” (Rm 7,6) in modo che “se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove” (2 Cor 5,17).

d. La pienezza della salvezza consiste nella risurrezione con Cristo

95. L’unione con Cristo, che si vive insieme con gli altri credenti nel Corpo di Cristo che è la Chiesa, non è ristretta alla vita terrena; anzi, Paolo dice: “Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini” (1 Cor 15,19). Nel più lungo capitolo di tutte le sue lettere (1 Cor 15,1-58), egli cerca di fondare e di spiegare la risurrezione dei cristiani, che deriva dalla risurrezione di Cristo. Afferma con forza: “Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti […]; in Cristo tutti riceveranno la vita” (1 Cor 15,20.22). La fede nella risurrezione con Cristo, nella comunione eterna con lui e con il Padre, costituisce il fondamento e l’orizzonte della predicazione di Paolo. Influisce profondamente sulla vita terrena attuale, rende capaci di sopportare le difficoltà e le pene “sapendo che la fatica non è vana nel Signore” (1 Cor 15,58). Nella sua lettera più antica, l’apostolo spiega ai Tessalonicesi: “Dio, per mezzo di Gesù, radunerà con lui coloro che sono morti” (1 Ts 4,14); e questo, “perché non siate tristi come gli altri che non hanno speranza” (1 Ts 4,13).

Paolo non dà nessuna descrizione di tale vita, ma afferma semplicemente: “Per sempre saremo con il Signore” (1 Ts 4,17; cf. 2 Cor 5,8). Egli riconosce in questa fede e in questa speranza una grande forza di incoraggiamento e di consolazione e, alla fine del brano, dice ai cristiani di Tessalonica: “Confortatevi dunque a vicenda con queste parole” (1 Ts 4,18). Guardando alla sua morte, Paolo afferma: “Ho il desiderio di lasciare questa vita per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio” (Fil 1,23). Essere con Cristo che è con il Padre, cioè la definitiva e perfetta comunione di vita con Lui e, in Lui, con tutte le membra del suo Corpo, si rivela come la pienezza della salvezza (cf. 1 Cor 15,28; anche Gv 17,3.24).

3.5. L’Apocalisse

a. Introduzione: una verità rivelata, particolare e suggestiva

96. La verità rivelata, contenuta nel messaggio dell’Apocalisse, viene designata come la “rivelazione di Gesù Cristo al quale Dio la consegnò” (Ap 1,1). Nel decorso del libro questa verità rivelata, donata da Dio Padre a Gesù Cristo, si precisa gradualmente come una iniziativa, un progetto creativo e salvifico, che, nato nell’intimità di Dio, si attua poi all’esterno di Dio, a livello dell’uomo. Per la realizzazione del progetto operano Dio stesso, Gesù Cristo, la Parola ispirata di Dio. Possiamo dare un nome specifico all’oggetto di questo progetto creativo – salvifico: si tratta del Regno di Dio che, ideato da Dio, abbraccia tutto l’universo creato e si sviluppa nella storia dell’uomo per mezzo di Cristo e dei cristiani, fino a raggiungere, spinto e portato dalla Parola di Cristo, il suo culmine escatologico nella meraviglia della Gerusalemme Nuova (cf. Ap 21,1 – 22,5).

Lo sviluppo del Regno di Dio nella storia procede in modo dialettico: c’è un’opposizione radicale, che diventa una lotta accanita, tra il “sistema di Cristo” comprendente Gesù Cristo e i suoi seguaci e il “sistema terrestre” del male, ispirato e attivato dal Demoniaco, che mira a realizzare un proprio anti-regno, opposto al Regno di Dio. La lotta si concluderà, alla fine, con la scomparsa definitiva di tutti i protagonisti del male e l’attualizzazione piena del Regno di Dio nell’ambito definitivo di “un cielo nuovo e una terra nuova” (Ap 21,1), quando una voce uscita dal trono del Regno di Dio dichiarerà solennemente:     "Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli abiterà con loro ed essi saranno  suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio. E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate". (Ap 21,3-4). È la presentazione più bella del Regno di Dio realizzato.

Ma il senso acuto che l’autore dell’Apocalisse ha dell’uomo concreto in generale e, specificamente, delle enormi difficoltà che incontra il cristiano di fronte alle iniziative ostili del “sistema terrestre”, lo spingono a sottolineare, pensando al Regno di Dio, la certezza di una sua piena attuazione. Il Regno si realizzerà sulla terra, nella zona dell’uomo, con tutta la pienezza con cui è stato progettato al livello altissimo di Dio.           

Abbiamo, così, il Regno di Dio, visto, da una parte nell’insieme del suo contenuto globale e, dall’altra, seguito e scrutato nel suo formarsi concreto. I due aspetti, uniti insieme, si sommano, offrendo un quadro avvincente e unitario del Regno di Dio e del suo divenire. E’ questa la verità rivelata tipica dell’Apocalisse, che ora possiamo vedere in dettaglio.

b. La verità globale: il Regno di Dio realizzato dal progetto creativo e salvifico

97. Le prime ricorrenze del Regno che troviamo già all’inizio del libro ci offrono uno scenario illuminante: rivolgendosi a Gesù Cristo Crocifisso Risorto, che sente presente e vicino, l’assemblea liturgica, in un impeto di gratitudine commossa, esprime il suo grazie per i doni da lui ricevuti: "A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno, sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen". (1,5-6). Raggiunto dall’amore di Gesù Cristo, il cristiano si riconosce costituito da lui Regno di Dio in Cristo. È un Regno in sviluppo e in divenire, non certo concluso, ma già iniziato: c’è tra il cristiano e Gesù Cristo un’appartenenza reciproca di amore, con una responsabilità sacerdotale per il cristiano che lo rende mediatore tra Dio, Cristo e la realtà umana..

Ma prima ancora di questa dichiarazione da parte dell’assemblea liturgica, troviamo un riferimento al Regno in senso opposto. Impartendo la benedizione trinitaria all’assemblea, Giovanni aggiunge: “… e da Gesù Cristo, il testimone fedele, il primogenito dei morti e il sovrano dei re della terra". Accanto a quella di Dio e di Cristo, emerge una regalità antagonista: i “re della terra” indicano nell’Apocalisse (cf. Ap 6,15; 17,2; 18,3.9; 19,19) dei centri di potere caratteristici del “sistema terrestre”, opposti al Regno di Dio. Tra i cristiani già appartenenti al Regno di Dio e l’anti-regno del male scatta un’opposizione che li porterà a condividere e ad affiancare, come suoi sacerdoti, l’opposizione vincente propria di Cristo-Agnello (cf. Ap 5,6-10).

È propria infatti di Cristo-Agnello la gestione dello sviluppo del Regno di Dio nella storia. Presentato solennemente con un termine desunto dal Quarto Vangelo (cf. Gv 1,29.36) come “Agnello”, aggiunge, alla capacità di “togliere il peccato del mondo” (cf. Gv 1,29), l’energia che gli permette di vincere e annientare tutto il male realizzato dal Demoniaco e, positivamente, di condividere con tutti gli uomini che vorranno appartenergli lo Spirito Santo di cui è portatore (cf. Ap 5,6). A lui il Padre celeste affida solennemente tutto il progetto creativo e salvifico del Regno (cf. Ap 5,7). E sarà lui a guidare come suoi sacerdoti mediatori tutti coloro che ha costituito Regno. E l’intesa di amore che ha unito tra loro Gesù Cristo e i cristiani che aderiscono a lui come suo regno iniziato, cresce e si sviluppa man mano che la loro collaborazione procede.

L’autore dell’Apocalisse tende a sottolineare al massimo questa intesa di amore collocandola, secondo il suo stile caratteristico, nello schema umano dell’amore di due fidanzati. Tra Gesù Cristo, così, e coloro che partecipano al suo Regno si stabilisce una reciprocità che ha la freschezza, la radicalità , la forza travolgente e la tenerezza di un “primo amore” (cf. Ap 2,4-5), un “amore da gelosia” (Ap 3,19). E Gesù Cristo lo esige in modo assoluto (cf. Ap 2,4-5). Si intravede che il Regno di Dio che lui è chiamato a costruire dovrà essere un Regno di amore.

L’intesa di amore reciproco tra Gesù e i suoi si sviluppa in parallelo con la loro collaborazione nel superare il male e nell’impiantare il bene, tendendo a un massimo di realizzazione, raggiunto il quale i cristiani passeranno nel loro amore con Gesù Cristo, dal fidanzamento alla nuzialità. Spostandosi dal livello attuale di conflitto tra il “sistema di Cristo” e il “sistema terrestre” al livello del compimento finale, l’autore intravede, con gioia esultante, la realizzazione piena del Regno di Dio e una voce celeste che gli dice: “Ora si è compiuta la salvezza, la forza e il regno del nostro Dio e la potenza del suo Cristo” (Ap 12,10). Pur avvertendo acutamente la pressione sconvolgente del male – e ne parlerà esplicitamente –, l’Apocalisse insiste su questa conclusione positiva della storia. Il pensiero del Regno di Dio realizzato lo avvince e, in quella è una delle più belle tra le sue dossologie (cf. 19,1-9) si esprime in termini entusiasti: “Alleluia! Ha preso possesso del suo regno il Signore, il nostro Dio, l’Onnipotente. Rallegriamoci e esultiamo, rendiamo a lui gloria, perché sono giunte le nozze dell’Agnello; la sua sposa è pronta: le fu dato una veste di lino puro e splendente. La veste di lino sono le opere giuste dei santi” (Ap 19,6-8). Con le “opere giuste” della loro collaborazione con Cristo, i cristiani sono visti come la fidanzata che si confeziona l’abito da sposa. Le “nozze dell’Agnello” si realizzeranno quando, in forza dell’impegno congiunto di Gesù Cristo e dei suoi, sarà scomparso tutto il male del mondo e tutti gli operatori del male saranno stati annientati e l’impegno di Gesù Cristo e dei suoi avrà comunicato a tutti la novità di Cristo. E i cristiani, preparati dal tocco di Dio, potranno amare Gesù Cristo come Gesù Cristo ha amato e ama loro. La “fidanzata” sarà divenuta la “sposa”.

È la meraviglia della Gerusalemme Nuova, del Regno di Dio ormai attuato. Non più impegnati nel divenire del Regno di Dio, i cristiani ne faranno parte pienamente e lo godranno nella sua totalità. Ce lo dice la splendida pagina conclusiva (cf. Ap 22,1-5). Nella piazza centrale della Gerusalemme nuova c’è un unico trono, quello “di Dio e dell’Agnello” (Ap 22,1c) . Dal trono scaturisce un “fiume d’acqua viva, limpido come cristallo” (Ap 22,1ab), simbolo dello Spirito Santo. Il fiume scorre facendo nascere e sviluppare “l’albero della vita” (Ap 22,2c), non più come unica pianta (cf. Ap 2,7 e Gen 2,9; 3,22.24), ma “da una parte e dall’altra del fiume” (Ap 22,2b) come una foresta di vita. Dato il coinvolgimento congiunto di Dio Padre, del Figlio e dello Spirito si ha, potremmo dire, una “inondazione trinitaria” di vita e di amore all’infinito, che raggiunge gli uomini. E gli uomini, felici di essere pienamente regno e di potere di conseguenza amare senza limiti, non avranno più “bisogno di luce di lampada né di luce di sole, perché il Signore Dio li illuminerà. E regneranno nei secoli dei secoli” (Ap 22,5). Ecco il grande progetto del Regno di Dio realizzato.        

c. L’approfondimento della verità globale tramite la “veracità”

98.  La grande verità rivelata dell’Apocalisse, concentrata nel Regno di Dio, viene ripercorsa e scrutata in profondità nelle dieci ricorrenze tipiche del termine “verace”. Rapportate come sono alla verità rivelata del Regno di Dio, illustrano e sottolineano il rapporto di somma coerenza che intercorre tra il progetto visto al didentro di Dio, nell’intimità divina, e la sua attuazione al di fuori di Dio, nella concretezza della storia umana. E a questo punto la speranza del cristiano in cammino decolla. Nonostante tutta la pressione esasperante del male, ”il Regno del nostro Dio e la potenza del suo Cristo” (Ap 12,10), lungi dall’essere un sogno evanescente, appariranno nella loro realtà totale.

La veracità di Dio Padre

La prima delle quattro attribuzioni del termine “verace” a Dio Padre lo riguarda personalmente. I martiri, ormai a contatto diretto con Dio, constatando la presenza persistente del male nel mondo, rivolgono a Dio una domanda cruciale e carica di emotività, urlando a gran voce: “Fino a quando, Sovrano, tu che sei il santo e verace, non farai giustizia e non vendicherai il nostro sangue contro gli abitanti della terra?” (Ap 6,10). I martiri guardando in Dio direttamente, vi scorgono l’onnipotenza assoluta che lo rende “sovrano” di tutto; vedono Dio “santo” e, come tale, contrapposto radicalmente al male e con la spinta irresistibile a eliminarlo; vedono Dio “verace”, con una coerenza assoluta tra tutto quello che lui è in se stesso e la sua azione nella storia, e gli chiedono, turbati, fino a quando la sua azione ritardi. E Dio risponde rassicurandoli: la sua azione di superamento del male ci sarà infallibilmente, ma si realizzerà gradualmente secondo il suo piano. Intanto, i martiri ricevono subito una loro partecipazione diretta alla risurrezione di Cristo simboleggiata dalla “veste candida” (Ap 6,11) che viene loro donata.

Quanto stiamo vedendo è confermato ed esplicitato quando il termine “verace” viene riferito ad aspetti esecutivi con i quali Dio porta avanti nella storia il suo progetto. Si tratta delle “vie” (cf. Ap 15,3) ed anche dei “giudizi” valutativi (cf. Ap 16,7; 19,2) che, mettendo Dio in contatto con il divenire umano, garantiscono in quanto “veraci” la somma coerenza tra Dio in se stesso e tutto il suo agire.

La veracità propria di Cristo

99. Nel passaggio di dono da Gesù Cristo agli uomini, proprio del progetto di Regno di Dio, si inserisce per tre volte il termine verace (Ap 3,7.14;19,9),portando a una comprensione più completa del Regno stesso e del suo divenire.

Nella prima di queste ricorrenze Gesù si definisce “il santo, il verace” (Ap 3,7), collocandosi così allo stesso livello del Padre, al quale i martiri avevano gridato: “tu che sei il santo e verace” (Ap 6,10). In quanto “santo”, Gesù, come il Padre, possiede la pienezza della divinità. Quando il Padre e Gesù entrano nella storia degli uomini, vengono qualificati entrambi col titolo di verace, nel senso, visto sopra, di una corrispondenza perfetta tra la loro divinità, e il loro coinvolgimento nella storia. Il loro contatto con gli uomini, nel grande progetto di Dio, non avverrà a un livello ridotto.

Guardando a Gesù Cristo impegnato con gli uomini, emerge un altro aspetto della sua presenza nella concretezza della storia: è la testimonianza del Padre della quale è portatore. Come “Parola vivente” vede direttamente il Padre nella sua immensità, come “Parola incarnata”, sta in contatto aderente con l’uomo, comprendendolo fino in fondo. La sua testimonianza potrà così portare la ricchezza infinita del Padre, che lui vede, a portata di mano degli uomini, così come sono e dove sono. Definendosi egli stesso “il testimone, quello fedele e verace” (Ap 3,14), sottolinea come la sua testimonianza “fedele” corrisponde totalmente alla ricchezza infinita del Padre e sta nello stesso tempo in contatto aderente con l’uomo. In più, con la qualifica di verace, viene esplicitato come Gesù Cristo impegna nella sua testimonianza la pienezza della sua divinità e della sua umanità. La ricchezza infinita del Padre che, così, in Gesù Cristo ci si rivela, dà corpo e spessore alla verità rivelata del grande progetto del Regno. La rivela e la dona.

