CHIROGRAFO DI SUA SANTITÀ PIO XI
AL CARDINALE PIETRO GASPARRI,
SEGRETARIO DI STATO, SULLA FIRMA
DEI PATTI LATERANENSI
Signor Cardinale,
Ci si è domandato se le relazioni, i discorsi e le discussioni di cui nei passati giorni furono oggetto le convenzioni firmate dai Plenipotenziari della S. Sede e del Regno d’Italia il giorno 11 febbraio u.s., quando venivano presentate alle Camere e da esse votate, sono per rimanere da parte Nostra senza alcuna altra osservazione, dopo quelle affatto parziali ed occasionali sul punto della educazione da Noi fatte parlando ai giovanetti di un vicino Collegio, venuti in udienza proprio quando a quel punto eravamo giunti leggendo il primo discorso, quello del giorno 14 maggio.
E forse avremmo potuto limitarci ad aggiungere a quelle particolari osservazioni una generale dichiarazione di dissensi e di riserve, se non avessimo constatato farsi sempre più generale e più penosa, nei Nostri e in tutti i buoni amatori di pace in Italia ed all’Estero, l’impressione di quei discorsi e congiunte relazioni e discussioni; sempre più viva l’attesa di una parola di chiarimento e di rassicurazione da parte Nostra. La domanda in principio accennata Ci rende una tale parola doverosa per il debito dell’Apostolico Ministero, che a tutti Ci stringe ed anche sentimento di lealtà che Ci vieta di procedere oltre senza chiarimenti che Ci sembrano necessari a dissipare e rendere, quant’è da Noi, impossibili gli equivoci ed i malintesi.
La pena di tutti i buoni ed il suo rapido e generale diffondersi è troppo facilmente spiegabile dall’importanza degli argomenti, dalla celebrità dei luoghi dove venivano trattati, dalla qualità delle persone, dall’universale ed intensa attenzione ed aspettazione sempre più acuite dalla stampa di tutto il mondo, dopo che le 43 avevano improvvisamente ridestate gli avvenimenti dell’undici Febbraio, con una così universale esplosione di serena gioia, che poche eguali ebbe nella storia e che tre mesi appresso doveva andare così profondamente e dolorosamente turbata.
«Ego cogito cogitationes pacis et non afflictionis», (Gerem., XXIX, 11): facendo Nostre queste parole del sacro testo, già nella prima Nostra Lettera Enciclica auspicavamo con espressioni desideranti l’ora appunto della pace; queste parole sentiamo il bisogno di richiamare qui, perché tutti subito intendano quali sentimenti di paterna benignità e di immutato desiderio di pace anche al presente Ci animano e Ci sostengono pure in presenza di parole ed espressioni «dure», «crude», «drastiche». Le quali Noi non possiamo trovare né necessarie, né utili, né convenienti agli scopi indicati e che qui non ricordiamo se non fuggevolmente e soltanto per dire ai Nostri essere Noi stati assicurati che non a Noi né a loro devono pensarsi o dubitarsi indirizzate, anche dopo che esplicitamente venne escluso l’indirizzo ad elementi di sinistra ed a residui di massoneria. Quanto a Noi dobbiamo anzi ricordare (e Ci affrettiamo a farlo), che non mancarono al Nostro personale indirizzo parole molto, anzi troppo cortesi, accolte da non meno cortesi applausi. Siamo sempre sensibili e grati a tutte le cortesie; ma non Ci piacciono se non quelle che più della Nostra persona hanno per oggetto la divina Istituzione, alla quale il Signore pur tanto indegni Ci ha posto a capo, e quanto le appartiene. Ma qui è dove la Nostra aspettativa è stata più duramente delusa. Diciamo aspettativa delusa, perché alle migliori aspettative Ci avevano dischiuso l’animo le lunghe per quanto non sempre facili trattative, e men che tutto ci aspettavamo espressioni ereticali e peggio che ereticali sulla essenza stessa del Cristianesimo e del Cattolicismo. Si è cercato di rimediare: non ci sembra con successo. Distinguere (come sembra accennarsi a fare) fra affermazione storica e affermazione dottrinale sarebbe «in casu» del peggiore e del più condannevole modernismo; il mandato divino alle genti universe è anteriore alla chiamata di S. Paolo; anteriore a questa il mandato di S. Pietro ai Gentili; l’universalità si riscontra già di diritto e di fatto agli inizi primi della Chiesa e della predicazione apostolica; questa per opera degli apostoli e