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COMMISSIONE TEOLOGICA INTERNAZIONALE

 

TEMI SCELTI D’ECCLESIOLOGIA
IN OCCASIONE DEL XX ANNIVERSARIO
DELLA CHIUSURA DEL CONCILIO VATICANO II
*

(1984)

 

Preambolo

Molto tempo prima che il Papa Giovanni Paolo II annunziasse il Sinodo straordinario a 20 anni dalla conclusione del Vaticano II, la Commissione Teologica Internazionale aveva guardato a questa scadenza come a un impegno per il proprio lavoro. Essa si era decisa a rileggere e a ripensare il testo fondamentale del Concilio — la Costituzione sulla Chiesa — dall’angolo visuale dell’ampio tempo trascorso. Era ben consapevole dei limiti delle proprie possibilità: i documenti della Commissione risultano dalle discussioni di quasi trenta studiosi di ogni parte del mondo, che rappresentano contemporaneamente diverse discipline teologiche e diversi metodi di pensiero. Le dichiarazioni comuni della Commissione richiedono un lungo processo di gestazione collettiva e si devono perciò necessariamente ridurre sia nella loro estensione sia nella loro tematica.

Poteva, dunque, succedere anche in questo caso che non si riuscisse ad attingere, esaurendola, e a rendere presente nel commento tutta la ricchezza teologica e spirituale del grande testo conciliare. Così abbiamo soltanto enucleato alcuni temi, che nel dibattito postconciliare hanno provocato nuove questioni e richiedono chiarimenti o anche completamenti e approfondimenti. Tale forse il problema se la Chiesa possa veramente richiamarsi alla volontà istitutrice di Gesù oppure se sia in realtà solo prodotto di uno sviluppo sociologico da lui non previsto: un problema da lungo tempo discusso in ambito non cattolico, ma soltanto dopo il Concilio introdotto nella teologia cattolica tramite l’appropriazione spesso unilaterale e la scottante incisività delle ipotesi sul Gesù storico. Questo tema doveva di conseguenza stare all’inizio delle nostre riflessioni. Il concetto di « popolo di Dio », dal Concilio fatto risaltare sì nuovamente, ma fermamente inserito nell’intera immagine della Chiesa del Nuovo Testamento e dei Padri, è diventato nel frattempo una di quelle parole a effetto, che vanno in giro con un contenuto sovente molto esagerato: un concetto quindi che aveva bisogno di essere chiarito. Il problema delle relazioni tra la Chiesa universale e le Chiese particolari, ripreso dal Concilio nella prospettiva di un’ecclesiologia di comunione, ha suscitato nell’uso pratico problemi più vasti. Il problema dell’inculturazione è divenuto più urgente e più concreto, e altri problemi anche di più.

La Commissione Teologica Internazionale ha ricavato dalla massa di tali problemi il testo, che noi adesso pubblichiamo. Dinanzi a quest’ultima redazione difficilmente si riesce a immaginare la somma immensa di lavoro scientifico di dettaglio, che a quella è sopravanzato ed essa si tira dietro. Non si tratta poi di proporre ricerche scientifiche sui punti particolari, ma di presentare la comune conoscenza, che nuovamente chiarisce e porta avanti le linee fondamentali. In questo senso, il documento della Commissione Teologica Internazionale può costituire, secondo la mia convinzione, alla vigilia del Sinodo, un prezioso sussidio orientativo per riappropriarsi dell’eredità del Concilio e svilupparla in modo adeguato. Auguro, dunque, al testo una buona accoglienza e una larga diffusione.

Roma, 8 ottobre 1985

JOSEPH Card. RATZINGER
Presidente della Commissione Teologica Internazionale

 

Nota preliminare

Il testo di questa relazione conclusiva, secondo gli statuti e la prassi della Commissione Teologica Internazionale, è frutto dell’elaborazione di vari studi, in particolare di due specifiche riunioni della sottocommissione (a Parigi e a Friburgo) e delle discussioni della Sessione plenaria dell’ottobre 1985.

Presidente di questa sottocommissione De Ecclesia e redattore dell’ultima stesura è stato il Rev.mo Mons. Pierre Eyt, rettore dell’Institut Catholique di Parigi. A diversi livelli, titoli e gradi hanno prestato la loro collaborazione i membri della sottocommissione e i consiglieri del gruppo di lavoro: le Ecc.ze Mons. Karl Lehmann, Mons. Jorge Medina-Estevez, Mons. Carlos José Boaventura Kloppenburg; i Rev.mi Proff. e Dott. Catalino Arévalo, S.I., Giuseppe Colombo, Hans Urs von Balthasar, Hachem Elie Khalifé, OLM, Michaël Ledwith, Heinz Schürmann, Bernard Sesboüé, S.I., John Thornhill, SM, Christophe von Schönborn, OP.

Questa relazione sintetica, nella sua forma attuale, è stata approvata a maggioranza assoluta dai membri della Commissione Teologica Internazionale il 2 ottobre 1985, secondo le norme della Commissione Teologica Internazionale e del Codice di Diritto Canonico (can. 119, § 2). Tale votazione è stata confermata dall’Em.mo Presidente, Card. Joseph Ratzinger, il 4 ottobre 1985. Con paterna premura il Papa Giovanni Paolo II f.r. il 5 ottobre dichiarò che il testo era approvato e andava quanto prima pubblicato.