Nel contesto movimentato che vede Cristo e i suoi impegnati, di fronte al sistema terrestre, ad estirpare il male e ad impiantare il bene, Cristo è chiamato ”fedele e verace” (Ap 19,11), indicando con ciò la sua fedeltà al progetto del Padre e l’impegno totale, per realizzarlo, della sua divinità e della sua umanità. Alcuni aspetti di questa veracità vengono indicati e sottolineati: il suo movente è un amore bruciante (“gli occhi […] fiamma di fuoco”: Ap 19,12) per il Padre e per gli uomini; Egli dà la sua vita per compiere la sua missione  (indossa un “mantello immerso nel sangue”: Ap 19,13a); il suo nome, rimarrà sconosciuto e costituirà all’inizio un suo segreto (Ap 19,12c). Ma quando, mediante la parola che rivolge (la “spada tagliente” che esce dalla sua bocca: Ap 19,15), avrà impresso in tutti coloro che lo accolgono un’impronta di se stesso, allora il suo nome sarà riconosciuto e lui sarà “chiamato” pubblicamente “il Verbo di Dio” (Ap 19,13b). Quello “Verbo di Dio” per eccellenza e vivente, che Gesù Cristo si porta dentro e con cui coincide come logos incarnato (cf. Gv 1,1.14), veicolato dalla sua parola rivolta agli uomini, verrà come stampato in tutti gli uomini che l’accolgono, conferendo loro la sua novità cristologica. Tutto, alla fine, sarà configurato in lui, Parola donata.

La veracità delle parole ispirate e ispiranti          

100. Nella prima delle tre ricorrenze di verace riferito alle parole (Ap 19,9), l’Angelo interprete che segue Giovanni si esprime in questi termini: “Queste parole di Dio sono veraci.” Le parole ispirate che incontriamo nell’Apocalisse sono tutte, in radice, parole proprie di Dio; passano e si condensano in Gesù Cristo, Parola vivente di Dio; da Gesù Cristo tramite il suo Spirito vengono irradiate verso gli uomini e li raggiungono. Sono dette “veraci” perché sono in grado di portare e di applicare all’uomo che le accoglie tutta la ricchezza di Cristo e di Dio di cui sono portatrici.

La seconda ricorrenza ha una formulazione letteraria più complessa. Vi si alternano un intervento diretto di Dio, una ripresa del discorso da parte dell’Angelo interprete e, di nuovo, l’intervento di Dio che conclude: “E Colui che sedeva sul trono disse: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose». E soggiunse (l’angelo interprete): «Scrivi, perché queste parole sono fedeli e veraci». E mi disse (Dio seduto sul trono): «Ecco, sono compiute! Io sono l’Alfa e l’Omega, il Principio e la Fine…»” (Ap 21,5-6). L’affermazione solenne da parte di Dio, che, presentato “seduto sul trono”, è visto come il principio determinante di tutto lo sviluppo della verità rivelata, di tutto il divenire del Regno, mostra l’intento costante che lo muove: vuole imprimere in tutte le cose, cominciando dall’uomo, la novità di Cristo. La ripresa del discorso dell’angelo interprete rivolto a Giovanni, ne sottolinea il valore che andrà fissato per iscritto: tutte “queste parole” di Dio (cf. Ap 19,9), a cominciare dalle ultime pronunciate, “sono fedeli”, corrispondendo adeguatamente all’intento di Dio che le destina all’uomo tramite Gesù Cristo. Avendo poi un contenuto dinamico pienamente coerente con le esigenze di Dio e le aspirazioni dell’uomo, vengono dette “veraci”, portatrici, come sono, di tutta la “novità” di Cristo e capaci di comunicarla.

Raggiunto il traguardo escatologico, le parole di Dio presenti nell’Apocalisse potranno considerarsi “compiute”. Il fatto è affermato solennemente da Dio, tanto vicino alla storia dell’uomo da coincidere quasi con l’inizio e col compimento di essa. Nell’arco di tempo che intercorre tra l’“alfa” e l’“omega”, l’“inizio” e il “compimento”, si collocano le parole di Dio, “divenendo”: si sviluppano e irradiano dinamicamente il loro contenuto cristologico. E tramite queste parole che divengono, Dio rende “nuove tutte le cose”.

La terza ricorrenza di verace riferita alle parole ispirate ricorre nell’ultima pagina del libro. Ancora una volta l’Angelo interprete dichiara: “Queste parole sono fedeli e veraci” (Ap 22,6). Al significato di una piena corrispondenza all’intento di Dio e di un impegno pieno, sempre da parte di Dio, a impiegare per mezzo di Cristo la sua divinità a servizio dell’uomo, si aggiunge qui il riferimento al libro che è stato appena letto all’assemblea. Le parole ispirate, accolte debitamente, diventano ispiranti in chi le accoglie, impiantando il Cristo, il nuovo che rinnova, di cui sono portatrici.

E così il cerchio si chiude. Partendo da Dio Padre, tutto passa a Gesù Cristo, Parola vivente del Padre. Gesù Cristo, Parola vivente, si fa parola inviata e donata: una parola, cioè, che, parte da lui stesso come contenuto, raggiunge gli uomini e impianta in loro la sua novità. Dal livello cristologico che così si forma e si sviluppa negli uomini, costituendo gradatamente in loro un’unità ineffabile con Gesù Cristo Parola vivente, viene raggiunto il Padre celeste.

4. Conclusione

101. Il lettore della Sacra Scrittura non può non essere impressionato dalla maniera in cui testi tanto diversi quanto a forma letteraria e radicamento storico siano stati riuniti in un unico Canone e manifestino una concorde verità che trova la sua piena espressione nella persona del Cristo.

a. Gli enunciati letterari e teologici dell’Antico Testamento

Lo studio dei vari insiemi letterari dell’Antico Testamento ha mostrato l’estrema ricchezza del manifestarsi di Dio nella storia. Le Scritture attestano che Dio vuole entrare in comunicazione con l’umanità, assumendo molteplici mediazioni.

– La stessa opera della creazione è il riflesso della volontà divina di essere un Dio “per l’uomo”: Dio prende l’iniziativa di manifestarsi in un’opera creatrice che il racconto biblico definisce “buona” (Gen 1,31), pur rilevando che quest’opera è da subito confrontata con la questione del male (Gen 3,1-24).

– Dio si manifesta ugualmente nella storia singolare del popolo d’Israele, con molteplici interventi salvifici – liberazione dalla schiavitù egiziana (Es 14), liberazione dall’idolatria (Es 20; Dt 5) – e con il dono della Legge, che educa Israele a una vita aperta all’amore del prossimo (Lv 19).

– La letteratura profetica qualifica la parola dei profeti come ispirata (introduzione ai libri, formula del messaggero, formule di oracolo). Gli oracoli profetici esprimono sia le esigenze di Dio rivelate al popolo in mezzo alle vicissitudini della storia, sia la fedeltà del Signore nonostante le colpe di Israele.

– La letteratura sapienziale a sua volta riflette i conflitti che possono sorgere tra le antiche culture che aspirano alla verità e la specifica rivelazione di cui Israele è stato beneficiario. Comune alle tradizioni sapienziali è la presentazione della sapienza di Israele come l’espressione per eccellenza della verità rivelata. In particolare, durante l’epoca ellenistica, la sapienza d’Israele, confrontata con i sistemi filosofici greci, intende proporre un sistema di pensiero coerente, che sottolinea il valore morale e teologico della Torah e che si propone di suscitare l’adesione del cuore e dell’intelligenza.

– La letteratura innica, in particolare i Salmi, integra l’insieme delle dimensioni precedentemente enunciate: il Salterio celebra Dio creatore e salvatore, Dio presente nella storia, Dio sorgente di verità, invitando al tempo stesso i credenti a una vita fedele, giusta e retta.

b. Gli enunciati teologici del Nuovo Testamento

102. Il progetto che accomuna i libri del Nuovo Testamento è quello di condurre il lettore a incontrare il Cristo, “rivelatore del Padre”, fonte di salvezza e manifestazione ultima della verità. Questa prospettiva comune assume pedagogie diverse.

– I vangeli sinottici, i cui redattori si basano su testimonianze storiche dirette, mostrano come Gesù di Nazaret abbia “adempiuto” l’insieme delle attese di Israele: Egli è il Messia, il Figlio di Dio, il mediatore della salvezza. Consacrato dallo Spirito, con la sua morte e risurrezione, inaugura i tempi nuovi, il Regno di Dio.

– Il vangelo di Giovanni manifesta che il Cristo è la pienezza della Parola di Dio, il Verbo rivelato ai discepoli, che ricevono la promessa del dono dello Spirito.

– Le lettere di Paolo rivendicano l’autorità di un apostolo, che, a partire dalla sua personale esperienza del Cristo, diffonde il Vangelo fra i pagani, e propone, con un nuovo vocabolario, l’opera di Cristo alle culture del suo tempo.

- Secondo l’Apocalisse Gesù che riceve e dona la parola ispirata (cf. Ap 1,1) costituisce il dono supremo del Padre. Esiste una corrispondenza assoluta tra il progetto del Regno che Dio vuole e la sua attualizzazione verace nella storia dell’uomo mediante il Cristo. Quando le parole ispirate si saranno tutte realizzate, annientando il male installato nella storia e impiantandovi la meraviglia di Cristo, Dio dichiarerà solennemente, riferendosi alle parole: “Sono compiute!” (Ap 21,6).

c. La necessità e le modalità di un approccio canonico alla Scrittura

103. La Costituzione Dogmatica Dei Verbum (n. 12) e l’esortazione post-sinodale Verbum Domini (nn. 40-41) indicano come solo l’approccio che tenga conto dell’insieme canonico della Scrittura sia atto a farne scoprire il pieno senso teologico e spirituale. Ogni tradizione biblica deve essere infatti interpretata nel suo contesto canonico di enunciazione, il che permette di esplicitare i nessi diacronici e sincronici con l’insieme del Canone. L’approccio canonico evidenzia così i rapporti fra le tradizioni dell’Antico Testamento e quelle del Nuovo Testamento.

Al di là della diversità descritta nei paragrafi precedenti, il Canone delle Scritture fa infatti riferimento a un’unica Verità, il Cristo, che la testimonianza apostolica riconosce come Figlio di Dio, rivelatore del Padre e salvatore degli uomini. L’intero Canone culmina in questa affermazione, verso la quale “tendono”, per così dire, tutti gli elementi che lo compongono. In altre parole, il Canone delle Scritture è il contesto di interpretazione adeguato per ciascuna delle tradizioni che lo compongono: essendo stata integrata nel Canone, ogni tradizione particolare riceve un nuovo contesto di enunciazione, che ne rinnova il senso.

Questa ”logica canonica” rende conto dei rapporti che esistono tra il Nuovo e l’Antico Testamento: le tradizioni neotestamentarie utilizzano il vocabolario della “necessità” e quello del “compimento” (o del “perfezionamento”), per esprimere il modo con cui la vita e l’opera del Cristo si riferiscono alle tradizioni dell’Antico Testamento (cf. Mt 26,54; Lc 22,37; 24,44). Il contenuto delle Scritture, per essere veritiero, deve necessariamente compiersi, e questo compimento si è pienamente realizzato nella vita, morte e risurrezione del Cristo (Gv 13,18; 19,24; At 1,16). La stessa persona del Cristo conferisce il loro senso ultimo a tradizioni molto diverse: lo vediamo, ad esempio, nel racconto del capitolo 24 del vangelo di Luca, in cui Gesù in persona mostra come la sua storia individuale illumini le tradizioni della Torah, dei profeti e dei Salmi. La persona di Cristo risponde così alle attese di Israele, e porta a compimento la rivelazione di Dio. Il Cristo “ricapitola” le principali figure della prima alleanza, e tesse un legame fra loro: Lui è il Servo, il Messia, il mediatore della nuova alleanza, il Salvatore.

D’altra parte, il Cristo esprime in maniera ultima e insuperabile la verità che è stata rivelata e si è dispiegata progressivamente in tradizioni scritte nel contesto della prima alleanza. La verità del Cristo è consegnata nelle tradizioni neotestamentarie, che collegano in maniera indissociabile la testimonianza oculare dei primi discepoli con la ricezione, nello Spirito, di questa testimonianza da parte delle prime comunità cristiane.

Questa verità su Dio e sulla salvezza del genere umano, che costituisce il centro della rivelazione divina e raggiunge la sua ultima e definitiva espressione in Gesù, in che cosa consiste? La risposta a questa domanda la troviamo nell’agire di Gesù. Egli rivela il Dio che è Padre, Figlio, Spirito Santo (Mt 28,19), il Dio che è e vive in se stesso comunione perfetta. Gesù chiama i suoi discepoli alla comunione di vita con sé nella sequela (Mt 4,18-22) e li incarica di fare suoi discepoli tutti gli uomini di tutti i popoli (Mt 28,19). Esprime, poi, il suo più alto desiderio, chiedendo al Padre: “Siano anch’essi con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria” (Gv 17,24). Questa è la verità rivelata da e in Gesù: Dio è comunione in sé, e Dio offre la comunione con sé per mezzo del suo Figlio (cf. Dei Verbum, n. 2). L’ispirazione, di cui abbiamo riconosciuto il carattere trinitario negli autori del Nuovo Testamento, appare come il cammino adeguato per la comunicazione di questa verità. C’è corrispondenza fra l’ispirazione e la verità della Bibbia.

Così, il Canone delle Scritture dà accesso allo stesso tempo alla dinamica con cui Dio si comunica personalmente agli uomini per mezzo di profeti, scrittori biblici, e ultimamente in Gesù di Nazaret, e anche al processo per cui le comunità accolgono, nello Spirito, questa rivelazione e ne consegnano il tenore per iscritto.

  

TERZA PARTE

L’INTERPRETAZIONE DELLA PAROLA DI DIO E LE SUE SFIDE

1. Introduzione

104. Introducendo la sezione precedente, che riguardava la testimonianza degli scritti biblici sulla verità, abbiamo spiegato come la Dei Verbum intenda la verità biblica, commentando in particolare la frase “la verità che Dio in vista della nostra salvezza volle fosse consegnata alle sacre Lettere” (n. 11). Abbiamo appreso che la verità che la Bibbia vuole comunicarci riguarda Dio stesso e il suo progetto di salvezza per gli esseri umani.

Ora ci occupiamo di nuovo della verità della Sacra Scrittura, ma da un altro punto di vista. Nella Bibbia incontriamo contraddizioni, inesattezze storiche, narrazioni inverosimili e, nell’Antico Testamento, precetti e comportamenti morali in conflitto con l’insegnamento di Gesù. Qual è la verità di questi passi biblici? Senza dubbio siamo di fronte a vere sfide per l’interpretazione della Parola di Dio.

Cenni di risposta a questa domanda ci vengono offerti dalla Dei Verbum stessa. Il testo conciliare afferma che la rivelazione di Dio nella storia della salvezza avviene per mezzo di eventi e parole che si completano a vicenda (n. 2), ma constata anche che nell’Antico Testamento si trovano “cose imperfette e provvisorie” (n. 15). Fa propria la dottrina della “condiscendenza dell’eterna Sapienza” che viene da Giovanni Crisostomo (n. 13), ma soprattutto si appella ai “generi letterari” in uso nell’antichità, richiamandosi (n. 12) all’Enciclica Divino afflante Spiritu di Pio XII (EB 557-562).

È quest’ultimo aspetto che dobbiamo approfondire. Anche oggi, la verità contenuta in un romanzo differisce da quella di un manuale di fisica; ci sono diverse modalità di scrivere la storia, che non è sempre una cronaca oggettiva; la poesia lirica non esprime ciò che si trova in un poema epico, e così via. Una tale constatazione vale anche per le letterature del Vicino Oriente Antico e del mondo ellenistico. Nella Bibbia troviamo diversi generi letterari in uso in quell’area culturale: poesia, profezia, narrazione, detti escatologici, parabole, inni, confessioni di fede, ecc., ciascuno dei quali contiene un suo modo proprio di presentare la verità.

Il racconto di Gen 1–11, le tradizioni sui patriarchi e sulla conquista della terra di Israele, le storie dei re fino alla rivolta dei Maccabei contengono certamente delle verità, ma non intendono proporre una cronaca storica del popolo di Israele. Il protagonista nella storia della salvezza non è né Israele, né altri uomini, ma è Dio. I racconti biblici sono narrazioni teologizzate. La loro verità – per alcuni testi illustrata nella sezione precedente – si ricava dai fatti raccontati, ma soprattutto dalla finalità didattica, parenetica e teologica perseguita dall’autore che ha raccolto queste antiche tradizioni o elaborato il materiale negli archivi degli scribi, così da trasmettere un’intuizione profetica o sapienziale e comunicare un messaggio decisivo alla sua generazione.

105. D’altra parte, una “ storia della salvezza” non esiste senza un nucleo storico, se è vero che Dio si rivela per mezzo di “eventi e parole tra loro intimamente connessi” (Dei Verbum, n. 2). Inoltre, se l’ispirazione comprende tutto l’Antico e Nuovo Testamento “con tutte le loro parti” (n. 11) non possiamo eliminare nessun passo dalla narrazione; l’esegeta deve sforzarsi di trovare il valore di ogni inciso nel contesto del racconto completo per mezzo dei diversi metodi elencati nel documento della Pontificia Commissione Biblica, L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, LEV, Città del Vaticano 1993 (cf. EB 1259 - 1560).