degli uomini apostolici è ben presto più vasta dell’Impero romano, che, come è noto, non era di gran lunga tutto il mondo conosciuto; se si voleva soltanto ricordare l’utilità provvidenzialmente preparata alla diffusione e organizzazione della Chiesa nella organizzazione dell’Impero romano bastava ricordare Dante e Leone Magno, due grandi italiani, che in poche e magnifiche parole dissero e scolpirono la sostanza di quanto poi innumeri altri ridissero, con più o meno abbondante erudizione, mescolata spesso di inesattezze e di errori, massime per subìti influssi protestantici e modernistici. Contentandosi di quei due si sarebbe anche evitato di citare ed allegare un libro che dal 1912 sta nell’indice dei libri proibiti (Histoire de l’Eglise ancienne). Dire, quasi a giustificazione, che da qualche tempo il Cattolicesimo italiano non è fecondo e la produzione intellettuale in questa materia è altrove, è lanciare un giudizio troppo sommario per essere vero e giusto, sia per l’onore del Cattolicesimo in Italia, sia per l’onore d’Italia nel Cattolicesimo.
Neanche riusciamo a vedere come fosse opportuno e generoso in un’ora di pacificazione esumare, e con lode, leggi e disposizioni, fatti lontani e vicini, che alla Santa Sede, ai Sommi Pontefici, ai Cattolici d’Italia e del mondo intero non poterono non riuscire dolorosi, come erano offensivi e lesivi; peggio poi presentarli come la preparazione dell’ora presente: quasi possa seriamente dirsi che l’oppressione e la guerra sono preparazioni della giustizia e della pacificazione.
Ricordiamo ed apprezziamo i non pochi luoghi nei quali la sovranità e la indipendenza con i conseguenti diritti sono abbastanza esplicitamente riconosciuti alla Chiesa ed alla Santa Sede; ma anche più numerosi sono i luoghi dove quelle cose sembrano rimettersi in dubbio o non veramente e giustamente interpretarsi.
Anche nel Concordato sono in presenza, se non due Stati, certissimamente due sovranità pienamente tali, cioè pienamente perfette, ciascuna nel suo ordine, ordine necessariamente determinato dal rispettivo fine, dove è appena d’uopo soggiungere che la oggettiva dignità dei fini, determina non meno oggettivamente e necessariamente l’assoluta superiorità della Chiesa.
Che la Santa Sede è organo supremo della Chiesa cattolica universale e quindi è legittimo rappresentante della Organizzazione della Chiesa in Italia, non si può dire se non come direbbesi che il capo è l’organo supremo del corpo umano, e che il potere centrale e sovrano di un paese è il rappresentante legittimo di ciascuna provincia del paese stesso. È sempre il Sommo Pontefice che interviene e che tratta nella pienezza della sovranità della Chiesa cattolica che Egli, esattamente parlando, non rappresenta, ma impersona ed esercita per diretto mandato divino. Non è dunque l’organizzazione cattolica in Italia che si sottopone alla sovranità dello Stato, sia pure con una condizione di particolare favore, ma è il Sommo Pontefice, la suprema e sovrana Autorità della Chiesa, che dispone quello che giudica potersi e doversi fare per la maggior gloria di Dio e per il maggior bene delle anime, e nel peggiore dei casi (che di gran lunga non è il Nostro) per la minore offesa di Quello e per il minor male di queste.
Ci spiacciono, e, se la minima animosità od amarezza fosse nell’animo Nostro, diremmo che Ci offendono le non infrequenti espressioni di nessuna rinuncia, di nessuna concessione dello Stato alla Chiesa, di non perduto controllo, di conservati mezzi di vigilanza su di essa, sul clero secolare e regolare, quasi si trattasse di gente sospetta, a dir poco; quasi la Chiesa avesse mai tentata una vera e propria usurpazione o spoliazione a danno dello Stato, mentre è così storicamente e notoriamente vero il contrario, in Italia e fuori; quasi la Chiesa avesse mai chiesto allo Stato la rinuncia a diritto ed autorità che veramente gli competa, mentre è dell’uno e dell’altra la sostenitrice riconosciuta, massime nei momenti critici e difficili; mentre la Chiesa non ha mai chiesto, né ora chiede allo Stato, se non il diritto alla giusta ed ordinata cooperazione al bene comune secondo la giustizia e l’ordine dei fini.