Si redige questa relazione a norma dello Statuto (V, § 2) della Commissione Teologica Internazionale a opera del Segretario Generale, cui spetta di « divulgare gli scritti della Commissione ».

Roma, 8 ottobre 1985

Philippe Delhaye, Prot. Ap.
Segretario generale della Commissione Teologica Internazionale

 

Introduzione

Nel presente documento la Commissione Teologica Internazionale esamina alcuni grandi temi della Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen Gentium.

In occasione del XX anniversario della conclusione del Concilio Vaticano II è parso utile procedere sia allo studio diretto di alcuni testi della Costituzione, sia all’analisi di alcuni problemi ecclesiologici, che dopo il Concilio sono stati particolarmente esasperati.

Così, argomento degli studi nel presente rapporto sono innanzitutto i capitoli I, II, III e VII della Lumen Gentium.

Ci è sembrato importante ritornare su alcune nozioni fondamentali della Costituzione perché, se si sono rivelate particolarmente feconde nella vita e nella teologia della Chiesa per quella aggiornamento » auspicato da Giovanni XXIII e da Paolo VI, talvolta esse sono cadute nell’oblio o sono state distorte al punto da perdere il loro significato originale.

Si è reso necessario inoltre esaminare altri problemi a prima vista non così evidenti nella Costituzione, ma che hanno assunto in seguito notevole rilevanza, come, per esempio, l’inculturazione del Vangelo e della Chiesa o la fondazione della Chiesa a opera di Cristo.

Infine, pur non ritenendolo in alcun modo un documento di pari natura e valore di una Costituzione conciliare, abbiamo fatto frequenti riferimenti al Codice di Diritto Canonico pubblicato nel 1983, per evidenziare nei temi in discussione la reciproca convergenza ed ermeneutica dei due importanti documenti della Chiesa. Poiché, infine, si avvicina il II Sinodo straordinario (24 novembre 1985), possa il nostro lavoro essere di aiuto ai Padri sinodali nel loro grave compito.

Roma, 7 ottobre 1985

 

1. LA FONDAZIONE DELLA CHIESA A OPERA DI GESÙ CRISTO

1.1. Stato della questione

È stata sempre persuasione della Chiesa non solo che Gesù Cristo è il fondamento della Chiesa (cf. DS 774), ma che egli stesso ha voluto fondare una Chiesa e che di fatto l’ha fondata. La Chiesa è nata dalla libera decisione di Gesù (DS 3302 ss.) essa deve la propria esistenza al dono che Cristo ha fatto della sua vita sulla croce (DS 539 e 575). Per tali ragioni, il Concilio Vaticano II chiama Gesù Cristo fondatore della Chiesa (cf. Lumen Gentium, n. 5).

Tuttavia certi esponenti della moderna critica storica dei Vangeli sono giunti talora a sostenere la tesi secondo cui Gesù non ha, di fatto, fondato la Chiesa e che, a motivo della priorità concessa all’annuncio del Regno di Dio, egli non ha neppure voluto istituirla. Questo modo di vedere ha avuto come conseguenza di dissociare la fondazione della Chiesa dal Gesù storico e di rinunciare persino ai termini « fondazione » o « istituzione », privando d’ogni importanza gli atti che vi si riferivano. La nascita della Chiesa fu quindi considerata — così si preferisce dire oggi — come un avvenimento postpasquale, avvenimento che venne sempre più interpretato come puramente storico e/o sociologico.

Tale discordanza tra la fede della Chiesa — come sopra accennato — e certe concezioni abusivamente attribuite alla moderna critica storica ha creato non pochi problemi. Per affrontarli e risolverli occorrerà, sempre rimanendo nel campo della critica e servendosi dei suoi metodi, ricercare una nuova maniera di giustificare e confermare la fede della Chiesa.

1.2. Le diverse accezioni del termine « Ekklesia »

« Chiesa » (Ekklesia) è un termine teologico molto denso di significati sin dall’inizio della storia della Rivelazione quale ci viene proposta dal Nuovo Testamento. Ekklesia (Qahāl) deriva indubbiamente dall’idea veterotestamentaria di riunione del « popolo di Dio », sia tramite la versione dei Settanta, sia tramite il giudaismo apocalittico. Benché rifiutato da Israele, Gesù non ha fondato una sinagoga diversa, né ha creato una comunità separata nel senso di un « santo resto » o di una setta secessionista. Volle invece con­vertire Israele, rivolgendogli un messaggio di salvezza che alla fine verrà trasmesso in modo universale (cf. Mt 8, 5-13; Mc 7, 24-30). Tuttavia non esiste Chiesa nel senso pieno e teologico del termine se non dopo la Pasqua, sotto forma di una comunità composta di giudei e pagani nello Spirito Santo (Rm 9, 24). Il termine Ekklesia, che nei quattro Vangeli appare solo tre volte in Matteo (16, 18; 18, 17), riveste nel Nuovo Testamento tre possibili significati, che, del resto, s’intersecano spesso tra loro: a) l’assemblea della comunità; b) ognuna delle comunità locali; c) la Chiesa universale.