Sebbene uno studio diacronico dei testi sia indispensabile per cogliere le diverse reinterpretazioni di un oracolo o di un racconto originario, il senso vero di un passo è la sua forma ultima, accettata nel Canone della Chiesa. La reinterpretazione può anche prendere la forma della allegorizzazione di testi più antichi. Quindi, certe narrazioni o salmi che parlano di stermini e odio verso i nemici, lontani dallo spirito del Nuovo Testamento, pur prendendo in considerazione l’imperfezione della rivelazione nell’Antico Testamento, possono avere un valore parenetico per la generazione a cui sono indirizzati.

È ovvio che queste considerazioni non risolvono tutte le difficoltà, ma è innegabile che la Dei Verbum, con l’espressione “la verità … in vista della nostra salvezza” (n. 11) restringe la verità biblica alla rivelazione divina che riguarda Dio stesso e la salvezza del genere umano. Inoltre, la sottolineatura dei generi letterari ha dato un respiro più ampio al lavoro, già di per sé difficile, degli esegeti. Gli esempi che seguono illustreranno questo punto.

2. Prima sfida: Problemi storici

106. Ci occupiamo qui solo di alcuni testi problematici, prelevati alcuni dall’Antico, altri dal Nuovo Testamento. I brani sono di natura diversa, ma per tutti loro, sebbene in forme e per ragioni specifiche, si pone la domanda: che cosa, di quanto viene raccontato, è effettivamente avvenuto? In che misura i testi possono e vogliono attestare fatti realmente accaduti? Che cosa intendono affermare? La problematicità particolare di ogni brano sarà evidenziata nel paragrafo pertinente.

2.1. Il ciclo di Abramo (Genesi)

La maggior parte degli esegeti ammette che la redazione finale dei racconti patriarcali, di quelli dell’Esodo, della conquista e dei Giudici sia stata fatta dopo l’esilio babilonese, durante il periodo persiano. Riguardo al ciclo di Abramo, gli episodi che hanno collegato la storia di questo patriarca con le altre tradizioni patriarcali, in particolare per mezzo di racconti di promesse, sono più recenti e vanno al di là di un orizzonte originariamente limitato a storie di clan. Un episodio come quello di Gen 15 – essenziale per la tesi di Paolo sulla giustificazione per la sola fede, indipendentemente dalle opere della legge mosaica (cf. Rm 4) – non descrive gli eventi nel modo preciso in cui si svolsero, come mostra la storia della sua redazione. Ma se questa è la situazione, che cosa si può dire allora dell’atto di fede del patriarca e dell’argomentazione di Paolo, che sembra perdere l’appoggio scritturistico di cui aveva bisogno?

La prima cosa che si può dire a proposito dei racconti sui Patriarchi (sull’Esodo e sulla conquista) è che essi non vengono dal nulla. Ogni popolo, infatti, ha bisogno di conoscere e di esprimere, per sé e per gli altri, da dove viene, la sua provenienza geografica e temporale, in altre parole, la sua origine. Come i popoli circostanti, gli israeliti del V-IV secolo a.C. hanno cominciato a raccontare il loro passato. Si trattava di racconti che riprendevano tradizioni antiche, non soltanto per dire che essi avevano un passato più o meno ricco, come gli altri popoli, ma anche per interpretarlo e valutarlo con l’aiuto della loro fede.

107. Che cosa si sapeva allora di Abramo e degli antenati? Probabilmente che erano pastori provenienti dalla Mesopotamia, nomadi che passavano da un pascolo all’altro a seconda delle stagioni, delle piogge e dell’accoglienza dei paesi attraversati. Gli scrittori posteriori all’esilio, la cui riflessione si nutriva della memoria della deportazione e della sua importanza per la fede della loro comunità, capirono che la generazione dell’esilio aveva vissuto qualcosa di simile all’esperienza dei Patriarchi: essi infatti avevano perso la loro terra, le loro istituzioni politiche e religiose (il Tempio) ed erano dovuti andare in una terra straniera e dimorarvi come schiavi. Era una situazione drammatica, che li obbligava a vivere di fede e di speranza. Avendo perso ciò che costituisce l’identità di un popolo, cioè la terra e le istituzioni patrie, gli esiliati sarebbero dovuti scomparire, e invece sono sopravvissuti come popolo grazie alla loro fede. Questa esperienza radicale ha nutrito la loro preghiera e la loro rilettura del passato. Senza dubbio, quando il narratore o i narratori biblici descrivono le promesse divine e la risposta di fede del patriarca Abramo (Gen 15,1-6), non rinviano a fatti la cui trasmissione secolare sarebbe stata assolutamente sicura. È piuttosto la loro esperienza di fede che ha permesso loro di scrivere nel modo in cui hanno scritto, per esporre il significato globale di quegli eventi e invitare i loro connazionali a credere nella potenza e nella fedeltà di Dio, il quale concesse a loro stessi e ai loro antenati di attraversare periodi storici spesso drammatici. Più che i fatti concreti, conta la loro interpretazione, il senso che ne emerge nell’oggi della rilettura. Infatti, il significato di un periodo storico durato più secoli non può essere capito e trascritto sotto forma di racconto teologico o di poema innico se non con il tempo. Gli scrittori biblici hanno meditato, con la loro viva fede in Dio, sulla sopravvivenza del loro popolo lungo i secoli, nonostante i tanti pericoli morali e le tremende catastrofi che ha dovuto affrontare, e sul ruolo che Dio e la fede in Lui avevano avuto per tale sopravvivenza; da ciò essi hanno potuto dedurre che fu così anche agli inizi della loro storia. Quindi, non si deve leggere Gen 15 come se si trattasse di una cronaca, ma come comportamento normativo voluto da Dio, norma che gli scrittori biblici hanno vissuta radicalmente, e che così hanno potuto trasmettere alla loro generazione e a quelle future.

In breve, per valutare la verità dei racconti biblici antichi, occorre leggerli come furono scritti e furono letti da Paolo stesso: “Tutte queste cose accaddero a loro [agli Israeliti] come esempio, e sono state scritte per nostro ammonimento, di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi” (1 Cor 10,11).

2.2. Il passaggio del mare (Esodo 14)

108. Il racconto del passaggio degli Israeliti attraverso il mare costituisce una parte essenziale delle letture prescritte per la celebrazione cristiana della notte di Pasqua. Questo racconto è basato su una tradizione antichissima, che fa memoria della liberazione del popolo ridotto in schiavitù. Tale tradizione orale, messa per iscritto, è stata oggetto di molteplici ”riletture“; e alla fine è stata inserita nella narrazione dell’Esodo e nella Torah. In questa cornice, la liberazione di Israele è presentata come una nuova creazione. Come Dio ha creato il mondo separando il mare dalla terra asciutta, allo stesso modo Egli ha “creato” il popolo di Israele tracciando per lui un passaggio sulla terra asciutta attraverso il mare. Il racconto collega dunque strettamente un’antica tradizione narrativa a un’interpretazione teologica basata sulla teologia della creazione.

La verità del racconto non risiede allora solamente nella tradizione di cui fa memoria – un racconto di liberazione che conserva tutta la sua attualità nel momento dell’esilio a Babilonia, quando l’Israele asservito aspira alla libertà –, ma altresì nell’interpretazione teologica che lo accompagna. Il testo biblico unisce dunque, in maniera indissolubile, un racconto antico, trasmesso di generazione in generazione, e l’attualizzazione che successivamente ne è stata proposta. Questa attualizzazione riecheggia la situazione degli autori di Es 14, nel momento in cui il testo è stato composto. Infatti, accanto alla teologia della creazione, il racconto sviluppa una teologia della salvezza, presentando il Dio di Israele come il salvatore che libera il popolo dall’oppressione, e Mosè come un personaggio profetico che invita il popolo ad avere fiducia nel potere salvifico del suo Dio: ”Non abbiate paura! Siate forti e vedrete la salvezza del Signore” (Es 14,13). Come nei tempi antichi il Signore ha saputo proteggere il suo popolo, allo stesso modo, in ogni situazione, Egli è capace di custodirlo e di procurargli la salvezza. Il racconto dell’Esodo non ha l’intento primario di trasmettere il resoconto degli antichi avvenimenti secondo la modalità di un documento di archivio, ma ben più di fare memoria di una tradizione che attesta che oggi, come ieri, Dio è presente a fianco del suo popolo per salvarlo.

Questa esperienza e questa speranza di salvezza, espresse dal racconto di Es 14, hanno pure una tradizione liturgica nel racconto della Pasqua (Es 12,1-13,16) che lo precede. La liturgia cristiana della veglia pasquale mostra come il racconto di Es 14 trova il suo ”compimento”: in Gesù Cristo, nella cui risurrezione il Dio Creatore e Salvatore si è manifestato al suo popolo in maniera definitiva e insuperabile.

2.3. I libri di Tobia e di Giona

109. Il libro di Tobia non appartiene alla Bibbia ebraica, ma a quella greca; il decreto sul Canone del Concilio di Trento lo include fra i libri storici dell’Antico Testamento (D-S 1502). Il libro di Giona si trova invece fra i Dodici Profeti (detti anche “Profeti minori”) della Bibbia ebraica. Entrambi i libri raccontano una serie di eventi, di cui ci si può chiedere se siano realmente accaduti.

2.3.1. Il libro di Tobia

La morte di sette mariti di una stessa donna prima di consumare il matrimonio (3,8-17) è un fatto talmente inverosimile che, già da solo, ci avverte che la narrazione è una finzione letteraria. E ciò spiega i numerosi anacronismi: il protagonista infatti si presenta come uno degli Israeliti deportati a Ninive e, nello stesso tempo, come osservante della legge deuteronomistica (1,1-22); Tobi “profetizza” anche la distruzione di Ninive, la desolazione della Giudea e di Samaria, l’incendio del tempio e la sua ricostruzione (14,4-5).

Ci troviamo quindi davanti a una fiaba religiosa popolare dall’obiettivo didattico ed edificante, che, per ciò stesso, si colloca nell’ambito della tradizione sapienziale. È una composizione letteraria con il noto schema – raddoppiato dal parallelismo tra Tobi e Sara – del comportamento del giusto, che, afflitto dalla tribolazione, prega il Signore, il quale invia la salvezza.

L’intervento del demonio Asmoneo deriva dalla tradizione biblica che vede Satana e i suoi angeli agire nel nostro mondo e causare disastri. Questo ci permette di catalogare l’opera nel genere letterario dei racconti che hanno, tra i loro personaggi, protagonisti umani e sovrumani. A differenza di molte altre narrazioni di questo stesso genere, nel libro di Tobia l’intervento del demonio è riferito con grande sobrietà. Il demonio Asmoneo è un personaggio fittizio, ma non lo è la capacità diabolica di danneggiare gli esseri umani, specialmente se si adoperano per vivere fedeli a Dio. Di conseguenza, anche l’angelo Raffaele è un personaggio di finzione letteraria, ma, in conformità con ripetute e insistenti tradizioni bibliche e con la sua accoglienza da parte della Chiesa, non lo è la capacità di esseri come lui di intervenire in aiuto di coloro che invocano il nome del Signore.

Il libro di Tobia è un manifesto che intende lodare le pratiche di pietà tradizionali del giudaismo: la preghiera, il digiuno e l’elemosina (12,8-9); così come l’esercizio delle opere di misericordia, in particolare il seppellire i morti (12,13) e la preghiera di benedizione e di ringraziamento che proclama le opere gloriose di Dio (12,6.22; 13,1-18). Un aspetto particolare del libro è l’insistenza sulla preghiera santificatrice della vita coniugale e di sostegno nei pericoli (8,4-9).

2.3.2. Il libro di Giona

110. Il fatto che il libro di Giona sia stato trasmesso fra gli scritti dei Dodici Profeti è un indizio che il protagonista di questo libro fu ritenuto molto presto un autentico profeta (cf. 2 Re 14,25), da collocarsi storicamente nel contesto del dominio assiro che il racconto suppone, prima che i Babilonesi e i Medi intraprendessero la distruzione di Ninive nel 612 a.C. Un tale apprezzamento sembra avvalorato dal fatto che Gesù stesso rimanda all’episodio più vistoso del racconto riguardante il profeta, i tre giorni e le tre notti nel ventre del cetaceo, come a un segno ”storico” che prefigura l’evento della sua stessa risurrezione (Mt 12,39-41; Lc 11,29-30; Mt 16,4).

Tuttavia nel racconto ci sono non soltanto dettagli, ma anche elementi strutturali che non possiamo ritenere come avvenimenti storici e che ci inducono a interpretare il testo come una composizione immaginaria, con profondi contenuti teologici.

Alcuni dettagli improbabili – come, ad esempio, che Ninive fosse una città grandissima, larga tre giornate di cammino (Gn 3,3) – possono essere considerati delle iperboli; tra gli elementi strutturali invece, sono inverosimili il pesce che inghiotte Giona e lo mantiene vivo nel suo ventre tre giorni e tre notti prima di vomitarlo (2,1.11), e la pretesa conversione unanime di Ninive (3,5-10), di cui non c’è traccia, tra l’altro, nei documenti assiri.

Tra i temi teologici presenti nel racconto, ne sottolineiamo due: 1) il contenuto di un messaggio profetico non è un decreto irrevocabile (3,4), ma è piuttosto un pronunciamento che si modifica in funzione della risposta di coloro ai quali è indirizzato (4,2.11). 2) Il giudaismo posteriore all’esilio era caratterizzato da una tensione tra tendenze più conciliatrici e universali e tendenze più chiuse ed esclusiviste. Ciò appare, in modo chiaro, nel contrasto tra i libri di Rut, Giona, Tobia da una parte, e i libri di Aggeo, Zaccaria, Esdra, Neemia e le Cronache dall’altra. Esdra e Neemia avevano reso possibile il mantenimento dell’identità giudaica, opponendosi a qualsiasi mescolanza con il paganesimo, specialmente quella rappresentata dai matrimoni misti (Esd 9–10; Ne 10,29-31). Non si smarrì però del tutto uno spirito più aperto e universalista, che poteva nutrirsi anche di antiche tradizioni patriarcali e profetiche. Il libro di Rut reagisce contro la proibizione dei matrimoni misti, presentando una straniera, la moabita Rut (Rt 1,4-19), come antenata di David (Rt 4,17). Giona va più lontano nel suo universalismo, facendo dei malvagi e odiati Assiri – che distrussero il regno di Israele, deportandone gli abitanti, e si inorgoglivano dei loro feroci costumi guerreschi – i destinatari di un messaggio profetico che li rese capaci di conversione.

2.4. I vangeli dell’infanzia

111. Soltanto Matteo (1–2) e Luca (1,5–2,52) hanno anteposto alla loro opera un cosiddetto “vangelo dell’infanzia”, in cui si espongono l’origine e gli inizi della vita di Gesù. Possiamo qui notare grandi differenze fra i due racconti e anche la presenza di eventi straordinari che destano meraviglia, come la concezione verginale di Gesù; ne scaturisce la domanda sulla storicità di tali narrazioni. Esponiamo le differenze e le convergenze che si trovano nei due racconti e cerchiamo di determinare il messaggio dei due testi.

a. Le differenze

Matteo pone all’inizio una genealogia (1,1-17), notevolmente diversa da quella riportata in Lc 3,23-38 dopo il battesimo di Gesù. L’annuncio del concepimento di Gesù dallo Spirito Santo viene fatto a Giuseppe (1,18-25). Gesù – nato a Betlemme di Giudea (2,1), la patria di Giuseppe e Maria – viene visitato e adorato dai magi, guidati da una stella, inconsapevoli della minaccia mortale da parte del re Erode (2,1-11). Avvertiti in sogno, essi tornano a casa per un’altra strada (2,12). Avvisato da un angelo del Signore in sogno, Giuseppe fugge in Egitto con il bambino e sua madre (2,13-15) prima della strage dei bambini di Betlemme (2,16-18). Dopo la morte di Erode, Giuseppe, Maria e il bambino tornano in patria e vanno ad abitare a Nazaret, dove Gesù cresce (2,19-23).