Culti «tollerati, permessi, ammessi»: non saremo Noi a fare questione di parole. La questione viene del resto non inelegantemente risolta distinguendo fra testo statutario e testo puramente legislativo: quello per se stesso più teorico e dottrinale, e dove sta meglio «tollerati»; questo inteso alla pratica e dove può stare pure «permessi o ammessi», purché ci si intenda lealmente: purché sia e rimanga chiaramente e lealmente inteso che la Religione cattolica, è, e sol’essa, secondo lo statuto ed i Trattati, la Religione dello Stato con le logiche e giuridiche conseguenze di una tale situazione di diritto costitutivo, segnatamente in ordine alla propaganda; purché non meno chiaramente e lealmente rimanga inteso che il Culto cattolico non è puramente e semplicemente un culto permesso ed ammesso, ma è quello che la lettera e lo spirito del Trattato e del Concordato lo vogliono.
Più delicata questione si presenta quando con tanta insistenza si parla della non menomata «libertà di coscienza» e della «piena libertà di discussione».
Non è ammissibile che siasi intesa libertà assoluta di discussione, comprese cioè quelle forme di discussione, che possono facilmente ingannare la buona fede di uditori poco illuminati, e che facilmente diventano dissimulate forme di una propaganda, non meno facilmente dannosa alla Religione dello Stato e, per ciò stesso, anche allo Stato e proprio in quello che ha di più sacro la tradizione del popolo italiano e di più essenziale la sua unità.
Anche meno ammissibile Ci sembra che si sia inteso assicurare incolume, intatta, «assoluta libertà di coscienza». Tanto varrebbe dire che la creatura non è soggetta al Creatore; tanto varrebbe legittimare ogni formazione o piuttosto deformazione della coscienza, anche le più criminose e socialmente disastrose. Se si vuol dire che la coscienza sfugge ai poteri dello Stato, se si intende riconoscere, come si riconosce, che, in fatto di coscienza, competente è la Chiesa, ed essa sola in forza del mandato divino, viene con ciò stesso riconosciuto che in Stato cattolico, libertà di coscienza e di discussione devono intendersi e praticarsi secondo la dottrina e la legge cattolica. Deve anche per logica necessità essere riconosciuto che il pieno e perfetto mandato educativo non spetta allo Stato, ma alla Chiesa, e che lo Stato non può impedirle né menomarle l’esercizio e l’adempimento di tale mandato, e neanche ridurlo al tassativo insegnamento delle verità religiose.
Nessun danno può venire da ciò ai veri e propri diritti o, meglio detto, doveri dello Stato in ordine alla educazione dei cittadini, salvi sempre, s’intende, i diritti della famiglia.
Lo Stato non ha nulla a temere dalla educazione impartita dalla Chiesa e sotto le sue direttive; è questa educazione che ha preparata la civiltà moderna in quanto essa ha di veramente buono, in quanto essa è di meglio e di più elevato.
La famiglia si è subito accorta che è così, e dai primi giorni del Cristianesimo fino ai giorni nostri, padri e madri, anche se poco o nulla credenti, mandano e portano a milioni i loro figli agli istituti educativi fondati e diretti dalla Chiesa.
Meno ancora, se possibile, che lo Stato, hanno a temere la scienza, il metodo scientifico, la ricerca scientifica da ulteriori e superiori sviluppi della istruzione religiosa.