1.3. Nozione di Chiesa e fonte della sua istituzione

Nei Vangeli troviamo due avvenimenti che esprimono in modo particolare la convinzione che la Chiesa è stata fondata da Gesù di Nazaret. Il primo è l’imposizione a San Pietro del suo nome (cf. Mc 3, 16) in seguito alla sua professione di fede messianica e in relazione alla fondazione della Chiesa (cf. Mt 16, 16 ss.). Il secondo è l’istituzione dell’Eucaristia (cf. Mc 14, 22 ss.; Mt 26, 26 ss.; Lc 22, 14; 1 Cor 11, 23). I logia di Gesù riguardanti Pietro come la narrazione dell’ultima Cena assumono un’importanza primaria nell’odierna discussione sul problema dell’istituzione della Chiesa. Oggi però si preferisce non legare più la risposta all’interrogativo sull’istituzione della Chiesa unicamente a questa o a quella parola di Gesù o a un avvenimento particolare della sua vita.

L’intera opera e tutta la vita di Gesù costituiscono in certo qual modo la radice e il fondamento della Chiesa, la quale è come il frutto di tutta la sua esistenza. La fondazione della Chiesa presuppone l’insieme dell’opera salvifica di Gesù nella sua morte e risurrezione, come pure la missione dello Spirito. Per questo nell’agire di Gesù è possibile riconoscere elementi preparatori, sviluppi progressivi e tappe che conducono alla fondazione della Chiesa.

Ciò può già dirsi con esattezza per quello che Gesù ha detto e compiuto prima della Pasqua, in quanto molti elementi fondamentali della Chiesa, che solo dopo la Pasqua si manifesteranno nella loro pienezza, già s’intravedono nella vita terrena di Gesù e vi trovano il loro fondamento.

1.4. Sviluppi e tappe nel processo di fondazione della Chiesa

Gli sviluppi e le tappe ora menzionati, anche se presi singolarmente, ma con maggiore evidenza se considerati nel loro orientamento complessivo, rivelano un’evoluzione dinamica che conduce alla costituzione della Chiesa. Il cristiano vi scopre il disegno salvifico del Padre e l’azione redentrice del Figlio, che vengono comunicati all’uomo mediante lo Spirito Santo (cf. Lumen Gentium, nn. 2-5). Più in particolare, è possibile rilevare e descrivere questi elementi preparatori, questi sviluppi e queste tappe, come segue:

— le promesse veterotestamentarie riguardanti il popolo di Dio, che si presuppongono nella predicazione di Gesù e che conservano tutta la loro forza salvifica;

— l’ampio invito rivolto a tutti gli uomini da parte di Gesù a convertirsi e a credere in Lui;

— la chiamata e l’istituzione dei Dodici quale segno del futuro ristabilimento di tutto Israele;

— l’imposizione del nome a Simon Pietro, il posto precipuo a lui riservato nella cerchia dei discepoli e la sua missione;

— il rifiuto di Gesù da parte d’Israele e la spaccatura tra il popolo giudaico e i discepoli di Gesù;

— il fatto storico che Gesù, nell’istituzione della Cena e nella sua passione e morte, liberamente assunte, persista nel predicare il Regno universale di Dio, che consiste nel dono della vita a tutti gli uomini; 

— la ricostituzione, grazie alla risurrezione del Signore, della comunità infranta tra Gesù e i suoi discepoli e, dopo la Pasqua, l’introduzione di costoro nella vita propriamente ecclesiale;

— l’invio dello Spirito Santo che fa della Chiesa veramente una creatura di Dio (cf. la descrizione della « Pentecoste » negli scritti di San Luca);

— la missione dei discepoli verso i pagani e la costituzione della Chiesa dei pagani;

— la definitiva rottura tra il « vero Israele » e il giudaismo.

Nessuna di tali tappe, se presa da sola, può costituire il tutto, ma unite tutte tra loro mostrano con evidenza che la fondazione della Chiesa va intesa come un processo storico, come il divenire cioè della Chiesa all’interno della storia della Rivelazione. L’eterno Padre « i credenti in Cristo li ha voluti convocare nella santa Chiesa, la quale, già prefigurata sino dal principio del mondo, mirabilmente preparata nella storia del popolo d’Israele e nell’Antica Alleanza e istituita "negli ultimi tempi", è stata manifestata dall’effusione dello Spirito e avrà glorioso compimento alla fine dei secoli » (Lumen Gentium, n. 2). In questo medesimo svolgimento si costituisce la struttura fondamentale permanente e definitiva della Chiesa. La Chiesa terrena è già essa stessa il luogo di riunione del popolo escatologico di Dio, continuando così la missione affidata da Gesù ai suoi discepoli. In tale prospettiva la Chiesa, come dice la costituzione Lumen Gentium, n. 5, « costituisce il germe e l’inizio in terra del Regno di Dio e del Cristo » cf. anche il cap. 10 del presente studio).

1.5. Origine permanente della Chiesa in Gesù Cristo

Fondata da Cristo, la Chiesa non dipende da lui solo nella sua nascita esteriore, storica o sociale; ma proviene dal suo Signore in maniera ancora più intima, essendo lui che la nutre e la edifica incessantemente mediante lo Spirito. La Chiesa nasce, come dice la Scrittura e nel senso inteso dalla tradizione, dal costato ferito di Gesù Cristo (cf. Gv 19, 34; Lumen Gentium, n. 3); è « acquistata dal sangue del Figlio» (At 20, 28; cf. Tt 2, 14); e la sua natura si fonda sul mistero della persona di Gesù Cristo e della sua opera salvifica. La Chiesa, perciò, vive costantemente del suo e per il suo Signore.