Un elemento diverso nel racconto di Lc 1,5–2,52 è costituito dalla presenza di Giovanni Battista e dalle narrazioni parallele su Giovanni e Gesù; esse concernono l’annuncio della loro nascita (1,5-25.26-38), il parto e la circoncisione del bambino con il conferimento del nome (1,57-79; 2,1-21). Maria e Giuseppe abitano a Nazaret (1,26) e a causa del censimento di Quirino si recano a Betlemme (2,1-5), dove Gesù nasce (2,6-7), ed è visitato da pastori, ai quali un angelo del Signore ha annunciato la sua nascita (2,8-20). Secondo le prescrizioni della legge, il bambino viene presentato al Signore nel Tempio di Gerusalemme, ed è accolto da Simeone e Anna (2,22-40). Gesù dodicenne poi si recherà di nuovo nel Tempio (2,41-52).

Nessun racconto che si trova in Matteo è presente in Luca, e viceversa. Ci sono anche delle differenze notevoli tra i due racconti. Secondo Matteo, Maria e Giuseppe, prima della nascita di Gesù, abitano a Betlemme, e solo dopo la fuga in Egitto e in seguito a uno speciale avvertimento vanno a Nazaret. Secondo Luca, Maria e Giuseppe abitano a Nazaret, il censimento li conduce a Betlemme e, senza fuga in Egitto, tornano a Nazaret. È difficile trovare una soluzione per tali differenze. D’altra parte, esse rivelano una reciproca indipendenza dei due evangelisti. E questo rende più significative le convergenze.

b. Le convergenze

112. Matteo e Luca riferiscono entrambi i dati seguenti. Maria, la madre di Gesù, è promessa sposa di Giuseppe (Mt 1,18; Lc 1,27), che è dalla casa di Davide (Mt 1,20; Lc 1,27). I due non vivono insieme prima del concepimento di Gesù che viene causato dallo Spirito Santo (Mt 1,18.20; Lc 1,35); Giuseppe non è il padre naturale di Gesù (Mt 1,16.18.25; Lc 1,34). Il nome di Gesù viene comunicato da un angelo (Mt 1,21; Lc 1,31), assieme al suo significato salvifico (Mt 1,21; Lc 2,11). Gesù viene dato alla luce a Betlemme al tempo del re Erode (Mt 2,1; Lc 2,4-7; 1,5) e cresce a Nazaret (Mt 2,22-23; Lc 2,39.51). I dati fondamentali che riguardano le persone, i luoghi e il tempo sono comuni ai due evangelisti. Particolarmente importante è la loro convergenza riguardo alla concezione verginale di Gesù dallo Spirito Santo, che esclude che Giuseppe sia il padre naturale di Gesù.

c. Il messaggio

113. I vangeli dell’infanzia di Matteo e di Luca introducono al resto della loro opera e mostrano come ciò che si manifesta nella vita e nell’attività di Gesù è fondato nelle sue origini. Mediante i diversi racconti e titoli conferiti a Gesù, questi vangeli esplicitano il rapporto di Gesù con Dio, il suo compito di salvatore, il suo ruolo universale, il suo destino doloroso, il suo radicamento nella storia di Dio con il popolo d’Israele.

Matteo presenta Gesù come Figlio di Dio (2,15), nel quale Dio è presente e al quale spetta il nome “Emmanuele”, “Dio con noi” (1,23). Dio decide il nome “Gesù”, in cui si esprime il programma del suo compito salvifico: “salverà il suo popolo dai suoi peccati” (1,21). Gesù è il Cristo della casa di Davide (1,1.16.17.18; 2,4), “che sarà il pastore del mio popolo, Israele” (2,6; cf. Mi 5,1), l’ultimo e definitivo re che Dio dona al suo popolo. La venuta dei magi mostra che la missione di Gesù va oltre Israele e riguarda tutti i popoli (2,1-12). La minaccia mortale, che proviene dal re dell’epoca (2,1-18) e continua con il suo successore (2,22), fa presagire la passione e morte di Gesù. Il radicamento di Gesù nel popolo d’Israele è presente in tutto il racconto e si concentra nella genealogia (1,1-17) e nelle quattro citazioni di compimento (1,22-23; 2,15.17-18.23; cf. 2,6).

In Luca troviamo indicazioni simili, sebbene le espressioni e gli accenti siano diversi. Gesù viene chiamato “Figlio di Dio” (1,35; cf. 1,32) e, nel Tempio, la sua prima parola, l’unica ricordata nel racconto evangelico dell’infanzia, è: “Devo occuparmi delle cose del Padre mio” (2,49). Annunciando ai pastori la sua nascita, l’angelo proclama: “È nato per voi un Salvatore che è Cristo Signore” (2,11). Nel “Cristo del Signore” (2,26) è giunta “la salvezza” (2,30), “la redenzione di Gerusalemme” (2,38). Viene sottolineato il legame di Gesù con Davide (1,26.69; 2,4.11), che culmina nell’annuncio dell’angelo: “Il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine” (1,32-33). Il significato universale della venuta di Gesù è espresso da Simeone: la salvezza che viene in Gesù è “davanti a tutti i popoli” (2,31), e Gesù è “luce per rivelarti alle genti” (2,32). Simeone accenna anche alle difficoltà della missione di Gesù, parlando del “segno di contraddizione” (2,34). Quanto viene raccontato è ambientato nella vita religiosa del popolo d’Israele: si comincia con un sacrificio nel Tempio (1,5-22) e si finisce con un pellegrinaggio al Tempio (2,41-50), in osservanza fedele alla Legge del Signore (2,21-28).

114. Entrambi gli evangelisti riferiscono il concepimento verginale di Gesù dallo Spirito santo e attribuiscono l’inizio della vita di Gesù esclusivamente all’agire di Dio, senza intervento di un padre umano. In Mt 1,20-23 la comunicazione della nascita di Gesù è collegata con il suo compito salvifico: colui che salverà il suo popolo dai suoi peccati e lo riconcilierà con Dio, colui che è il “Dio con noi”, ha origine divina. Il Salvatore e la salvezza provengono unicamente da Dio, sono dono della sua grazia. In Lc 1,35 si indica la conseguenza del concepimento verginale di Gesù: “Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio”. Nel concepimento verginale di Gesù si manifesta il suo rapporto con Dio. In quanto “santo”, egli appartiene totalmente a Dio, e anche secondo la sua esistenza umana solo Dio è suo padre. Il concepimento verginale di Gesù ha un profondo significato sia per il suo rapporto con Dio, sia per il suo compito salvifico a favore degli esseri umani.

Considerando le differenze e le convergenze che troviamo nei racconti dell’infanzia dei due evangelisti, si deve dire che la rivelazione salvifica consiste in tutto ciò che viene detto sulla persona di Gesù e sul suo rapporto con la storia di Israele e del mondo, come introduzione e illustrazione della sua opera salvifica raccontata nel seguito del vangelo. Le differenze, che in parte possono essere armonizzate, riguardano aspetti secondari rispetto alla figura centrale di Gesù, Figlio di Dio e salvatore degli uomini, che è comune ai due evangelisti.

2.5. I racconti di miracoli

115. Nell’Antico e nel Nuovo Testamento vengono raccontati eventi straordinari che non corrispondono a ciò che accade normalmente, vanno al di là delle capacità umane e sono attribuiti a un intervento speciale di Dio. Da tempo, a motivo di uno scontato approccio scientifico e di certe concezioni filosofiche, si sono manifestate delle perplessità riguardo alla storicità di tali narrazioni. Secondo la scienza moderna, tutto ciò che capita in questo mondo, avviene in base a regole invariabili, le cosiddette “leggi naturali”. Tutto è determinato da queste leggi, e non c’è spazio per eventi straordinari. È diffusa anche la concezione filosofica secondo la quale Dio, pur avendo creato il mondo, non interviene nel suo funzionamento, che avviene dunque secondo regole immutabili. In altre parole, si afferma che non ci possono essere eventi straordinari causati da Dio; pertanto, i racconti che riferiscono tali eventi non possono avere una verità storica.

Consideriamo allora i racconti di miracoli presenti nell’Antico e nel Nuovo Testamento, cercando il loro significato nei loro contesti letterari. I racconti del Nuovo Testamento sono in continuità con le tradizioni del popolo d’Israele e manifestano che la potenza creatrice e salvifica di Dio raggiunge la sua pienezza in Gesù Cristo.

a. Racconti nell’Antico Testamento

116. I libri dell’Antico Testamento sono pervasi dalla fede che Dio ha creato tutto, opera continuamente nel mondo, e mantiene ogni cosa nell’esistenza e nella vita. Con la sua fede, il popolo d’Israele vede il creato, con tutte le sue meraviglie, come effetto dell’azione puntuale di Dio, sia per quanto riguarda le realtà ordinarie, sia per quanto riguarda le realtà straordinarie: tutto è un continuo, grande miracolo. Tutto è un messaggio di fede, che viene riassunto bene con queste parole del Salmo: “Lui solo ha compiuto grandi meraviglie, perché il suo amore è per sempre” (Sal 136,4).

Questa fede si esprime, in forma di inno, caratterizzato da gratitudine, gioia e lode, in testi come il Sal 104 e Sir 43 (cf. Gen 1). Il Sal 104, dedicato a Dio Creatore, è seguito dal Sal 105, in cui si celebra la potenza e la fedeltà di Dio nella storia del suo popolo Israele. Dio, che ha creato tutto e opera nella creazione, opera anche nella storia (cf. Sal 106.135.136). Il suo agire si rivela particolarmente prodigioso e straordinario nel liberare Israele dalla schiavitù dell’Egitto e nel condurlo alla terra promessa. Mosè, incaricato e abilitato da Dio, compie gli atti miracolosi, di cui parlano il libro dell’Esodo e molti altri testi (fra cui anche il Sal 105,26-45). Si può notare il grande influsso che il processo di liberazione di Israele ha avuto sulle tradizioni fino alla sua rilettura in Sap 15,14–19,17. Ma non sembra possibile individuare con certezza gli eventi realmente accaduti. In queste tradizioni si ricorda, si esprime e si riconosce che Dio agisce nella storia, e che con potenza e fedeltà ha guidato e salvato il suo popolo.

b. I miracoli di Gesù

117. Tutti e quattro i vangeli riferiscono una serie di azioni straordinarie operate da Gesù. Le più frequenti sono le guarigioni di malati e gli esorcismi. Si raccontano anche tre risurrezioni (Mt 9,18-26; Lc 7,11-17; Gv 11,1-44) e alcuni “miracoli della natura”: la tempesta sedata (Mt 8,23-27), Gesù che cammina sulle acque (Mt 14,22-33), la moltiplicazione dei pani e dei pesci (Mt 14,13-21), e la trasformazione dell’acqua in vino (Gv 2,1-11). Come l’insegnamento in parabole, anche il compiere azioni straordinarie da parte di Gesù appartiene al suo ministero, e viene attestato in molti modi. Questi racconti non costituiscono un’aggiunta posteriore alla tradizione originale sul ministero di Gesù.

I termini con i quali i vangeli designano tali azioni sono significativi. Sebbene parlino dello stupore delle folle dinanzi all’operare di Gesù (cf. Mt 9,33; Lc 9,43; 19,17; Gv 7,21), i vangeli non usano un termine che corrisponde al nostro ”miracolo” (che significa ”opera che provoca stupore”). I vangeli sinottici parlano di “opere di potenza” (dynameis), mentre il vangelo di Giovanni usa il termine “segni” (semeia). Questa differenza terminologica è molto significativa. In tutte le azioni straordinarie compiute da Gesù si verifica immediatamente il superamento di una situazione di necessità (malattia, pericolo, ecc.). Gesù poi con il suo agire manifesta che questo intervento straordinario non è tutto. Mt 11,20  riferisce: “Allora si mise a rimproverare le città nelle quali era avvenuta la maggior parte delle sue opere in potenza, perché non si erano convertite” (cf. Lc 10,13). Non basta ammirare e ringraziare il taumaturgo: occorre convertirsi al suo messaggio.

Nei vangeli sinottici, il Regno di Dio è al centro dell’annuncio di Gesù (cf. Mt 4,17; Mc 1,15; Lc 4,43). Le opere di potenza devono confermare e rendere evidente che la realtà salvifica di questo Regno si è avvicinata e si è resa presente. Gesù dice, riguardo al suo operare: “Se io scaccio i demoni per mezzo dello Spirito di Dio, allora è giunto a voi il regno di Dio” (Mt 12,28; cf. Lc 11,20). Queste opere nella loro diversità non soltanto manifestano i diversi aspetti della potenza salvifica del Regno di Dio, ma hanno anche una funzione rivelatrice riguardo all’identità di Gesù. Dopo che egli ha placato il mare in tempesta, i discepoli si chiedono: “Chi è mai costui, che perfino i venti e il mare gli obbediscono?” (Mt 8,27). La domanda di Giovanni Battista: “Sei tu colui che deve venire?”, è provocata “dalle opere del Cristo” (Mt 11,2-3). Gesù risponde alla domanda elencando le sue opere di potenza (11,4-5).

Nel vangelo di Giovanni, le azioni straordinarie di Gesù sono chiamate “segni”: esse devono dunque condurre a un’altra realtà. Riguardo alla prima azione straordinaria, la trasformazione dell’acqua in vino a Cana, l’evangelista dice: “Fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui” (Gv 2,11). Rivelare la gloria di Gesù, che consiste nel suo rapporto con Dio ed è “la gloria del Figlio unigenito che viene dal Padre” (Gv 1,14) e condurre alla fede in Gesù è il senso e lo scopo dei segni. Spesso ai segni è legata un’istruzione di Gesù, che indica un aspetto specifico del suo significato salvifico. Nella moltiplicazione dei pani (6,1-58) Gesù si rivela come “il pane della vita” (6,35.48.51); nella guarigione del cieco (9,1-41) come “la luce del mondo” (9,5; cf. 8,12; 12,46); nella risurrezione di Lazzaro (11,1-44) come “la risurrezione e la vita” (11,25). Nella prima conclusione del suo vangelo Giovanni mette in risalto i segni di Gesù, e si rivolge direttamente ai lettori: “Questi (segni) sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la fede nel suo nome” (20,31). I discepoli (20,30) sono i testimoni oculari, e tutti gli altri dipendono dalla loro testimonianza. I segni attestati e scritti hanno lo scopo di condurre alla fede in Gesù, non vaga, ma chiaramente determinata, e quindi alla vita che proviene da lui.

Giovanni usa spesso anche il termine ”opere” (erga) per definire le azioni straordinarie di Gesù. Dopo la guarigione di un malato nel giorno di sabato (5,1-18), Gesù spiega (5,19-47) come il suo operare dipenda da quello di Dio Padre: “Le opere che il Padre mi ha dato da compiere, quelle stesse opere che io sto facendo, testimoniano di me che il Padre mi ha mandato” (5,36; cf. 10,25.37-38; 12,37-43). Il termine “opere” sottolinea un’altra caratteristica delle azioni di Gesù. Esse sono ”segni” per gli uomini, e sono ”opere” che corrispondono all’operare di Dio Padre; perciò sono una testimonianza del fatto che Gesù è stato inviato da Dio Padre.

118. Infine va menzionata quella che è la meta e il culmine di tutti i segni e tutte le opere di Gesù: la sua risurrezione. Essa non è più un segno visibile, ed è l’opera di Dio Padre, perché “Dio lo ha risuscitato dai morti” (Rm 10,9; cf. Gal 1,1; ecc.). La risurrezione di Gesù non viene vista da nessuno, ma viene resa nota ai discepoli, che ne sono i testimoni (cf. At 10,41), attraverso le apparizioni del Cristo risorto. Lo scopo dei segni e delle opere compiute da Gesù era di rivelare il suo rapporto con Dio e di mostrare il suo compito salvifico, compito che si esprime come soccorso delle miserie umane e comunicazione di vita. Tutto questo viene ora portato a compimento dalla sua risurrezione. Questa rivela e conferma la strettissima  unione di Dio con Gesù, significa il superamento della morte e di tutte le infermità, realizza il passaggio alla vita perfetta nella comunione eterna con Dio. Paolo annuncia la risurrezione di Gesù nella convinzione “che colui che ha risuscitato il Signore Gesù, risusciterà anche noi con Gesù e ci porrà accanto a lui insieme con voi” (2 Cor 4,14).

2.6. I racconti pasquali

119. Una difficoltà specifica riguardo alla verità storica dei racconti pasquali proviene dal fatto che in essi incontriamo molte divergenze, che non è facile armonizzare, stando al livello della pura dimensione fattuale.