Gli Istituti cattolici, a qualunque grado appartengono dell’insegnamento e della scienza, non hanno bisogno di apologie. Il favore che godono, le lodi che raccolgono, le produzioni scientifiche che promuovono e moltiplicano, e più che tutto i soggetti pienamente e squisitamente preparati che danno alla magistratura, alle professioni, all’insegnamento, alla vita in tutte le sue esplicazioni, depongono più che sufficientemente in loro favore. Ma non possiamo mettere tra le lodi riportate e molto meno tra le lodi meritate, quelle che sembrano tributarsi alla invero a Noi carissima Università Cattolica di Milano ed ai suoi professori, per studi e volumi aventi per oggetto la personalità storica e la dottrina del Kant ed altre aliene dalla buona filosofia scolastica e dalla dottrina cattolica, quasi che sia effetto e segno di avvicinamento a quelle dottrine e non piuttosto di scrupolosa coscienza di magistero, che non consente combattere ciò che bene non si conosce, ed ineluttabile necessità di imposti programmi. Necessità questa che basta e deve bastare a spiegare e far giustificare l’ammissione (non senza le possibili cautele) nelle raccolte scolastiche dei Nostri buoni e della educazione cristiana tanto benemeriti Salesiani, di taluni autori e testi, che il Beato don Bosco, così profondo conoscitore di uomini e di cose, così eminente apostolo della cultura e classica e professionale e sopratutto della sana educazione, non avrebbe certamente annoverati fra quelli adatti al raggiungimento di questi altissimi scopi, massime in un paese ed in un popolo come l’Italiano, che egli conosceva così bene. A Noi, per quella qualche esperienza personale, che abbiamo fatto di insegnamento e di libri, torna spesso alla mente il pensiero ed il timore che si venga preparando ai Nostri cari giovani il danno già segnalato da S. Agostino: «necessaria non norunt, quia superflua didicerunt».
«Stato cattolico», si dice e si ripete, ma «Stato fascista»; ne prendiamo atto senza speciali difficoltà, anzi volentieri, giacché ciò vuole indubbiamente dire che lo Stato fascista, tanto nell’ordine delle idee e delle dottrine quanto nell’ordine della pratica azione, nulla vuol ammettere che non s’accordi con la dottrina e con la pratica cattolica; senza di che lo Stato cattolico non sarebbe né potrebbe essere.
Dobbiamo infine rilevare alcune espressioni non pienamente conformi o addirittura in contraddizione con le relative convenute espressioni del Concordato.
Si dice riservato allo Stato il «nulla osta preventivo», per le nomine ecclesiastiche: il Concordato non usa mai, neppure una sola volta, una tale espressione; in cose tanto importanti e delicate anche le formule meritano ed esigono ogni attenzione ed esattezza. Si dice pure che lo Stato «conferisce agli enti ecclesiastici la personalità giuridica»; il Concordato parla sempre di riconoscimento, mai di conferimento; siamo molto sensibili (e lo abbiamo anche per indubbi segni mostrato anche nel corso delle trattative) a differenze di linguaggio in tali sedi ed in tali materie.
In materia di matrimonio il Concordato procura alla famiglia, al popolo italiano, al paese ancora più che alla Chiesa un beneficio così grande che per esso solo avremmo volentieri sacrificato la vita stessa. E bene si è detto «che non vi è dubbio che moralmente e di fronte alla coscienza religiosa il cattolico osservante dovrà celebrare il matrimonio canonico». Ma non altrettanto bene si è aggiunto che «giuridicamente nessuno può costringervelo». La Chiesa, società perfetta nell’ordine suo, lo può e lo deve, coi mezzi che le appartengono; e lo farà, lo fa fino da ora, dichiarando fuori della comunione dei fedeli quelli dei suoi membri, che volessero negligere o preterire il matrimonio religioso preferendo il solo civile.
Si è ripetutamente negata la retroattività dell’articolo quinto del Concordato. Se è questione della parola, consentiamo facilmente che la parola stessa nello indicato articolo non si legge; ma per la sostanza di vera ed effettiva forza retroattiva stanno lo spirito e la lettera dell’articolo, stanno le relative e documentate discussioni nel corso delle trattative.
Molte belle e buone cose furono dette in ordine al carattere sacro della Città di Roma, la città episcopale del Successore di S. Pietro, Vicario di Cristo, Capo e Centro dell’unità cattolica, e grande non meno ne è il Nostro compiacimento e la Nostra riconoscenza.