Questa struttura fondamentale si manifesta, sotto aspetti diversi, in numerose immagini bibliche; sposa di Cristo, gregge di Cristo, proprietà di Dio, tempio di Dio, popolo di Dio, casa di Dio, podere o campo di Dio (Lumen Gentium, n. 6) e soprattutto corpo di Cristo (Lumen Gentium, n. 7), immagine che San Paolo sviluppa riferendosi più verosimilmente all’Eucaristia, che gli offre nel capitolo XI della 1 Lettera ai Corinti il fondamento più profondo della sua interpretazione. Questa immagine viene ulteriormente sviluppata nella Lettera ai Colossesi e nella Lettera agli Efesini (cf. Col 1, 18; Ef 1, 22; 5, 23): Cristo è il capo del corpo della Chiesa. Il Padre « tutto ha sottomesso ai suoi piedi e lo ha costituito su tutte le cose a capo della Chiesa, la quale è il suo corpo, la pienezza di colui che si realizza interamente in tutte le cose » (Ef 1, 22 s.), affinché sia ricolma di « tutta la pienezza di Dio » (Ef 3, 19).

2. LA CHIESA « NUOVO POPOLO DI DIO »

2.1. Le molteplici designazioni della Chiesa

La Chiesa che riflette la luce di Cristo (Lumen Gentium, n. 1) manifesta a tutti gli uomini « il liberalissimo e arcano disegno di sapienza e di bontà » dell’eterno Padre di salvare tutti gli uomini mediante il Figlio e nello Spirito (Lumen Gentium, n. 2). Per sottolineare nello stesso tempo la presenza nella Chiesa di questa realtà divina trascendente, e l’espressione storica che la manifesta, il Concilio Vaticano II indica la Chiesa con la parola « mistero » (mysterium). Poiché solo Dio conosce il termine proprio che esprimerebbe tutta la realtà della Chiesa, il linguaggio umano sperimenta la sua radicale inadeguatezza a esprimere con pienezza di significato il « mistero » della Chiesa. Esso deve perciò ricorrere a una molteplicità di immagini, di rappresentazioni e di analogie che, d’altro canto, non potranno indicare che aspetti parziali della realtà.

Se il ricorso a tali formulazioni può suggerire la trascendenza del « mistero » rispetto a ogni riduzione concettuale o simbolica, il moltiplicare le espressioni aiuterà inoltre a evitare gli eccessi a cui porterebbe inevitabilmente il ricorso a un’unica formulazione. La Costituzione Lumen Gentium lo suggerisce al n. 6: « Come già nell’Antico Testamento la rivelazione del Regno viene spesso proposta con figure, così anche ora l’intima natura della Chiesa ci si fa conoscere attraverso immagini varie». Nel Nuovo Testamento si contano fino a 24 similitudini per parlare della Chiesa. Anche il Concilio ricorre volutamente a una molteplicità d’immagini per sottolineare il carattere inesauribile del « mistero » della Chiesa. Questa infatti si presenta a colui che la contempla come « realtà imbevuta di divina ‘presenza, e perciò sempre capace di nuove e più profonde esplorazioni » (Paolo VI, Discorso di apertura del secondo periodo del Concilio, 29 settembre 1963, in AAS 55 [1963] 848). Così il Nuovo Testamento ci presenta «immagini desunte sia dalla vita pastorale o agricola, sia dalla costruzione di edifici o anche dalla famiglia e dagli sponsali, e già preparate nei libri dei Profeti » (Lumen Gentium, n. 6).

Certo, non tutte queste immagini possiedono la medesima forza evocatrice e alcune di esse assumono una particolare importanza, come quella del « corpo ». Così, si converrà facilmente che, senza il ricorso al paragone del « corpo di Cristo » applicato alla comunità dei discepoli di Gesù, è assolutamente impossibile cogliere la realtà della Chiesa. Le Lettere di San Paolo, nel loro insieme, sviluppano, infatti, quel paragone in varie direzioni, come nota la stessa Lumen Gentium, al n. 7. Tuttavia, benché ponga in giusto rilievo l’immagine della Chiesa «corpo di Cristo », il Concilio da maggior risalto a quella di « popolo di Dio », non fosse altro che per il fatto che esso da il titolo al capitolo II della stessa Costituzione. Anzi, l’espressione « popolo di Dio » ha finito per designare l’ecclesiologia conciliare.

Di fatto, possiamo asserire che si è preferito « popolo di Dio » alle altre espressioni, cui il Concilio ricorre per esprimere il medesimo mistero, quali « corpo di Cristo » o « tempio dello Spirito Santo ». La scelta è stata motivata da ragioni sia teologiche sia pastorali che, secondo l’opinione dei Padri conciliari, si confermavano a vicenda: così, rispetto ad altre, l’espressione « popolo di Dio » aveva il vantaggio di meglio significare la realtà sacramentale comune, condivisa da tutti i battezzati, sia come dignità della Chiesa, sia come responsabilità nel mondo; inoltre, con una stessa formula si evidenziavano insieme la natura comunitaria e la dimensione storica della Chiesa, secondo il desiderio di molti Padri conciliari.