L’evento stesso della risurrezione di Gesù non viene descritto in nessun testo del Nuovo Testamento: è infatti sottratto agli occhi umani e appartiene esclusivamente al mistero di Dio. Abbiamo invece due tipi di racconti pasquali, che narrano ciò che avvenne dopo la risurrezione: la visita di alcune donne alla tomba di Gesù, e le diverse apparizioni del Signore risorto (cf. anche 1 Cor 15,3-8), che si manifestò vivo ai testimoni scelti da lui. La visita alla tomba è l’unico evento pasquale per il quale troviamo una narrazione simile in tutti e quattro i vangeli, anche se con numerose varianti di dettaglio.

Vogliamo considerare in particolare tre differenze, che, tra le altre, si notano nei quattro racconti: a. Soltanto Mt 28,2 menziona un terremoto prima di parlare dell’arrivo delle donne alla tomba di Gesù. b. Solo Mc 16,8 parla della fuga delle donne, del loro tremore e silenzio dopo l’incontro con il messaggero celeste. c. Secondo i sinottici (Mt 28,5-7; Mc 16,6-7; Lc 24,5-7) il messaggio sulla risurrezione di Gesù viene comunicato alle donne da uno o più messaggeri di Dio; secondo Gv 20,14-17 invece, Maria di Magdala, pur vedendo nella tomba due angeli (Gv 20,12-13), riceve direttamente da Gesù l’annuncio della sua risurrezione.

a. Il terremoto

120. Il fatto che soltanto Mt 28,2 riferisca di un terremoto non significa che gli altri Vangeli, non menzionandolo, lo neghino. Una tale deduzione non sarebbe sicura, basandosi esclusivamente su un argomento e silentio. D’altra parte, il “terremoto” sembra far parte dello stile teologico di Matteo. Solo questo evangelista infatti menziona un terremoto – congiunto con altri fenomeni straordinari – dopo la morte di Gesù (27,51-53), e lo presenta come il motivo per cui il centurione e i suoi soldati vengono riempiti di paura e confessano la figliolanza divina di Gesù crocifisso (27,54). A questo proposito si deve considerare che, nelle descrizioni di teofanie che si trovano nell’Antico Testamento, il terremoto è uno dei fenomeni in cui si manifestano la presenza e l’agire di Dio (cf. Es 19,18; Gdc 5,4-5; 1 Re 19,11; Sal 18,8; 68,8-9; 97,4; Is 63,19). Nell’Apocalisse il terremoto indica simbolicamente una scossa che tende a far crollare il “sistema terrestre”, costituito da un mondo che, costruito al di fuori di Dio e in opposizione a Lui, a un certo punto crolla (cf. Ap 6,12; 11,13; 16,18).

È probabile quindi che Matteo utilizzi questo “motivo letterario”. Menzionando il terremoto, egli vuole sottolineare che la morte e la risurrezione di Gesù non sono eventi ordinari, ma eventi “sconvolgenti” nei quali Dio agisce e realizza la salvezza del genere umano. Il significato specifico dell’azione divina deve essere desunto dal contesto del vangelo: la morte di Gesù porta a compimento il perdono dei peccati e la riconciliazione con Dio (cf. Mt 20,28; 26,28), e nella sua risurrezione Gesù vince la morte, entra nella vita di Dio Padre e ottiene il potere su tutto (cf. 28,18-20). L’evangelista non parla dunque di un terremoto la cui forza potrebbe essere misurata secondo i gradi di una determinata scala, ma vuole risvegliare e dirigere l’attenzione dei suoi lettori su Dio, mettendo in rilievo il dato più importante della morte e della risurrezione di Gesù: il loro rapporto con la potenza salvifica di Dio.

b. Il comportamento delle donne

121. Simile è il caso di Mc 16,8, in cui si riferisce la reazione delle donne al messaggio pasquale, una reazione di paura e di sgomento: “Esse uscirono e fuggirono via dal sepolcro, perché erano piene di spavento e di stupore. E non dissero niente a nessuno, perché erano impaurite.” Gli altri evangelisti non raccontano un tale comportamento. Come il terremoto è uno dei fenomeni che accompagnano la manifestazione della potenza di Dio, così la paura rappresenta la reazione umana abituale a una tale manifestazione. Una caratteristica del vangelo di Marco è di esprimere mediante la reazione dei presenti la natura e la qualità degli avvenimenti ai quali essi hanno assistito (cf. 1,22.27; 4,41; 5,42; ecc.). La reazione più forte e marcata raccontata nel suo vangelo è quella delle donne dopo aver ascoltato il messaggio pasquale del messaggero di Dio. Mediante la loro reazione l’evangelista sottolinea che la risurrezione di Gesù crocifisso è la più grande manifestazione della potenza salvifica di Dio. L’evangelista comunica non soltanto l’avvenimento in quanto tale, ma ne mostra anche il significato determinante per le persone umane e l’effetto prodotto su di loro.

c. La fonte del messaggio pasquale

122. La fonte del messaggio pasquale viene presentata in modi diversi dai vangeli. Secondo i sinottici (Mt 28,5-7; Mc 16,6-7; Lc 24,5-7) le donne che vanno alla tomba di Gesù e la trovano vuota, ricevono da uno o due inviati celesti il messaggio sulla risurrezione di Gesù. Secondo Gv 20,1-2 invece Maria di Magdala, dopo aver trovato la tomba vuota, va dai discepoli e dice loro: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto”. Essa ripete ancora due volte (20,13.15) questa sua spiegazione della tomba vuota, e solo dopo l’apparizione del Signore stesso risorto (20,14-17) porta ai discepoli il messaggio della sua risurrezione (20,18). Ci si può domandare se Matteo, Marco e Luca, in riferimento alla scoperta della tomba vuota, anticipino la vera interpretazione di questo fatto, contrastando  quella già menzionata, data da Maria di Magdala in Gv 20,2.13.15 (cf. anche Mt 28,13). Mettendo questa spiegazione in bocca a un messaggero celeste, i tre evangelisti la caratterizzano come una conoscenza sovrumana, che può venire solo da Dio. Ma la fonte effettiva di tale interpretazione è lo stesso Signore risorto che appare ai testimoni scelti. Non c’è dubbio che il fondamento più solido della fede nella risurrezione di Gesù sono le sue apparizioni (cf. anche 1 Cor 15,3-8).

I quattro racconti della visita alla tomba, con le loro differenze, rendono ardua una loro armonizzazione storica, ma proprio queste divergenze costituiscono per noi un vero stimolo per comprenderli in modo più adeguato. Lo studio delle loro tre principali differenze – terremoto, fuga delle donne, messaggio celeste – ne ha mostrato un significato comune, cioè che essi testimoniano di Dio e del decisivo intervento della sua potenza salvifica nella risurrezione di Gesù. Questo risultato, se da una parte libera dalla costrizione di dover vedere in ogni dettaglio della narrazione – non soltanto dei racconti pasquali, ma degli interi vangeli – un preciso dato di cronaca, dall’altra spinge a essere aperti e attenti al significato teologico presente non soltanto nelle differenze, ma in tutti i dettagli del racconto.

d. Il ‘valore teologico dei Vangeli’

123. Ancora diffusa è l’opinione che i vangeli siano essenzialmente una cronaca di fatti, di cui i testimoni forniscono un puntuale resoconto. Tale idea si basa sulla giusta convinzione che la fede cristiana non è una speculazione astorica, ma è fondata su fatti realmente accaduti. Dio agisce nella storia e si fa presente in modo eminente in quella del suo Figlio incarnato. Ma una concezione che vede nei vangeli solamente un tipo di cronaca può perdere di vista il loro significato teologico, e trascurare perciò tutta la loro ricchezza, proprio in quanto parola che parla di Dio. La Pontificia Commissione Biblica, già nella sua Istruzione sulla verità storica dei vangeli Sancta Mater Ecclesia del 1964, affermava: “Dai nuovi studi risulta che la vita e l’insegnamento di Gesù non furono semplicemente riferiti col solo fine di conservare il ricordo, ma «predicati» in modo da offrire alla Chiesa la base della fede e dei costumi; perciò l’esegeta, scrutando diligentemente le testimonianze degli evangelisti, sarà in grado di illustrare con maggior penetrazione il perenne valore teologico dei Vangeli, e di porre in piena luce di quale necessità e di quale importanza sia l’interpretazione della Chiesa” (EB 652).

Dobbiamo dunque tener conto del fatto che i Vangeli non sono soltanto cronache degli avvenimenti della vita di Gesù, poiché gli evangelisti intendono altresì esprimere, secondo il modulo narrativo, il valore teologico di tali avvenimenti. Ciò significa che essi, in tutto ciò che raccontano, non intendono riferire soltanto dati di cronaca, ma vogliono fare anche un ‘commento teologico’ ai fatti che stanno raccontando ed esprimerne il valore teologico, metterne cioè in rilievo il rapporto con Dio.  

Detto in altri termini, l’intento di annunciare Gesù, Figlio di Dio e Salvatore degli uomini – un intento che si può chiamare “teologico” – è prevalente e fondamentale nei Vangeli. Il riferimento ai fatti concreti che incontriamo nei Vangeli rientra nel quadro di questo annuncio teologico. Ciò comporta che, mentre le affermazioni teologiche su Gesù hanno un valore diretto e normativo, gli elementi puramente storici hanno una funzione subordinata.

3. Seconda sfida: Problemi etici e sociali

124. Altri testi biblici, di diversa natura, costituiscono una sfida per l’interpretazione. Sono quelli che raccontano comportamenti decisamente immorali, che esprimono sentimenti di odio e di violenza, o sembrano promuovere condizioni sociali considerate oggi ingiuste. Questi testi possono scandalizzare e disorientare i cristiani, i quali talvolta si sentono accusati da non-cristiani di avere nel loro libro sacro i tratti di una religione che insegna immoralità e violenza. Per questa difficile problematica abbiamo scelto di affrontare, per l’Antico Testamento, la questione della violenza, espressa in particolare nella legge dello sterminio e nei salmi che chiedono vendetta; per il Nuovo Testamento ci occuperemo dello statuto sociale delle donne secondo l’epistolario di Paolo.

3.1. La violenza nella Bibbia

125. Uno degli ostacoli maggiori all’accoglienza della Bibbia come Parola ispirata è costituito dalla presenza, specialmente nell’Antico Testamento, di ripetute manifestazioni di violenza e crudeltà, in molti casi comandate da Dio, in molti altri oggetto di preghiere rivolte al Signore, in altri direttamente attribuite a Lui dall’autore sacro.

Il disagio del lettore contemporaneo non va minimizzato. Ha infatti indotto alcuni ad assumere un atteggiamento di biasimo nei confronti dei testi veterotestamentari, considerati superati e inadatti a nutrire la fede. La stessa gerarchia cattolica ha percepito i riflessi pastorali del problema, disponendo che, nella liturgia pubblica, interi passi biblici non vengano letti, e siano sistematicamente omessi quei versetti che risulterebbero offensivi per la sensibilità cristiana. Se ne potrebbe impropriamente dedurre che una parte della Sacra Scrittura non goda del carisma dell’ispirazione, non risultando in concreto “utile per insegnare, convincere, correggere ed educare alla giustizia” (2 Tm 3,16).

Si ritiene perciò indispensabile indicare alcune linee di interpretazione che consentano un approccio più adeguato alla tradizione biblica, proprio nei suoi testi problematici, i quali dovranno comunque essere interpretati nel contesto globale della Scrittura, alla luce quindi del messaggio evangelico dell’amore anche per il nemico (Mt 5,38-48).

3.1.1. La violenza e i suoi rimedi legali

126. Fin dalle sue prime pagine, la Bibbia mostra l’insorgere della violenza nella società umana (Gen 4,8.23-24; 6,11.13), la cui matrice sta nel rifiuto di Dio che prende forma di idolatria (Rm 1,18-32). La Sacra Scrittura denuncia e condanna ogni forma di sopruso, dalla schiavitù alle guerre fratricide, dalle aggressioni personali ai sistemi oppressivi, sia fra le nazioni sia all’interno di Israele (Am 1,3–2,16). Mettendo davanti agli uomini le terribili conseguenze della perversione del cuore (Gen 6,5; Ger 17,1), la Parola di Dio ha funzione profetica; essa invita così a riconoscere il male per evitarlo e combatterlo.

Per promuovere la conoscenza del bene da compiere (Rm 3,20) e per favorire il processo di conversione, la Scrittura proclama la legge di Dio, che è come un freno al dilagare dell’ingiustizia. La Torah del Signore non indica però solo la via della giustizia che ognuno è doverosamente chiamato a seguire, ma prescrive anche quali azioni dispiegare nei confronti del colpevole, così che il male venga estirpato (Dt 17,12; 22,21.22.24; ecc.), siano risarcite le vittime e sia promossa la pace. Non si può criticare come violento un tale dispositivo. La sanzione punitiva è infatti necessaria, perché non solo mette in evidenza l’iniquità e la pericolosità del crimine, ma, oltre a costituire una giusta retribuzione, ha di mira l’emendazione del colpevole e, incutendo il timore della pena, aiuta la società e il singolo ad astenersi dal male. Abolire totalmente la punizione equivarrebbe a tollerare il misfatto, diventandone complici. Il sistema penale, regolato dalla cosiddetta ”legge del taglione” (“occhio per occhio, dente per dente”: Es 21,24; Lv 24,20; Dt 19,21), costituisce così una ragionevole modalità di attuazione del bene comune. Pur imperfetto per i suoi aspetti coercitivi e per alcune sue modalità sanzionatorie, tale sistema è di fatto assunto, con opportuni aggiustamenti, dagli ordinamenti giuridici di ogni epoca e paese, perché idealmente basato sulla equa proporzione tra reato e sanzione, tra danno inferto e danno subìto. Invece della vendetta arbitraria, viene fissata la misura di una giusta reazione all’atto malvagio.

Si può obiettare che alcune discipline punitive previste dai Codici dell’Antico Testamento appaiono insopportabilmente crudeli (come la fustigazione: Dt 25,1-3; o la mutilazione: Dt 25,11-12); e anche la pena di morte, prevista per i delitti più gravi, viene oggi ampiamente contestata. Il lettore della Bibbia in questi casi deve, da un lato, riconoscere il carattere storico della legislazione biblica, superata da una migliore comprensione dei procedimenti di giustizia più rispettosi dei diritti inalienabili della persona; d’altro lato, le antiche prescrizioni possono comunque servire per segnalare la gravità di certi crimini, che esigono misure appropriate per evitare il diffondersi del male.

Quando nella Sacra Scrittura si attribuisce a Dio e al giudice umano la manifestazione dell’ira con l’attuarsi della giustizia punitiva, non si prospetta dunque un comportamento improprio; è doveroso infatti che il male non resti impunito, ed è bene che le vittime vengano soccorse e risarcite. D’altra parte, la Scrittura, anche nell’Antico Testamento, completa la visione del Dio garante della giustizia con il ripetuto ricordo della sua grande pazienza (Es 34,6; Nm 14,18; Sal 103,8; ecc.), e soprattutto con l’apertura costante al perdono per il colpevole (Is 1,18; Gn 4,11), perdono concesso quando si dispiegano sentimenti e atti di vero pentimento (Gn 3,10; Ez 18,23). Il modello divino, che contempera il necessario rigore nella disciplina con la mitezza e la prospettiva del perdono, viene dalla Bibbia proposto all’imitazione dell’uomo responsabile della giustizia e della concordia sociale.

3.1.2. La legge dello sterminio

127. Nel libro del Deuteronomio, in particolare, leggiamo che Dio comanda a Israele di spodestare le nazioni cananee e di votarle allo sterminio (Dt 7,1-2; 20,16-18); l’ordine viene fedelmente eseguito da Giosuè (Gs 6–12) e portato a compimento nella prima epoca monarchica (cf. 1 Sam 15). Questo insieme letterario risulta assai problematico, ancor più di tutte le guerre e dei massacri narrati nell’Antico Testamento; il farne un programma di condotta politica nazionalistica, a giustificazione della violenza su altri popoli, è in ogni caso da biasimare senza mezzi termini, perché stravolge il senso della pagina biblica.

