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DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
AL MOVIMENTO GIOVANILE DELLA COLDIRETTI

Sabato, 7 gennaio 1984

 

Carissimi giovani.

1. Sono particolarmente lieto di trovarmi con voi, non solo perché gli incontri con i giovani, che la mia attività pastorale mi permette di avere in varie occasioni, costituiscono per me fonte continua di viva gioia, ma anche perché questa è la prima volta che mi trovo con le rappresentanze giovanili del mondo rurale italiano.

Nel febbraio 1952 il mio venerato predecessore Pio XII, ricevendo i partecipanti al sesto Congresso nazionale della Confederazione dei coltivatori diretti, incoraggiò la vostra organizzazione ad aprirsi ai giovani, e a prepararli ai doveri, a educarli a larghe vedute spirituali e sociali, in una parola, a formare una gioventù rurale.

Quell’incontro col Papa è da ritenere all’origine, come forza d’ispirazione e di spinta propulsiva, della formazione dei Gruppi giovani coltivatori, avvenuta qualche mese più tardi. E così, ora, voi siete qui per la prima volta, dopo un itinerario di maturazione, a celebrare vicino al Papa la ricorrenza del trentesimo del vostro Movimento.

Saluto tutti e ciascuno con grande affetto, insieme con i vostri dirigenti, che vi hanno accompagnati. So che avete commemorato il trentennio impegnandovi, con una serie di gruppi di studi, a trattare temi di non piccola rilevanza, quali il lavoro, la famiglia, la società, il tempo libero, l’ambiente, la libertà, la cultura, la politica, nel complesso delle loro implicazioni, in un quadro di proposte di valori cristiani rivolte all’interno dell’intero mondo giovanile rurale.

Di tanto mi compiaccio veramente.

2. La Chiesa, consapevole dell’importanza della vostra scelta, per il rilancio di una sana economia e per lo sviluppo dell’uomo si è sempre interessata alla vita dei coltivatori della terra, i cui problemi non potranno essere adeguatamente risolti senza l’apporto delle forze giovanili, della loro capacità di sacrificio e d’entusiasmo.

Impegnata alla soluzione della cosiddetta questione sociale, da quando essa storicamente si pose, la Chiesa si rese subito conto che nello sviluppo della società industrializzata l’interesse prevalente andava a favore di altri settori di attività, e da allora si è adoperata nei suoi documenti a richiamare la dovuta attenzione sull’attività agricola.

Cominciò Leone XIII con la Rerum novarum. Riprese Pio XI, denunciando l’influenza negativa del capitalismo industriale sull’agricoltura. Giovanni XXIIl vide il problema agricolo in una dimensione mondiale, mettendo in evidenza la necessità di nuovi equilibri e il principio della solidarietà internazionale. Paolo VI denunciò gli squilibri e i pericoli, a cui è sottoposta l’agricoltura specie nel gioco dei rapporti tra società altamente industrializzate e quelle che emergono. E, nella mia enciclica sul lavoro umano, ho sottolineato l’importanza “fondamentale” che il lavoro agricolo riveste a motivo del rapporto tra agricoltura e uomo (Laborem exercens, 21).

La Chiesa, dunque, conosce i problemi della terra e, nell’elaborazione della sua dottrina sociale, li ha messi via via a fuoco, prospettandone linee di soluzione.

3. Essa sa che la popolazione rurale si trova spesso in una situazione di svantaggio, con un tenore di vita talora inferiore rispetto a quello della popolazione occupata negli altri settori di lavoro.

Il Concilio Vaticano II si mostra preoccupato degli squilibri economici e sociali registrati tra agricoltura, industria e servizi; e, in nome dei diritti dell’uomo che è anche figlio di Dio, alza la voce di fronte al mondo in maniera forte e chiara.