2.2. « Popolo di Dio »

D’altro canto, l’espressione « popolo di Dio » non è in sé immediatamente chiara al primo esame e, come ogni altra espressione teologica, esige riflessione, approfondimento e chiarimento per evitare false interpretazioni. Già sul piano linguistico, il termine latino populus non sembra adatto a tradurre direttamente il greco laos della Bibbia dei Settanta. Laos è un termine che nei Settanta ha un significato particolare e determinato, cioè non solo religioso ma anche direttamente soteriologico e destinato a trovare il proprio compimento nel Nuovo Testamento.

Ora, la Lumen Gentium presuppone il significato biblico del termine « popolo », e lo riprende infatti con tutti i valori da esso assunti nell’Antico e nel Nuovo Testamento. D’altra parte, il genitivo « di Dio » conferisce la sua forza specifica e definitiva all’espressione « popolo di Dio », collocandola nel suo contesto biblico di apparizione e di sviluppo. Di conseguenza è decisamente da escludersi l’interpretazione in un senso meramente biologico, razziale, culturale, politico o ideologico del termine « popolo ».

Il « popolo di Dio » procede « dall’alto », dal disegno di Dio, cioè dall’elezione, dall’alleanza e dalla missione. Ciò è vero soprattutto se consideriamo che la Lumen Gentium non si limita a proporre la nozione veterotestamentaria di « popolo di Dio », ma la supera parlando del « nuovo popolo di Dio » (n. 9). Questo nuovo popolo di Dio è costituito da quanti credono in Gesù Cristo e sono « rinati », perché battezzati nell’acqua e nello Spirito Santo (Gv 3, 3-6). È dunque lo Spirito Santo che « con la forza del Vangelo fa ringiovanire la Chiesa e continuamente la rinnova » (Lumen Gentium, n. 4).

Così l’espressione « popolo di Dio » riceve il suo specifico significato da un riferimento costitutivo al mistero trinitario rivelato da Gesù Cristo nello Spirito Santo (Lumen Gentium, n. 4). Il nuovo popolo di Dio si presenta come la « comunità di fede, di speranza e di carità » (Lumen Gentium, n. 8), di cui l’Eucaristia è la sorgente (Lumen Gentium, nn. 3 e 7). L’unione intima di ogni fedele col suo Salvatore come pure l’unità dei fedeli tra di loro costituiscono il frutto indivisibile dell’attiva appartenenza alla Chiesa e trasformano l’intera esistenza dei cristiani in « culto spirituale ». La dimensione comunitaria è essenziale alla Chiesa, perché in essa possano essere vissute e condivise fede, speranza e carità, e perché una tale comunione, radicata nel cuore di ogni credente, si realizzi anche su un piano comunitario, obiettivo e istituzionale. Anche la Chiesa è chiamata a vivere, su tale piano sociale, nella memoria e nell’attesa di Gesù Cristo. Suo compito è predicare questa buona novella a tutti gli uomini.

3. LA CHIESA COME « MISTERO » E « SOGGETTO STORICO »

3.1. La Chiesa insieme « mistero » e « soggetto storico »

Secondo l’intima intenzione della costituzione conciliare Lumen Gentium, intenzione non contraddetta dalla riflessione postconciliare, l’espressione « popolo di Dio », adoperata unitamente ad altre denominazioni per indicare la Chiesa, mira a sottolineare il carattere sia di « mistero », sia di « soggetto storico », che in ogni circostanza la Chiesa attualizza e « realizza » in modo indissociabile.

Il carattere di « mistero » designa la Chiesa in quanto procede dalla Trinità, mentre quello di « soggetto storico » le si addice in quanto essa agisce nella storia e contribuisce a orientarla.

Eliminato ogni rischio di dualismo e di giustapposizione, occorre approfondire la correlazione, esistente nella « Chiesa come popolo di Dio », tra l’aspetto del « mistero » e del « soggetto storico ». Infatti è il carattere di mistero che per la Chiesa determina la sua natura di soggetto storico. Correlativamente è il soggetto storico che, da parte sua, esprime la natura del mistero; in altre parole, il popolo di Dio è simultaneamente mistero e soggetto storico; cosicché il mistero costituisce il soggetto storico e il soggetto storico rivela il mistero. Sarebbe dunque puro nominalismo scindere nella « Chiesa-popolo di Dio » l’aspetto di mistero e l’aspetto di soggetto storico.

Il « mistero », applicato alla Chiesa, rinvia alla libera disposizione della sapienza e della bontà del Padre di comunicarsi: comunicazione che si realizza con la missione del Figlio e con l’invio dello Spirito, per la salvezza degli uomini. In quest’azione divina ha origine la creazione come storia degli uomini, poiché questa ha il suo «principio», nel senso più pieno del termine (Gv 1, 1), in Gesù Cristo, il Verbo fatto carne. Questi, esaltato alla destra del Padre, darà ed effonderà lo Spirito Santo, che diventa principio della Chiesa costituendola quale corpo e sposa di Cristo, e ponendola quindi in un rapporto particolare, unico ed esclusivo nei riguardi di Cristo e perciò non estensibile indefinitamente.