Fin dall’inizio è necessario far notare che queste narrazioni non presentano i caratteri del resoconto storico: infatti, in una guerra reale, le mura di una città non crollano al suono delle trombe (Gs 6,20), né si vede come possa realmente avvenire una pacifica distribuzione delle terre mediante sorteggio (Gs 14,2). D’altro canto, la normativa del Deuteronomio che prescrive lo sterminio dei Cananei prende forma scritta in un momento storico in cui tali popolazioni non erano più identificabili in terra di Israele. Si impone perciò la necessità di riconsiderare accuratamente il genere letterario di queste tradizioni narrative. Come già avevano suggerito i migliori interpreti della tradizione patristica, il racconto dell’epopea della conquista va visto come una sorta di parabola, che mette in scena personaggi dal valore simbolico; la legge dello sterminio, dal canto suo, esige una interpretazione non letterale, così come si fa d’altronde per il comando del Signore di tagliarsi la mano o cavarsi un occhio se sono occasione di scandalo (Mt 5,29; 18,9).

Ci resta comunque da indicare come sia possibile orientare la lettura di queste pagine difficili. Un primo aspetto controverso della tradizione letteraria appena menzionata è quello della conquista, intesa come lo spodestare gli abitanti del luogo per insediarsi al loro posto. Non convince certo l’appellarsi al diritto di Dio di distribuire la terra privilegiando i suoi eletti (Dt 7,6-11; 32,8-9), perché così viene disconosciuta la legittima pretesa delle popolazioni autoctone. Altre più convincenti piste di spiegazione vengono di fatto fornite dal testo biblico. In primo luogo, il racconto mette in scena il conflitto tra due gruppi di diversa consistenza economica e militare, quello dei Cananei, potentissimo (Dt 7,1; cf. anche Nm 13,33; Dt 1,28; Am 2,9; ecc.), quello degli Israeliti, debole e inerme; non viene quindi narrato – come modello ideale – il prevalere del prepotente, ma, al contrario, il trionfo del piccolo, in conformità con una “figura” ben attestata in tutta la Bibbia fino al Nuovo Testamento (Lc 1,52; 1 Cor 1,27). Ciò esprime una lettura profetica della storia, che nella vittoria dei miti, in una guerra “santa”, vede il compiersi del Regno del Signore sulla terra. Inoltre, secondo l’attestazione biblica, i Cananei vengono ritenuti da Dio colpevoli di crimini gravissimi (Gen 15,16; Lv 18,3.24-30; 20,23; Dt 9,4-5; ecc.), fra cui quello di uccidere i propri figli in rituali pervertiti (Dt 12,31; 18,10-12). Il racconto prospetta allora l’attuarsi del giudizio divino nella storia. E Giosuè si dimostra “servo del Signore” (Gs 24,29; Gdc 2,8) nell’assumere il compito di esecutore di giustizia: le sue vittorie sono costantemente attribuite al Signore e al suo potere sovrumano. Il motivo letterario del giudizio sulle nazioni inizia così nei racconti di origine, ma, come è documentato dai profeti e dagli scritti apocalittici, si estenderà ai vari popoli, ogni qual volta una nazione – e quindi anche Israele – verrà giudicata da Dio meritevole di sanzione.

Ora, è in questa linea che va capita anche la legge dello “sterminio” e la sua puntuale applicazione da parte dei fedeli del Signore. Tale normativa si ispira a una interpretazione sacrale del popolo dell’alleanza (Dt 7,6), il quale deve significare, con atteggiamenti anche estremi, la sua radicale differenza dalle genti. Dio non comanda certo di operare un sopruso che sarebbe giustificato per motivi religiosi, ma chiede di obbedire a un dovere di giustizia, analogo al perseguimento, alla condanna e alla messa a morte del reo di un crimine capitale, che sia un individuo o una collettività. Avere pietà del criminale, risparmiandolo, viene considerato un atto di disobbedienza e di ingiustizia (Dt 13,9-10; 19,13.21; 25,12; 1 Sam 15,18-19; 1 Re 20,42). Anche in questo caso dunque l’atto apparentemente violento va interpretato come la sollecitudine nel togliere il male, così da salvaguardare il bene comune. Questa corrente letteraria è corretta da altre – fra cui quella detta sacerdotale – che, a proposito degli stessi fatti, suggeriscono invece indirizzi di esplicito pacifismo. Per questa ragione dobbiamo comprendere l’intera vicenda della conquista come una sorta di simbolo, analogo a quello che leggiamo in certe parabole evangeliche di giudizio (Mt 13,30.41-43.50; 25,30.41; ecc.); essa – lo ripetiamo – va comunque integrata con altre pagine bibliche, che, annunciano la compassione divina e il suo perdono quale orizzonte e finalità di tutta l’azione storica del Sovrano di tutta la terra, e quale modello dell’agire giusto degli esseri umani.

3.1.3. La preghiera che chiede vendetta

128. Il manifestarsi della violenza risulta particolarmente sconveniente quando si dispiega nella preghiera; eppure proprio nel Salterio troviamo espressioni di odio e desideri di vendetta contrastanti radicalmente con i sentimenti di amore per i nemici insegnato ai suoi discepoli dal Signore Gesù (Mt 5,44; Lc 6,27.35). Pur rispettando la decisione prudenziale di omettere dalla liturgia ciò che risulta motivo di scandalo, è opportuno suggerire qualche indicazione che consenta ai credenti di appropriarsi anche oggi, come avvenne nel passato, dell’intero patrimonio della preghiera di Israele.

La modalità principale con cui spiegare e accogliere le espressioni difficili dei Salmi è quella di comprenderne il genere letterario; ciò significa che i modi di dire che vi leggiamo non vanno presi alla lettera. Nelle preghiere di supplica e lamento, fatte da un orante perseguitato, appare frequentemente il motivo “imprecatorio”, che si presenta come una invocazione appassionata rivolta a Dio perché attui la salvezza mediante l’eliminazione dei nemici. In certi Salmi questa dimensione vendicativa diventa insistita o addirittura preponderante (come nel Sal 109). Se le formulazioni usate dal salmista sono linguisticamente moderate (del tipo: “retrocedano e siano umiliati quanti tramano la mia sventura”: Sal 35,4), esse vengono più facilmente integrate nella preghiera; diventano invece problematiche o insopportabili le immagini brutali (come: “per la tua fedeltà stermina i miei nemici”: Sal 143,12; o: “figlia di Babilonia, […] beato chi afferrerà i tuoi piccoli e li sfracellerà contro la pietra”: Sal 137,8-9). Tre aspetti vanno considerati al proposito.

a. Il soggetto che prega: l’uomo sofferente

129. Il genere letterario del lamento si serve di espressioni esagerate ed esasperate, sia nella descrizione della sofferenza, che è sempre estrema (“hanno scavato le mie mani e i miei piedi, posso contare tutte le mie ossa”; Sal 22,17-18; “sono più numerosi dei capelli del mio capo quelli che mi odiano senza ragione”: Sal 69,5), sia nella richiesta dei rimedi, che si chiede siano sbrigativi e definitivi. Ciò è motivato dal fatto che tale preghiera esprime il vissuto emotivo di chi si trova in una situazione drammatica; i suoi sentimenti non possono dunque essere improntati a pacatezza, e le sue parole assomigliano piuttosto a un ruggito (Sal 22,2). In ogni caso, le immagini usate vanno viste come metafore: “spezzare i denti dei malvagi” (Sal 3,8; 58,7) significa far cessare la menzogna e l’avidità dei prepotenti; “sfracellare i bambini sulla roccia” vuol dire annientare, senza possibilità che si riproduca in futuro, la forza maligna che distrugge la vita; e così via. Inoltre, chi prega il Salterio utilizza le parole scritte da un’altra persona, in circostanze diverse; deve perciò fare sempre una trasposizione per applicarle al suo vissuto personale: una simile attualizzazione sarà più riuscita se egli assumerà la preghiera di lamento non come espressiva (solo) della sua situazione personale, ma come la voce dolorosa delle vittime di tutta la storia, come il grido dei martiri (Ap 6,10) che chiedono a Dio che la “bestia” violenta sia fatta sparire per sempre.

b. Che cosa chiede l’orante? “Liberaci dal male”

130. Nella preghiera imprecatoria non si compie un’azione magica che avrebbe un’efficacia diretta contro i nemici; l’orante affida invece a Dio il compito di fare quella giustizia che nessuno sulla terra può attuare. Vi è in questo la rinuncia alla vendetta personale (Rm 12,19; Eb 10,30) e, di più, si esprime così la fiducia in un’azione del Signore adeguata alla gravità della situazione e pienamente conforme alla natura stessa di Dio. Le espressioni usate dall’uomo che prega sembrano dettare a Dio il modo di agire; ma, rettamente intese, dicono solo il desiderio che il male venga annientato, così che gli umili accedano alla vita. E si chiede che ciò avvenga nella storia, come rivelazione del Signore (Sal 35,27; 59,14; 109,27) e per questo mediazione di conversione per gli stessi violenti (Sal 9,21; 83,18-19); infatti, la persecuzione contro l’orante in certi casi è vista come un’aggressione contro Dio (Sal 2,2; 83,3.13), spesso accompagnata dal disprezzo per il Signore (Sal 10,4.13; 42,4; 73,11).

c. Chi sono i nemici dell’orante?

131. Identificare chi siano i nemici dell’orante non è una mera operazione di natura esegetica, che mostrerebbe a quali personaggi e a quali occasioni storiche l’autore sacro avrebbe fatto allusione. In realtà, la situazione descritta nei Salmi (di lamento) è per lo più stereotipica; il linguaggio è convenzionale e spesso volutamente metaforico, così che possa applicarsi a svariate circostanze e a diversi tipi di soggetto. È necessario dunque un atto “profetico”, di interpretazione nello Spirito, per poter vedere come le parole del Salmista si applichino nella vita concreta di chi recita un Salmo di lamento, e in questa storia concreta riconoscere chi sia il nemico che minaccia (come in At 4,23-30).

C’è un progresso nell’identificazione del nemico quando si scopre che questi non è solo chi attenta alla vita fisica o alla dignità della persona, ma piuttosto chi insidia la vita spirituale dell’orante (Mt 10,28). Quali sono le forze ostili che il credente deve affrontare? Chi o che cosa è il “leone ruggente” (Sal 22,14; 1 Pt 5,8) o la “lingua velenosa del serpente” (Sal 140,4), per i quali si deve provare odio implacabile (Sal 26,5; 139,21-22) e di cui si chiede a Dio l’annientamento (Sal 31,18)? “La nostra battaglia non è contro la carne e il sangue”, scrive san Paolo (Ef 6,12); è dal “maligno”, che è “legione” (Mc 5,9), che l’orante chiede di essere liberato, come da un esorcismo, per la potente misericordia di Dio. E come in ogni esorcismo, le parole sono dure, perché esprimono l’ostilità assoluta tra Dio e il male, tra i figli di Dio e il mondo del peccato (Gc 4,4).

3.2. Lo statuto sociale delle donne

132. Alcuni passi biblici, in particolare paolini, invitano a riflettere su ciò che, nel Canone dell’Antico ma anche del Nuovo Testamento, sarebbe perenne e quello che, legato a una cultura, a una civiltà o ancora alle categorie di un’epoca determinata, sarebbe da relativizzare. Lo statuto delle donne nell’epistolario paolino solleva questo tipo di questione.

a. La sottomissione della moglie al suo marito

Nelle lettere ai Colossesi (3,18), agli Efesini (5,22-33) e a Tito (2,5) Paolo chiede alle mogli di sottomettersi ai loro mariti e, ciò facendo, segue le usanze greche e giudaiche di allora, secondo le quali le donne avevano uno statuto sociale inferiore a quello degli uomini. L’esortazione sembra non seguire Gal 3,28, dove è dichiarato che nella Chiesa non devono esserci discriminazioni, né tra Giudei e Greci, né tra liberi e schiavi, né tra uomini e donne.

Nei passi di Efesini e Colossesi, la sottomissione della moglie non è basata su norme sociali in vigore allora, ma sull’agire del marito, agire che ha la sua origine nell’agape, il cui modello è l’amore di Cristo stesso per il suo Corpo, la Chiesa. Nondimeno, Paolo è stato accusato di invocare questo sublime esempio per mantenere più facilmente la moglie nell’assoggettamento e, ciò facendo, di sottomettere i cristiani ai valori del mondo – in altri termini, di allontanarsi dal Vangelo!

A queste obiezioni si risponde dicendo che Paolo non insiste sulla sottomissione delle spose – le motivazioni in merito sono brevissime –, ma piuttosto sull’amore che il marito deve mostrare alla moglie, un amore che per Paolo è la condizione non solo dell’unione e dell’unità della coppia, ma anche quella della sottomissione e della venerazione della moglie per il marito. La superiorità dello statuto sociale del marito, che costituisce la prima motivazione (Ef 5,23), sparisce totalmente dall’orizzonte al termine dell’argomentazione. Quello che si deve ritenere è dunque il modo in cui, indipendentemente dal ruolo fissato per ciascuno dei coniugi nella società di allora, Paolo vuole favorire il rinnovamento del comportamento del marito, il cui statuto era socialmente superiore. Inoltre, la sottomissione della moglie al marito non deve essere separata da Ef 5,21, dove Paolo dice che tutti i credenti devono “sottomettersi gli uni agli altri”.

Tuttavia, una difficoltà rimane. A cosa serve infatti utilizzare un modello cristologico ed ecclesiale se non si segnala che il rango inferiore della moglie non è pertinente nella Chiesa, perché i credenti hanno tutti la stessa dignità e hanno un solo e unico Signore, il Cristo? Si deve escludere che Paolo abbia potuto compromettersi con dei valori mondani. A dire il vero, egli non propone nuovi modelli sociali, ma, senza modificare materialmente quelli del suo tempo, invita a interiorizzare relazioni o regole sociali dichiarate stabili e durature a una certa epoca – quella del primo secolo – perché possano essere vissute in conformità al Vangelo.

Ci si può dunque rammaricare, tanti secoli dopo, che Paolo in queste lettere non abbia chiaramente affermato l’uguaglianza nello statuto sociale per i coniugi credenti, ma il suo modo di procedere era forse l’unico possibile a quella epoca – altrimenti, il cristianesimo avrebbe potuto essere accusato di minare l’ordine sociale. D’altra parte invece, l’esortazione ai mariti non ha perso nulla della sua attualità e della sua verità.

b. Il silenzio delle donne nelle riunioni ecclesiali

133. Anche il passo di 1 Cor 14,33-35, solleva qualche difficoltà, perché Paolo chiede alle donne di tacere durante le assemblee: “Come in tutte le comunità dei santi, le donne nelle assemblee tacciano perché non è loro permesso parlare; stiano invece sottomesse, come dice anche la Legge. Se vogliono imparare qualche cosa, interroghino a casa i loro mariti, perché è sconveniente per una donna parlare in assemblea”. Questi versetti sembrano contraddire 1 Cor 14,31 (“potete tutti profetare”) e 1 Cor 11,5, dove si parla di donne che profetizzano durante le assemblee. Ma gli enunciati di 1 Cor 14,34-38 devono essere contestualizzati, cioè interpretati in relazione ai versetti precedenti sulla profezia. Paolo non intende certamente dire che le donne non sono autorizzate a profetizzare (cf. 11,5), ma che non devono vagliare e giudicare in assemblea (v. 29) le profezie dei loro mariti. I princìpi soggiacenti a un tale divieto sono quelli del rispetto, della concordia tra coniugi e del buon ordine nelle assemblee. Se questi princìpi valgono ancora oggi, la loro applicazione dipende evidentemente dallo status dato alle donne nelle rispettive civiltà e culture. Paolo non fa del tacere delle donne un assoluto, ma soltanto un mezzo adatto alla situazione delle assemblee di allora. E oggi, non dobbiamo confondere i princìpi e la loro applicazione, che è sempre determinata dal contesto sociale e culturale.

c. Ruolo della donna nelle assemblee

134. Più difficile e meno difendibile, se inteso come principio assoluto, è il modo in cui 1 Tm 2,11-15 giustifica lo statuto inferiore della donna, nell’ambito sociale ed ecclesiale: “La donna impari in silenzio, in piena sottomissione. Non permetto alla donna di insegnare né di dominare sull’uomo; rimanga piuttosto in atteggiamento tranquillo. Perché prima è stato formato Adamo e poi Eva; e non Adamo fu ingannato, ma chi si rese colpevole di trasgressione fu la donna, che si lasciò sedurre. Ora lei sarà salvata partorendo figli, a condizione di perseverare nella fede, nella carità e nella santificazione, con saggezza”. Il contesto è ancora quello delle assemblee ecclesiali composte di uomini e donne. Paolo non chiede alle donne di tacere, né impedisce loro di profetizzare; il divieto tocca soltanto l’insegnamento e i carismi di governo. L’idea è più o meno la stessa che per i casi precedenti: l’insegnamento e il governo erano in quel tempo riservati ai maschi, e Paolo vuole che questo ordine sociale, considerato allora come naturale sia rispettato (cf. già 1 Cor 11,3: “capo della donna è l’uomo”).