“In molti Paesi economicamente meno sviluppati, esistono proprietà agricole estese o anche molto estese, mediocremente coltivate o tenute in riserva per motivi di speculazione senza coltivarli; mentre la maggioranza della popolazione è sprovvista di terreni da lavorare o fruisce soltanto di poderi troppo limitati, e d’altra parte, l’accrescimento della popolazione agricola presenta un carattere di evidente urgenza. Non è raro che coloro che sono assunti ad un lavoro dipendente da coloro che detengono tali vasti domini ovvero coloro che ne coltivano una parte a titolo di locazione, ricevono un salario o altre forme di remunerazione che sono indegni di un uomo, non dispongono di un’abitazione decorosa o sono sfruttati da intermediari. Mancando così ogni sicurezza, vivono in tale stato di dipendenza personale, che viene loro interdetta quasi ogni possibilità di agire di propria iniziativa e con personale responsabilità, e viene loro impedita ogni crescita nelle espressioni della umana civiltà e ogni partecipazione attiva nella vita sociale o politica (Gaudium et spes, 71).

Certo le situazioni appaiono diverse da Paese a Paese, o all’interno di uno stesso Paese. Esistono tuttavia delle costanti. Nei documenti della Chiesa si mette in rilievo la situazione in cui si trova, in taluni casi, il lavoratore dei campi o per un complesso di inferiorità, o per il sentimento di emarginazione sociale, o per il dramma di chi si è visto costretto ad abbandonare la propria terra d’origine per emigrare lontano. E così mentre da un lato si sottolinea il triste fenomeno - che tocca soprattutto il ceto contadino - della migrazione, dall’altro lato si mette a fuoco lo spettacolo di latifondi incolti, di poderi troppo limitati, fino allo scandalo intollerabile della fame nel mondo.

4. Di fronte a simile quadro, che cosa fare?

Anche in tal senso la Chiesa, man mano che i problemi emergevano, si è preoccupata di indicare tempestivamente le linee di soluzione a favore dell’agricoltura, a cominciare dalla necessità di creare adeguate infrastrutture, con servizi pubblici essenziali, col miglioramento delle tecniche produttive, fino al varo di politiche economiche concrete e all’elaborazione di riforme nazionali coraggiose e di programmi di collaborazione mondiale.

La Chiesa difende con chiarezza il legittimo diritto alla proprietà, ma non con minor vigore richiama l’attenzione sulla sua ipoteca sociale, perché i beni servano alla destinazione generale voluta da Dio.

Nella mia ultima enciclica ho scritto: “In molte situazioni sono dunque necessari cambiamenti radicali e urgenti per ridare all’agricoltura - agli uomini dei campi - il giusto valore come base di una sana economia, nell’insieme dello sviluppo della comunità sociale. Perciò occorre proclamare e promuovere la dignità del lavoro, di ogni lavoro, e specialmente del lavoro agricolo, nel quale l’uomo in modo tanto eloquente "soggioga" la terra ricevuta in dono da Dio ed afferma il suo "dominio" nel mondo visibile” (Laborem exercens, 21).

5. Carissimi giovani agricoltori, voi conoscete senza dubbio la storia delle vicende e delle crisi dell’agricoltura italiana dal dopoguerra in poi; ma avete anche la fortuna di essere stati immessi in un circuito nuovo di formazione professionale e umana, di innovazioni tecniche, e quindi in grado di proiettarvi verso l’avvenire con speranza e mentalità imprenditoriale.

Nell’esprimervi il mio apprezzamento, vi esorto ad avere sempre una visione cristiana dei problemi e vi auguro di saper attingere al tesoro della spiritualità del lavoro agricolo, che vi consentirà di realizzare pienamente voi stessi e di facilitare la soluzione dei problemi concreti ancora sul tappeto, non solo a vantaggio vostro personale e della vostra famiglia, ma anche di tanti altri meno fortunati lavoratori dei campi.

L’attività agricola, anche se faticosa e piena di incognite, ha il privilegio di mettere il lavoratore in diretta comunicazione con la natura e di farlo partecipare in maniera particolare all’opera della creazione. Dio, che nel creare l’universo e la terra vi ha nascosto tante ricchezze, vuole che le ricchezze della terra diventino le ricchezze dell’uomo.

Con l’auspicio di essere collaboratori generosi e lieti di questa grande opera divina, vi imparto di cuore la mia benedizione.             

 

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