Ne consegue anche che il mistero trinitario viene reso presente e attivo nella Chiesa. Infatti, se, da un certo punto di vista, il mistero di Cristo-Capo, inteso come principio universalmente totalizzante del Christus totus, « comprende » e racchiude il mistero della Chiesa, da un altro punto di vista, il mistero di Cristo non s’identifica puramente e semplicemente con quello della Chiesa, alla quale si deve riconoscere un carattere escatologico. La continuità tra Gesù Cristo e la Chiesa non è dunque diretta, ma « mediata » e assicurata dallo Spirito Santo, il quale, in quanto Spirito di Gesù, opera per instaurare nella Chiesa il regno di Gesù Cristo, che si realizza nel ricercare la volontà del Padre.

3.2. La Chiesa come « soggetto storico »

La Chiesa «mistero», in quanto creata dallo Spirito Santo come compimento e pienezza del mistero di Gesù Cristo-Capo — e quindi rivelazione della Trinità —, è propriamente un soggetto storico.

L’intenzione del Vaticano II di sottolineare tale aspetto della Chiesa traspare con evidenza — come abbiamo già riferito — nel ricorso alla categoria di « popolo di Dio ». Questa trova nei suoi antecedenti veterotestamentari una precisa connotazione di soggetto storico dell’alleanza con Dio. Tale caratteristica viene, inoltre, confermata nel compimento neotestamentario della nozione, quando, riferendosi a Cristo, mediante lo Spirito, il « nuovo » popolo di Dio si dilata, acquisendo una dimensione universale. Ora, proprio perché si riferisce a Gesù Cristo e allo Spirito, il nuovo popolo di Dio si costituisce nella sua identità di soggetto storico.

Ciò che caratterizza fondamentalmente questo popolo e che lo distingue da ogni altro popolo è il fatto di vivere ponendo in esercizio la memoria e insieme l’attesa di Gesù Cristo, e quindi l’impegno della missione. Il nuovo popolo di Dio si realizza indubbiamente mediante la libera e responsabile adesione di ogni suo membro, ma anche grazie al sostegno d’una struttura istituzionale costituita a tale fine (parola di Dio e nuova legge, Eucaristia e sacramenti, carismi e ministeri). In ogni modo, memoria e attesa danno una precisa specificazione al popolo di Dio, conferendogli un’identità storica, che con la sua stessa struttura lo preserva in qualsiasi circostanza dalla dispersione e dall’anonimato. Memoria e attesa non possono neppure venire dissociate dalla missione per la quale il popolo di Dio è permanentemente convocato.

Si può infatti asserire che la missione deriva intrinsecamente dalla memoria e dall’attesa di Gesù Cristo nel senso che queste costituiscono il suo fondamento. Il motivo è da ricercarsi nel fatto che il popolo di Dio apprende, mediante la fede e partendo dalla memoria e dall’attesa di Gesù, ciò che gli altri popoli non sanno né mai potranno sapere sul significato dell’esistenza e della storia degli uomini. Questa conoscenza e questa buona novella, il popolo di Dio, in forza della missione ricevuta da Gesù, deve annunciarla a tutti gli uomini (Mt 28, 19).

Diversamente e nonostante la sapienza umana o « greca » (cf. San Paolo) o nonostante ancora il progresso scientifico e tecnico, gli uomini continueranno a rimanere nella schiavitù e nelle tenebre. In quest’ottica, la missione, che costituisce il fine storico del popolo di Dio, provoca un’azione specifica, che nessun’altra azione umana può sostituire, azione insieme critica, stimolatrice e realizzatrice del comportamento degli uomini, nel cuore dei quali ognuno gioca la propria salvezza. Sottovalutare la funzione propria della missione e quindi ridurla non può che aggravare i problemi e i mali del mondo.

3.3. Pienezza e relatività del soggetto storico

D’altro canto, l’insistenza sull’indicazione del popolo di Dio come soggetto storico, e anche il riferimento costitutivo alla memoria e all’attesa di Gesù Cristo, consentirà di richiamare l’attenzione sugli elementi di relatività e d’incompiutezza pertinenti al popolo di Dio. Infatti, « memoria » e « attesa » dicono simultaneamente, da un lato, « identità » e, dall’altro, « differenza ». « Memoria » e « attesa » esprimono « identità » nel senso che il riferimento del nuovo popolo di Dio a Gesù Cristo, mediante lo Spirito, non fa di tale popolo una realtà « altra », indipendente o diversa, ma semplicemente una realtà riempita dalla « memoria » e dall’« attesa » che la uniscono a Gesù Cristo. Sotto quest’aspetto, la realtà del tutto relativa del nuovo popolo di Dio risalta chiaramente, perché esso non può ripiegarsi su se stesso e dipende totalmente da Gesù Cristo. Ne consegue che il nuovo popolo di Dio non ha un’indole propria da far valere, imporre o proporre al mondo, ma può solo proclamare e comunicare la memoria e l’attesa di Gesù Cristo, in cui consiste la sua vita: « Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me » (Gal 2, 20).

Ne consegue pure che « memoria » e « attesa », che denotano la presenza d’un Altro e che per ciò stesso esprimono la « relatività » in rapporto a lui, implicano pure l’« incompiutezza ». Per tale motivo, il nuovo popolo di Dio, si tratti dei suoi membri presi singolarmente o dell’insieme che essi costituiscono, rimane sempre « in cammino » (in via) e in una situazione mai compiuta qui in terra. Il destino di questo popolo è di farsi « memoria » e « attesa » sempre più fedeli e obbedienti. L’autentica posizione del nuovo popolo di Dio non potrebbe quindi mai indulgere a qualche forma di arroganza o senso di superiorità. Anzi, la sua situazione nei riguardi di Cristo deve stimolarlo a dedicarsi umilmente alla conversione. A tutti gli uomini il nuovo popolo di Dio non può proporre più di quanto esige da se stesso. Ciò che infatti esso propone non è ciò che gli apparterrebbe in proprio, ma piuttosto ciò che, senza alcun suo merito anteriore, ha ricevuto da Dio.