Non è tanto questa idea a sollevare difficoltà – perché, come è stato detto sopra, può essere adattata alla cultura e alla società in cui si vive –, ma piuttosto il modo in cui viene giustificata, cioè per mezzo di una interpretazione problematica dei racconti di Gen 2–3: l’ordine del creato (l’uomo è di statuto superiore, perché creato prima della donna; cf. Gen 2,18-24) e la caduta della donna nel paradiso. Ora, la lettura che 1 Tm fa del racconto di Gen 3 si ritrova già in Sir 25,24 e in altri scritti, ad esempio nell’apocrifo giudaico Vita di Adamo ed Eva o in Apocalisse di Mosè nella traduzione greca. La donna si è lasciata ingannare dal serpente, ha peccato ed è stata responsabile della morte di tutta la specie umana; deve perciò comportarsi con modestia e non voler dominare l’uomo. Questa lettura è palesemente influenzata dal modo in cui si concepiva e si giustificava allora lo statuto sociale rispettivo dell’uomo e della donna; inoltre, non è compatibile con 1 Cor 15,21-22 e Rm 5,12-21; riflette anche una situazione ecclesiale nella quale bisognava trovare argomenti di autorità per rispondere alle donne che si lamentavano di non poter esercitare i suddetti ruoli nelle assemblee ecclesiali.  Si mostra che questa lettura di Gen 2–3 è condizionata dalle circostanze del primo secolo. Una interpretazione corretta di un passo biblico – qui Gen 2–3 – deve, tuttavia, cogliere e rispettare l’intentio textus.  

4. Conclusione

135. L’affermazione che la Bibbia comunica la Parola di Dio sembra smentita da non pochi passi biblici. Abbiamo trattato due tipi di testo: racconti che sembrano inverosimili e incapaci di reggere a una seria indagine storico-scientifica, e testi che non soltanto propongono, ma impongono comportamenti immorali o che contraddicono alla giustizia sociale. Presentiamo ora una breve sintesi dei risultati delle nostre indagini e cerchiamo di formulare alcune conseguenze per una lettura più adeguata e una comprensione più giusta dei testi biblici.

a. Breve sintesi

Lo studio di quattro racconti dell’Antico Testamento ha mostrato che una lettura che è interessata soltanto ai fatti realmente accaduti non è capace di comprendere l’intenzione e il contenuto di questi testi. Nel caso di Genesi 15 e di Esodo 14, gli eventi raccontati non possono essere verificati puntualmente dalla scienza storica. Per i narratori di questi testi, è un fatto storico la sopravvivenza plurisecolare del loro popolo, ed è decisiva la loro fede in Dio nella loro situazione ed esperienza (tempo dell’esilio). I loro racconti attestano che l’atteggiamento fondamentale è la fede incondizionata in Dio e nella sua illimitata potenza salvifica. Nel caso di Tobia e Giona, si nota che testi che non raccontano eventi realmente accaduti sono nondimeno racconti pieni di significato edificante, didattico e teologico.

Riguardo ai testi narrativi del Nuovo Testamento, si è mostrato che l’interesse per i fatti accaduti non basta, ma occorre prestare grande attenzione al significato di ciò che viene raccontato. Nei vangeli dell’infanzia non tutti i dettagli della narrazione possono essere storicamente verificati, mentre è chiaramente affermato il concepimento verginale di Gesù. Questi racconti introducono al resto dello scritto, presentando le caratteristiche principali della persona e dell’opera di Gesù. I miracoli (opere di potenza, segni), dal canto loro, sono presenti in tutte le tradizioni sull’attività di Gesù. Il loro significato non consiste solamente nell’essere atti straordinari. Nei vangeli sinottici, essi indicano la presenza salvifica del Regno di Dio nella persona e nell’opera di Gesù; in Giovanni rivelano il rapporto di Gesù con Dio e conducono alla fede in Gesù (cf. anche Mt 8,27; 14,33). I racconti pasquali, proprio a causa delle loro divergenze, mostrano di non essere delle semplici cronache, e destano l’attenzione per il valore teologico dei tratti del racconto.

La spiegazione della legge dello sterminio e della preghiera che chiede vendetta ha situato questi testi nel loro contesto storico e letterale, facendo meglio comprendere il loro significato e la loro utilità. Le precisazioni sullo statuto delle donne nell’epistolario paolino mettono in evidenza la necessità di distinguere fra i princìpi del comportamento giusto cristiano e la loro applicazione nel contesto culturale e sociale del tempo.

b. Alcune conseguenze per la lettura della Bibbia

136. A un primo sguardo, molti testi narrativi della Bibbia sembrano avere il carattere di una cronaca che riferisce ciò che è effettivamente accaduto. A questa impressione corrisponde un modo di leggere la Bibbia che, in tutte le vicende raccontate, vede realtà effettivamente avvenute. Questo modo di leggere sembra dare un accesso al contenuto della Bibbia che è semplice, immediato, possibile per tutti, con risultati chiari e sicuri.

Invece, la lettura della Bibbia che tiene conto delle scienze moderne (storiografia, filologia, archeologia, antropologia culturale, ecc.) rende la comprensione dei testi biblici più complessa e sembra proporre risultati meno certi. Non possiamo però sottrarci alle esigenze del nostro tempo, e interpretare i testi della Bibbia al di fuori del loro contesto storico: dobbiamo leggerli nel nostro tempo, con e per i nostri contemporanei. La pista seguita in questo Documento mostra come la ricerca del significato dei testi, che supera la preoccupazione di fissare esclusivamente i fatti realmente accaduti, conduca a una comprensione più profonda e adeguata del loro senso.

C`è il pericolo – da evitare accuratamente – che, non reperendo nei racconti biblici il resoconto cronachistico dei fatti narrati, se ne deduca che tutto nella Bibbia è invenzione e produzione di idee e di credenze umane. Dio si rivela nella storia, la sua “economia della rivelazione avviene con eventi e parole tra loro intimamente connessi” (Dei Verbum, n. 2). Compito della Bibbia è trasmettere questi eventi e parole. Compito di una seria e adeguata lettura della Bibbia è essere attenti a tali eventi e parole.

La presenza della legge dello sterminio e di testi simili mostra un altro elemento importante per la lettura della Bibbia. Questa riferisce la storia della rivelazione di Dio e, nello stesso tempo, la storia della morale rivelata. Come la rivelazione di Dio, così pure la rivelazione del giusto comportamento umano raggiunge la sua pienezza in Gesù. Come non possiamo trovare in ogni passo biblico la piena rivelazione di Dio, così non possiamo trovarvi neppure la perfetta rivelazione della morale. Perciò i singoli passi della Bibbia non devono essere isolati o assolutizzati, ma devono essere compresi e valutati nel loro rapporto con la pienezza della rivelazione nella persona e nell’opera di Gesù, nel quadro di una lettura canonica della Sacra Scrittura. È molto utile una comprensione profonda di questi testi in se stessi; così si manifesta il cammino che la rivelazione compie nella sua storia.

Infine, è fondamentale che l’orientamento del lettore della Sacra Scrittura sia quello di ricercare che cosa essa dica su Dio e sulla salvezza degli uomini. Così facendo, se non raggiungerà sempre una comprensione adeguata del testo che sta leggendo, progredirà tuttavia sempre nella conoscenza della verità della Bibbia, nella sapienza spirituale che è cammino per una piena comunione con Dio.

  

CONCLUSIONE GENERALE

137. La Chiesa Cattolica, con un pronunciamento solenne e normativo (al Concilio di Trento, EB 58-60), ha accolto il Canone dei libri sacri, definendo così i parametri fondamentali del suo credere. La Chiesa ha esplicitato quali testi siano da ritenere ”scritti per ispirazione dello Spirito Santo” (Dei Verbum, n. 11), e quindi indispensabili per la formazione e l’edificazione del credente e dell’intera comunità cristiana (cf. 2 Tm 3,15-16). Se, da un lato, si ha piena consapevolezza che tali scritti sono stati composti da autori umani, i quali li hanno marcati con la loro particolare genialità letteraria, d’altro lato, viene parimenti riconosciuta loro una qualità divina del tutto speciale, variamente attestata dai testi sacri e variamente spiegata dai teologi nel corso della storia.

138. Compito della Commissione Biblica, sollecitata a esprimersi su tale tematica, non è quello di fornire una dottrina dell’ispirazione, in concorrenza con quanto viene abitualmente presentato nei trattati di teologia sistematica; essa, mediante questo Documento, intende mostrare come la stessa Sacra Scrittura indichi la provenienza divina delle sue attestazioni, facendosi così messaggera della verità di Dio. Ci situiamo perciò in un ambito di fede: accogliamo infatti ciò che la Chiesa ci consegna come Parola di Dio, e da essa attingiamo elementi di comprensione, che favoriscano una più matura recezione di tale eredità divina.

139. Le Sacre Scritture costituiscono un insieme unitario, perché tutti i libri, ”con tutte le loro parti” (Dei Verbum, n. 11), sono dotati del carattere di testo ispirato, avendo lo stesso Dio ”per autore” (ibid.). Tuttavia, pur ammettendo che ogni parola del testo sacro può essere qualificata come Parola di Dio, coerente con tutte le altre, la Chiesa ne ha sempre riconosciuto l’aspetto molteplice, che può apparentemente contrastare con l’unica origine divina.

La distinzione tra Antico e Nuovo Testamento è la più vistosa manifestazione di importanti diversità all’interno della Bibbia. Nelle antiche basiliche cristiane due amboni erano predisposti per la lettura dei testi sacri, con la funzione di segnalare la distinzione e la complementarietà dell’uno e dell’altro Testamento, entrambi necessari per attestare l’unico evento della definitiva Rivelazione, consistente nel mistero del Cristo Signore. Anche in questo nostro contributo abbiamo rispettato perciò la natura propria di ciascuna delle parti costitutive della Sacra Scrittura, facendo emergere come la loro diversità non solo non offende, ma anzi arricchisce la testimonianza verace dell’unico Verbo di Dio.

All’interno delle due grandi parti della Bibbia, è pure particolarmente evidente la varietà dei generi letterari, delle categorie teologiche, degli approcci antropologici e sociologici. Dio ha parlato infatti ”in diversi modi” (Eb 1,1) non solo nei tempi antichi, ma anche dopo l’avvento del Figlio che ha rivelato in pienezza il Padre (cf. Gv 1,18). È sembrato allora doveroso, in questo Documento, illustrare con opportuni sondaggi, una così ricca diversità di pronunciamenti, tutti animati dalla medesima certezza di esprimere la verità divina.

1. La provenienza da Dio dello scritto biblico

140. La comunità credente vive di una tradizione: essa infatti si sente costituita dall’ascolto della Parola di Dio, messa per iscritto in alcuni libri, che sono stati consegnati come normativi, in quanto portano in loro stessi il marchio della loro autorevolezza.

Questa era innanzi tutto garantita dall’autorità degli scrittori, che secondo un’antica e venerabile tradizione, erano stati riconosciuti come mandati da Dio e dotati del carisma dell’ispirazione. Così, durante molti secoli, fino alla modernità, non venne posta in questione la paternità letteraria del Pentateuco, attribuita in blocco a Mosè, né quella dei vari libri profetici e sapienziali, che, quando erano privi di specifica titolatura, venivano assegnati ad autori ben conosciuti (come Davide, Salomone, Geremia, ecc.).

Questo modulo di accoglienza tradizionale venne assunto anche per gli scritti del Nuovo Testamento, ritenuti tutti provenienti dalla cerchia degli Apostoli. Ai nostri giorni, a motivo di convergenti ricerche condotte con metodologie letterarie e storiche, non possiamo mantenere la medesima prospettiva degli antichi; la scienza esegetica infatti ha dimostrato, con argomentazioni convincenti, che i vari scritti biblici non sono il prodotto esclusivo dell’autore indicato nel titolo dell’opera o riconosciuto come tale dalla tradizione. La storia letteraria della Bibbia postula invece una pluralità di interventi, e quindi una collaborazione di autori diversi, per lo più anonimi, lungo una storia redazionale assai lunga e anche travagliata. Questa doverosa assunzione di un modello interpretativo riguardante l’origine degli scritti sacri non si oppone diametralmente alla concezione tradizionale, talvolta frettolosamente tacciata di ingenuità ermeneutica. Infatti la Chiesa, nel paziente e severo lavoro di discernimento che si è protratto per diversi secoli, ha sempre recepito che poteva accogliere come ispirato quello scritto che era in consonanza con il deposito di fede solidamente e fedelmente custodito dalla comunità credente, garantito da coloro che Dio aveva preposto come pastori e guide dei fedeli. Lo Spirito all’opera nella Chiesa, con la forza di intelligenza che gli è propria, consentiva di separare ciò che era autentica comunicazione divina dalle forme menzognere o non sufficientemente fondatrici. Veniva così, in certi casi, rigettato un testo che portava la titolatura di un uomo ispirato, mentre era accolto con venerazione uno scritto che, non garantito dalla firma di un autore riconosciuto, ne portava tuttavia l’impronta inconfondibile. Con una straordinaria percezione della verità della Rivelazione, la Chiesa si auto-costituisce nel riconoscimento obbediente della Parola di Dio di cui essa vive.

La consonanza con il Verbo

141. La Chiesa basa tutto il suo discernimento sull’esperienza vivente del Signore Gesù, recepita nella parola dei testimoni che l’hanno conosciuto, e in lui hanno riconosciuto il compimento della divina Rivelazione. A partire da quanto gli Apostoli ed Evangelisti hanno proclamato si è gradualmente stabilito il Canone dei libri sacri, e la Chiesa ha visto, nelle loro varie attestazioni, il carattere della verità autentica, perché concorde con la testimonianza sul Figlio di Dio. Non perché si presentava con la pretesa di essere Parola di Dio, un determinato scritto meritava dunque di essere letto nelle assemblee liturgiche a fondamento del credere, bensì perché esso, nel suo dire, consonava con il Verbo, e di questo Verbo costituiva una conveniente esplicitazione. È questa consonanza, pur nella varietà espressiva e nella pluralità teologica, ad essere illustrata nelle pagine di questo Documento, mediante l’esplorazione delle diverse auto-testimonianze fornite dai libri della Sacra Scrittura.

Una tale consonanza non si limita a una generica convergenza in alcune dottrine fondamentali. Verrebbe meno così il rispetto per la diversità delle prospettive, per la complementarietà irriducibile di ogni apporto, per la storia letteraria di questi libri che sono nati mediante l’assimilazione e riproposizione innovativa di contenuti antichi. Lo scriba sacro infatti, secondo l’attestazione stessa di Gesù, trae dal suo tesoro il nuovo assieme al vecchio (cf. Mt 13,52). E ciò significa che gli scritti che la Chiesa ha riconosciuto come ispirati, non solo in un modo più o meno esplicito rivendicano una loro provenienza da Dio, ma essi attestano al tempo stesso l’autenticità degli scritti che li hanno preceduti. I profeti convalidano la Torah, e gli scritti sapienziali riconoscono l’origine divina della Legge e dei profeti; in modo analogo, la testimonianza di Gesù consacra tutta la tradizione scritta del popolo ebraico, e gli scritti del Nuovo Testamento si confermano a vicenda, assumendo radicalmente e concordemente tutte le tradizioni dell’antica Scrittura.

La pluralità dei modi di attestazione

142. È questo uno dei principali risultati conseguiti dall’analisi di diversi libri dell’Antico e del Nuovo Testamento condotta nel presente Documento. Accanto a questo aspetto di sostanziale convergenza, è emersa pure, in modo palese, la pluralità delle esperienze religiose e delle modalità espressive che le hanno trasmesse. Non è possibile riprendere qui in maniera dettagliata ed esaustiva i modi con cui i vari autori biblici forniscono un’attestazione della divina provenienza del loro dire; basti accennare ad alcuni modelli che, con diverse accentuazioni, si ritrovano nei diversi libri della Sacra Scrittura.

La modalità di auto-attestazione più importante è quella espressa nei racconti di vocazione profetica e nelle diverse formule che costellano le pagine dei profeti. Qui appare formalmente esplicitata la realtà dell’ispirazione, espressa come la consapevolezza intima di alcuni uomini che dichiarano di essere stati capaci di intendere le parole di Dio e di avere ricevuto il mandato di trasmetterle fedelmente. Questo modello, per la sua forza suggestiva, venne preso a prestito da altri autori sacri della tradizione legislativa (come Mosè), sapienziale (come Salomone) e apocalittica (come Daniele), così da creare una sorta di generale uniformità, quasi come un sigillo di garanzia, che confermasse per i lettori la qualità dello scritto fatto risalire ad una unica sorgente divina.