Con tanto più penosa meraviglia vedemmo affacciarsi l’idea che certe vere ed innegabili offese a quel sacro carattere potessero tollerarsi in nome della libertà di coscienza o d’una compassione affatto fuor di luogo! Di quale libertà di coscienza si parla? dove non si arriverebbe per tali vie?
Alla grave domanda: «durerà la pace»? fu risposto fra gli applausi: «la pace durerà». Risposta ed applausi dimostrano quale e quanto sia il desiderio di tutti e, come è naturale pensare, di tutti il proposito di cooperare all’adempimento di così nobile e santo desiderio.
Nella motivazione e dichiarazione di quella risposta vi sono affermazioni che possiamo più o meno condividere, almeno nella sostanza: ve ne sono altre che condividere non possiamo. È fra queste quel quasi accomunare massoni e clericali, accomunamento che fa capo alla distinzione anzi opposizione fra clericali e cattolici; un vieto ed ingeneroso sofisma, che neanche i più vivi applausi possono riabilitare.
Anche meno possiamo condividere il cenno che sembra voler dire o lasciar credere che la sorte dei Protocolli Lateranensi possa, nell’avvenire, non essere la medesima per tutti e due. Pienamente d’accordo, se si vuol dire che qualche particolare divergenza e dissenso in tanta varietà di cose quante il Concordato contiene e tocca, altrettanto è inevitabile che rimediabile e componibile; teniamo però a ricordare e dichiarare che secondo i patti sottoscritti il Trattato non è il solo che non può più essere oggetto di discussione: o per spiegarci meglio, che Trattato e Concordato, secondo la lettera e lo spirito loro, come anche secondo le orali e scritte esplicite intelligenze, sono l’uno complemento necessario dell’altro e l’uno dall’altro inseparabile ed inscindibile.
Ne viene che «simul stabunt» oppure «simul cadent», anche se dovesse per conseguenza cadere la «Città del Vaticano» col relativo Stato. Per parte Nostra, col divino aiuto «impavidum ferient ruinae». Diciamo così, non perché Ci abbia abbandonati o sia mai per abbandonarCi quel tanto di giusto e ragionevole ottimismo che è necessario alla vita, ma per dire che siamo tranquillamente fin d’ora rassegnati e pronti a tutto quello che la divina Provvidenza sia per volere o permettere. Questa disposizione d’animo, doverosa per ogni creatura, lo è tanto più per Noi, quanto più larga e luminosa è l’esperienza che Noi abbiamo fatto del benefico intervento e della continua assistenza della Provvidenza divina, segnatamente in questi ultimi mesi ed eventi.
Ma la stessa disposizione d’animo non ci impedisce di dire, Noi pure, che la pace durerà, anzi ce lo fa dire con più certa fiducia. E questo per due motivi: il primo è che dopo tutto, e nonostante, serbiamo fede nella lealtà e buona volontà degli uomini; il secondo è che fede serbiamo, e molto più, nell’aiuto di Dio, da Noi e per Noi continuamente invocato. Aggiungiamo volentieri questi due motivi a quelli esposti nel Senato, perché da una parte non v’è difficoltà, che, una volta intesi nelle massime, non si possa con buona e leale volontà superare; dall’altra senza l’aiuto di Dio «in vanum laborant qui aedificant domum», anche se vi lavorano a lungo e con paziente e meticolosa diligenza, come s’è fatto per le nostre Convenzioni.
È certamente istruttiva ed ammonitiva a questo proposito la considerazione che, nonostante tutto quel lavoro, ecco che è bastato così poco tempo, perché si dovesse lamentare col Profeta: «mutatus est color optimus» ed una interruzione tanto ingrata e penosa subisse in tutta Italia ed in tutto il mondo la schietta gioia di tutti i buoni cattolici e di tutti i buoni cittadini, non senza soddisfazione, troppo facile a vedersi, degli altri. È con questa fiducia nella cooperazione degli uomini e molto più nell’aiuto di Dio, che, senza aver potuto dire tutto quello che avremmo voluto e forse dovuto, ma pur sembrandoCi di non aver omesso le cose principali e più importanti, poniamo a fine questa Nostra, di cuore benedicendo.
Nella Solennità del Corpus Domini, 30 maggio 1929.
PIUS PP. XI
*A.A.S. 21 (1929) p.297-306.
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