3.4. Il nuovo popolo di Dio nella sua esistenza storica

Il nuovo popolo di Dio riceve la sua « consistenza » di popolo dallo Spirito Santo. Secondo le parole dell’apostolo Pietro, ciò che era « non-popolo » non può divenire un « popolo » (cf. 1 Pt 2, 10) se non mediante Colui che lo unisce dall’alto e dall’interno al fine di realizzare l’unione in Dio. Lo Spirito Santo fa vivere il nuovo popolo di Dio nella memoria e nell’attesa di Gesù Cristo e gli conferisce la missione di annunciare la Buona Novella di questa memoria e di quest’attesa a tutti gli uomini. Non si tratta con questa memoria, con quest’attesa e con questa missione d’una realtà che si sovrapporrebbe o si aggiungerebbe a un’esistenza e a delle attività già vissute. A tale proposito i membri del popolo di Dio non costituiscono un gruppo particolare che si differenzierebbe dagli altri gruppi umani sul piano delle attività quotidiane. Le attività dei cristiani non sono diverse dalle attività con cui gli uomini, qualunque essi siano, « umanizzano » il mondo. Per i membri del popolo di Dio, come per tutti gli altri uomini, esistono solo le condizioni ordinarie e comuni della vita umana che tutti, secondo la diversità della loro vocazione, sono chiamati a condividere in solidarietà.

Tuttavia, il fatto di essere membri del popolo di Dio assegna ai cristiani una specifica responsabilità nei confronti del mondo: « Ciò che l’anima è nel corpo, questo siano nel mondo i cristiani » (Lumen Gentium, n. 38; cf. Lettera a Diogneto, 6). Poiché lo Spirito Santo stesso viene chiamato anima della Chiesa (Lumen Gentium, n. 7), i cristiani ricevono in questo stesso Spirito la missione di realizzare nel mondo una presenza tanto vitale quanto quella che Egli stesso compie nella Chiesa. Non si tratta di un’azione tecnica, artistica o sociale, quanto piuttosto di un confronto dell’operare umano in ogni sua forma, con la speranza cristiana, o, per conservare il nostro vocabolario, con le esigenze della memoria e dell’attesa di Gesù Cristo. È « dall’interno », infatti, dei compiti umani che i cristiani, e tra loro più particolarmente i laici, sono chiamati a « lavorare per la santificazione del mondo ». Il loro impegno agirà « come un fermento » quando mediante l’esercizio della loro funzione propria e sotto la guida dello spirito evangelico contribuiranno « a rendere visibile Cristo agli altri, principalmente con la testimonianza della loro vita e col fulgore della fede, della speranza e della carità » (Lumen Gentium, n. 31).

Il nuovo popolo di Dio non si contraddistingue, quindi, per un modo di esistenza o una missione che dovrebbero sostituirsi a un’esistenza e a progetti umani già presenti. Al contrario, la memoria e l’attesa di Gesù Cristo convertiranno o trasformeranno dall’interno il modo d’esistere e i progetti già vissuti in un gruppo di uomini. Si potrebbe affermare al riguardo che la memoria e l’attesa di Gesù Cristo, di cui vive il nuovo popolo di Dio, costituiscono come l’elemento « formale » (nel senso scolastico del termine) che struttura l’esistenza concreta degli uomini. Questa, che è come la « materia » (sempre nel senso scolastico), evidentemente responsabile e libera, riceve la tale o la tal altra determinazione per costituire un modo di vita « secondo lo Spirito Santo ». Tali modi di vita non esistono a priori e non possono essere determinati in anticipo; si manifestano in una multiforme varietà e sono perciò sempre imprevedibili, anche se si possono riferire all’azione costante di un unico Spirito Santo. Ciò che questi vari modi di vita hanno invece in comune e di costante è di esprimere « nelle ordinarie condizioni della vita familiare e sociale, di cui la loro esistenza è come intessuta » (cf. Lumen Gentium, n. 31), le esigenze e le gioie del Vangelo di Cristo.

4. POPOLO DI DIO E INCULTURAZIONE

4.1. Necessità dell’inculturazione

Il popolo di Dio come « mistero » e insieme come « soggetto storico » « è composto di uomini, i quali, riuniti insieme nel Cristo, sono guidati dallo Spirito Santo nel loro pellegrinaggio verso il Regno del Padre e hanno ricevuto un messaggio di salvezza da proporre a tutti. Perciò [la comunità dei cristiani] si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia » (Gaudium et Spes, n. 1). Essendo la missione della Chiesa tra gli uomini « di costituire il regno di Dio », il nuovo popolo di Dio « nulla sottrae al bene temporale di qualsiasi popolo, ma al contrario favorisce e accoglie tutte le risorse, le ricchezze, le consuetudini dei popoli, nella misura in cui sono buone, e accogliendole le purifica, le consolida e le eleva » (Lumen Gentium, n. 13). Il termine generico di « cultura » sembra poter riassumere, come propone la Costituzione pastorale Gaudium et Spes, quest’insieme di dati personali e sociali che contraddistinguono l’uomo permettendogli di assumere e di dominare la sua condizione e il suo destino (Gaudium et Spes, nn. 53-62).