143. In modo ugualmente diffuso la Bibbia fa presente l’attiva partecipazione di collaboratori dell’uomo ispirato, dotati di competenza letteraria e di sicura affidabilità, i quali hanno non solo coadiuvato gli autori principali, ma hanno altresì raccolto nuovi materiali, adattato quelli precedenti alle nuove esigenze dei destinatari, e hanno compiuto, generazione dopo generazione, un imponente lavoro redazionale di decisiva importanza per la qualità del testo biblico. Il carisma profetico è stato certamente attivo in questi Redattori anonimi, i quali indirettamente attestano la loro consapevolezza di trasmettere le parole del Signore nell’atto stesso di consegnare lo scritto marcato del loro specifico contributo.

Gli studiosi della Bibbia hanno ragionevolmente ipotizzato l’esistenza di correnti, scuole e gruppi religiosi in grado di custodire, in modo vitale, tradizioni letterarie considerate sacre e confluite poi nell’alveo della Sacra Scrittura, così che – pur rilevando l’utilità di reperire una storia della composizione dei testi biblici – non si possa e non si debba accordare valore diverso né diversa autorevolezza a ciò che era “originario” rispetto a ciò che ha un’origine secondaria.

In molti casi infatti noi non abbiamo le ipsissima verba del profeta (ispirato da Dio) se non nelle parole dei suoi discepoli. Questo è emblematicamente attuato nei Vangeli, la cui ispirazione è fuori discussione; in questo genere di scritti l’autore (cioè l’evangelista) si presenta come un testimone fedele del Maestro, e in certi casi come discepolo dei suoi primi discepoli (non essendo menzionato nella lista degli Apostoli).

Da queste indicazioni risulta che, a partire da quanto la Bibbia dice di se stessa, è necessario assumere una definizione più ampia e più sfumata del concetto di ispirazione. Non però nel senso che nel testo sacro vi sarebbero parti insignificanti e prive di valore, ma piuttosto nel senso che il carisma ispiratore si è variamente dispiegato; è possibile e doveroso in ogni caso accordare l’omaggio dell’attenzione obbediente in modo privilegiato a quanto più chiaramente testimonia del Cristo e del suo perfetto messaggio di salvezza.

Invece di diminuire l’adesione credente alla Parola proveniente da Dio, la prospettiva così delineata ne promuove una più matura manifestazione, perché si inchina riconoscente al consegnarsi di Dio nella storia, e perché adora lo Spirito che ha parlato per mezzo dei profeti (cf. Zc 7,12; Ne 9,30) lungo i molti secoli della storia della salvezza. E, d’altro canto, ciò consente di comprendere meglio come questo Spirito non abbia smesso di operare dopo la morte degli Apostoli, poiché esso è stato donato alla Chiesa in modo che essa potesse selezionare e adottare i libri ispirati; e tale Spirito è oggi attivo nell’atto del “religioso ascolto della Parola di Dio" (Dei Verbum, n. 1), perché la Scrittura – secondo il dettato della Dei Verbum, n. 12 – deve “essere letta e interpretata con lo stesso Spirito con il quale fu scritta“. A nulla giova la Parola ispirata se colui che la riceve non vive dello Spirito che sa apprezzare e gustare la divina origine della pagina biblica.

2. La verità della Sacra Scrittura

144. Provenendo da Dio, la Scrittura ha qualità divine. Fra queste quella fondamentale di attestare la verità, intesa però non come una somma di informazioni esatte sui vari aspetti dell’umano conoscere, ma come rivelazione di Dio stesso e del suo progetto salvifico. La Bibbia infatti fa conoscere il mistero di amore del Padre, manifestato nel Verbo fatto carne, che per mezzo dello Spirito conduce alla perfetta comunione degli uomini con Dio (Dei Verbum, n. 2).

Si chiarisce in questo modo che la verità della Scrittura è quella che ha come scopo la salvezza dei credenti. Le obiezioni – sollevate nel passato e ancora oggi ricorrenti – a motivo di inesattezze, contraddizioni di ordine geografico, storico, scientifico, piuttosto frequenti nella Bibbia, obiezioni che pretendono mettere in questione l’affidabilità del testo sacro e quindi la sua origine divina, vengono respinte dalla Chiesa con l’affermazione “che i libri della Scrittura insegnano fermamente, fedelmente e senza errore la verità che Dio in vista della nostra salvezza volle fosse consegnata alle sacre Lettere” (Dei Verbum, n. 11). È questa la verità che dà pienezza di senso all’esistenza umana, ed è questo che Dio ha voluto far conoscere a tutte le genti.

Il Documento presente ribadisce questa medesima prospettiva ermeneutica; il suo contributo, solo in parte innovativo, è di mostrare, attraverso un percorso esemplificativo compiuto su diversi libri della Bibbia e su diverse modalità letterarie, come è presentata la verità che Dio ha inteso rivelare al mondo per mezzo dei suoi servi, gli scrittori sacri.

Verità multiforme

145. Un primo carattere della verità biblica è quello di essere espressa in molte forme e in vari modi (Eb 1,1). Essendo trasmessa da molti uomini e in tempi diversi, essa porta intrinsecamente un carattere molteplice, sia per quanto concerne le affermazioni dottrinali e le discipline normative, sia per quanto riguarda le modalità letterarie. Gli autori del testo sacro espongono quanto, nel loro momento storico e secondo il dono di Dio, era dato loro di comprendere e di trasmettere; e ciò che era stato detto dal Signore nel passato veniva coniugato con nuove e diverse rivelazioni divine. La verità biblica assume inoltre una grande varietà di generi letterari, per cui non esiste solo la proposizione dogmaticamente rilevante, ma anche la verità propria al racconto, quella della norma legislativa o della parabola, quella del testo di preghiera e quella di un poema d’amore come il Cantico, quella delle pagine critiche di Giobbe e Qoèlet e quella dei libri apocalittici. E, all’interno di questi medesimi generi letterari, tutti possono constatare la pluralità dei punti di vista, indubbiamente più evidente della semplice convergenza ripetitiva.

Questa multiforme manifestazione della verità divina non va ristretta alla sola letteratura dell’Antico Testamento, ma va riconosciuta anche per la rivelazione attestata nel Nuovo Testamento, dove abbiamo forme narrative e forme discorsive non certo sovrapponibili, e dove constatiamo significative divergenze nella presentazione del messaggio. Abbiamo infatti quattro vangeli, e la Chiesa ha respinto come improprio il tentativo di una soluzione concordista; ciò che è scritto “secondo Luca“, ad esempio, va rispettato e promosso, anche se non coincide immediatamente con quando dice Marco o Giovanni. Di più, mentre per i vangeli il messaggio è essenzialmente basato sulla vita di Gesù e sulle sue parole, per Paolo la verità del Cristo si radica quasi esclusivamente nell’evento della sua morte e risurrezione. E la diversità di impostazione tra la lettera ai Romani e la lettera di Giacomo è paradigmatica della pluralità attraverso la quale la Scrittura attesta l’unica verità di Dio.

Questa polifonia di voci sacre è offerta alla Chiesa come modello, perché assuma, nel presente, la medesima capacità di coniugare l’unità del messaggio da trasmettere agli uomini con il necessario rispetto della multiforme varietà delle esperienze individuali, delle culture e dei doni elargiti da Dio.

Verità in forma storica

146. Un secondo importante carattere della verità biblica si esprime nel suo configurarsi in forma storica. Alcuni libri della Scrittura portano l’indicazione dell’epoca in cui sono stati scritti; negli altri casi è la scienza esegetica a collocarli in maniera plausibile in diversi periodi storici. L’arco temporale abbracciato dalla letteratura biblica è senza dubbio amplissimo, poiché supera il millennio; in esso si rivela necessariamente il retaggio di concezioni legate ad una particolare epoca, di opinioni frutto di esperienze o preoccupazioni caratteristiche di una specifica stagione del popolo di Dio. Il lavorio esercitato dai Redattori, in ordine a dare una qualche coerenza dottrinale e pratica al testo sacro, non ha eliminato affatto le tracce della storia, svelando i suoi tentennamenti e le sue imperfezioni, sia in ambito teologico che in quello antropologico. Il dovere dell’interprete è allora di evitare la lettura fondamentalista della Scrittura così da situare le varie formulazioni del testo sacro nel loro contesto storico, secondo i generi letterari allora in voga. È accogliendo questa modalità della divina Rivelazione che siamo di fatto condotti al mistero di Cristo, piena e definitiva manifestazione della verità di Dio nella storia degli uomini.

Verità canonica

147. La prospettiva cattolica nell’interpretazione della Bibbia ritiene inoltre che la verità di Dio debba essere accolta nell’integralità della Rivelazione, attestata nel Canone delle Sacre Scritture. Ciò significa che la verità rivelata non può essere limitata a una parte del patrimonio sacro (rifiutando, ad esempio, l’Antico Testamento per affermare il Nuovo), né ristretta a un nucleo omogeneo, che eliminerebbe il resto o lo relativizzerebbe come poco significativo. Non solo tutto ciò che è ispirato è necessario per la piena rivelazione di Dio, ma ogni parte va letta in rapporto con le altre, secondo un principio di armonia che non si identifica con l’uniformità, ma piuttosto con la soave convergenza dei diversi.

È chiaro tuttavia che, nella prospettiva cristiana, la verità dello scritto biblico è consegnata nella attestazione sul Signore Gesù, “mediatore e pienezza dell’intera rivelazione” (Dei Verbum, n. 2), Lui che si definisce “Via, Verità e Vita” (Gv 14,6). Questa essenziale centralità del mistero del Cristo non esclude, anzi esalta le tradizioni antiche, che, come afferma lo stesso Cristo, parlano di Lui (cf. Gv 5,39) e della definitiva salvezza attuatasi nella sua morte e risurrezione. Il Cristo è, nel suo infinito mistero, il centro che illumina tutta la Scrittura.

Le tradizioni letterarie di altre religioni

148. Si apre qui uno spiraglio sul modo di comprendere il rapporto tra la Sacra Scrittura e le tradizioni letterarie di altre religioni. Una simile questione è di stringente attualità per il dialogo interreligioso; la sua soluzione non è certo agevole, perché si deve coniugare il principio irrinunciabile della ”unicità e universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa” (come recita il titolo della Dichiarazione “Dominus Iesus” della Congregazione per la Dottrina della Fede) con il giusto apprezzamento per i tesori spirituali di altre religioni. Il presente Documento non ha esplicitato le linee, che, a partire dalla stessa Sacra Scrittura, potrebbero essere suggerite all’attenzione teologica e pastorale della Chiesa. Tuttavia basti evocare la figura di Balaam (Nm 24) per evidenziare come la profezia (ispirata) non sia prerogativa esclusiva del popolo di Dio, e ricordare come S. Paolo, nel discorso all’Areopago, esprimesse un’adesione convinta alle intuizioni di poeti e filosofi greci (cf. At 17,28). D’altra parte, è pienamente riconosciuto che la letteratura dell’Antico Testamento è largamente debitrice di quanto era stato scritto in Mesopotamia ed Egitto, così come i libri del Nuovo Testamento attingono ampiamente al patrimonio culturale del mondo greco. I semina Verbi sono sparsi nel mondo, e non possono perciò essere confinati nel solo testo della Bibbia. La Chiesa ha definito ciò che ritiene ispirato, ma non si è pronunciata negativamente su tutto il resto. Tuttavia è la Parola di Dio consegnata nelle Scritture canoniche, in particolare in quella parte che testimonia direttamente del Verbo fatto carne, ad essere il principio di discernimento della verità di ogni altra attestazione religiosa, sia nella Chiesa, sia nelle diverse tradizioni religiose dei vari popoli della terra.

Come risulta da queste ultime considerazioni la Chiesa vive di un virtuoso circolo ermeneutico; essa trae dall’ascolto delle parole della Scrittura i principi del suo credere, e da questa fede illuminata essa è resa capace non solo di interpretare correttamente ciò che legge come suo libro sacro, ma anche di decidere riguardo al valore di ogni altra attestazione che pretende ascolto. È proprio dello Spirito di essere quel principio di verità che mette in moto il processo credente e lo porta a compimento, in una indefinita apertura al manifestarsi di Dio nella storia.

3. L’interpretazione di pagine difficili della Bibbia

149. È dunque la Chiesa, corpo vivente di lettori credenti, interpreti autorizzati del testo ispirato, ad essere in ogni momento storico, e quindi anche oggi, la mediazione dell’accoglienza e della proclamazione della verità della Sacra Scrittura. Poiché la Chiesa è dotata dello Spirito Santo, essa è realmente ”colonna e sostegno della verità” (1 Tm 3,15), nella misura in cui fedelmente trasmette al mondo la Parola che la costituisce. Il suo compito si dispiega nella franchezza (parrhesia) dell’annuncio, che proclama Cristo Gesù come unico e definitivo Salvatore (At 4,12); ma dovere della Chiesa, nella sua veste di maestra, è anche di aiutare i fedeli e gli uomini in cerca di verità a interpretare in modo corretto i testi biblici, mediante opportune metodologie e appropriate assunzioni ermeneutiche. A questo proposito è risultato particolarmente utile il precedente Documento della Pontificia Commissione Biblica su L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa, LEV, Città del Vaticano 1993.

Da qualche tempo infatti si sono fatte più insistenti delle riserve concernenti la tradizione biblica, perché alcune sue pagine o alcuni suoi filoni letterari appaiono inaccettabili per la coscienza contemporanea, a motivo di concezioni giudicate sorpassate, di costumi e prassi giuridiche discutibili o addirittura riprovevoli, di racconti che appaiono privi di fondamento storico. Ne consegue un diffuso discredito nei confronti del testo sacro, e una larvata diffidenza sulla sua utilità pastorale, fino a mettere addirittura in questione l’ispirazione di certe parti della Bibbia e di conseguenza la loro verità. Non basta allora affermare, in modo generico, che nell’Antico Testamento si trovano ”cose imperfette e provvisorie” (Dei Verbum, n. 15), o ricordare che anche gli scrittori del Nuovo Testamento erano debitori della mentalità del loro tempo; se è giusto ribadire il principio dell’incarnazione, applicandolo analogamente alla messa per iscritto della divina Rivelazione, è pure doveroso indicare come, in tale debolezza umana, risplenda comunque la gloria del Verbo divino. Non basta neppure, in nome di una prudente sollecitudine pastorale, eliminare i passi problematici dalla lettura pubblica nelle assemblee liturgiche; chi conosce il testo integrale potrà addirittura risentirsi per una decurtazione del patrimonio sacro, o potrà accusare i pastori di occultare indebitamente gli aspetti difficili della Bibbia.

150. La Chiesa non può esimersi dall’umile e tenace compito di interpretare, in modo rispettoso, tutta la tradizione letteraria che essa definisce ispirata, e quindi espressione della verità di Dio. Ora, per interpretare si richiede innanzi tutto il predisporre dei principi chiari, che aiutino a comprendere che il senso di quanto è stato tramandato non si identifica immediatamente con la “lettera” del testo. D’altra parte, è necessario procedere in maniera puntuale, affrontando uno dopo l’altro i nodi che richiedono di essere sciolti, così da esprimere il doveroso impegno del credente di appropriarsi della Parola di Dio secondo il dono di intelligenza che lo Spirito impartisce in ogni epoca della storia.

Il presente Documento della Pontificia Commissione Biblica ha perciò selezionato alcuni dei maggiori problemi che oggi pongono difficoltà al lettore, e ha suggerito alcune piste per una loro possibile interpretazione, nel quadro della nostra fede. La brevità della trattazione non potrà sempre soddisfare, ma non mancheranno di utilità i principi ermeneutici esposti, né alcune indicazioni in merito a specifiche questioni.

Più che una definitiva ed esaustiva disamina delle problematiche difficili poste dal testo sacro, viene qui formulato un possibile percorso ermeneutico, nell’intento di suscitare un’ulteriore riflessione, in dialogo con altri interpreti del testo sacro. Nel comune sforzo di ricerca, il cammino verso la verità risulterà più umile, e, al tempo stesso, più luminoso, perché intriso di reciproco ascolto del medesimo Spirito.

    
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