Si tratta quindi per la Chiesa, nella sua missione evangelizzatrice, di « portare la forza del Vangelo nel cuore della cultura e delle culture » (Giovanni Paolo II, Catechesi Tradendae, n. 53). Senza di che, l’uomo non verrebbe realmente raggiunto dal messaggio di salvezza che la Chiesa gli comunica. La riflessione sull’evangelizzazione di fatto prende sempre più viva coscienza di sé man mano che l’umanità progredisce nella conoscenza di se stessa. L’evangelizzazione raggiunge il proprio scopo soltanto quando l’uomo, tanto come persona singola quanto come membro d’una comunità che lo segna in profondità, accetta di ricevere la Parola di Dio e di farla fruttificare nella sua vita. Al punto che Paolo VI ha potuto scrivere nella Evangelii Nuntiandi: « Strati dell’umanità che si trasformano: per la Chiesa non si tratta soltanto di predicare il Vangelo in fasce geografiche sempre più vaste o a popolazioni sempre più estese, ma anche di raggiungere e quasi sconvolgere mediante la forza del Vangelo i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità, che sono in contrasto con la Parola di Dio e col disegno della salvezza ». Infatti, come rileva il Papa nello stesso documento: « La rottura tra Vangelo e cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca » (Evangelii Nuntiandi, nn. 19 e 20).

Per indicare questa prospettiva e quest’azione con le quali il Vangelo può raggiungere il cuore delle culture, si ricorre oggi al termine di « inculturazione ». « Benché sia un neologismo — scrive Giovanni Paolo II —, esso esprime molto bene una delle componenti del grande mistero dell’incarnazione » (Catechesi Tradendae, n. 53; Discorso alla Pontificia Commissione Biblica, 26 aprile 1979; cf. Discorso ai vescovi dello Zaire, 3 maggio 1980; Allocuzione agli intellettuali e artisti coreani, 5 maggio 1984). Giovanni Paolo II sottolinea in Corea la dinamica dell’inculturazione: « Bisogna che la Chiesa assuma tutto nei popoli. Abbiamo di fronte a noi un lungo e importante processo d’inculturazione affinché il Vangelo possa penetrare in profondità l’anima delle culture viventi. Incoraggiare tale processo significa rispondere alle profonde aspirazioni dei popoli e aiutarli a entrare nella sfera della stessa fede ».

Senza pretendere di offrire qui una dottrina completa dell’inculturazione, vorremmo semplicemente ricordarne il fondamento nel mistero di Dio e di Cristo, allo scopo di ricercarne il significato per la missione odierna della Chiesa. L’esigenza d’inculturazione s’impone senza dubbio a tutte le comunità cristiane, ma dobbiamo prestare particolare attenzione alle situazioni vissute dalle Chiese dell’Asia, dell’Africa, dell’Oceania, del Nord e Sud America, che si tratti sia di nuove Chiese sia di cristianità già antiche (cf. Ad Gentes, n. 22).

4.2. Il fondamento dell’inculturazione

Il fondamento dottrinale dell’inculturazione si trova innanzitutto nella diversità e moltitudine degli esseri creati, che proviene dalla volontà di Dio Creatore, desideroso che tale moltitudine diversificata illustri anche di più gli innumerevoli aspetti della sua bontà (cf. San Tommaso, Summa Theol. Ia q. 47, a. 1). Esso si trova ancora di più nel mistero di Cristo stesso: la sua incarnazione, la sua vita, la sua morte e la sua risurrezione.

Infatti, come il Verbo di Dio ha assunto nella propria persona un’umanità concreta e ha vissuto tutte le particolari circostanze della condizione umana in un luogo, in un tempo e in seno a un popolo, così la Chiesa, sull’esempio di Cristo e mediante il dono del suo Spirito, deve incarnarsi in ogni luogo, in ogni tempo e in ogni popolo (cf. At 2, 5-11).

Come Gesù ha annunciato il Vangelo servendosi di tutte le realtà familiari che costituivano la cultura del suo popolo, così la Chiesa non può esimersi dall’assumere per la costruzione del Regno elementi provenienti dalle culture umane.

Gesù diceva: « Convertitevi e credete al Vangelo » (Mc 1, 15); e ha affrontato il mondo peccatore sino alla morte in croce, per rendere gli uomini capaci di questa conversione e di questa fede. Ora, avviene lo stesso sia per le culture sia per le persone: non si ha cioè inculturazione riuscita se non se ne denunciano i limiti, gli errori e il peccato che essa racchiude. Ogni cultura deve accettare il giudizio della croce sulla sua vita e sul suo linguaggio.

Cristo è risuscitato, rivelando pienamente l’uomo a se stesso e comunicandogli i frutti d’una redenzione perfetta. Così, una cultura che si converte al Vangelo trova in esso la sua liberazione e scopre ricchezze nuove che sono insieme doni e promesse di risurrezione.

Nell’evangelizzazione delle culture e nell’inculturazione del Vangelo si produce uno scambio misterioso: da un lato, il Vangelo rivela a ogni cultura e libera in essa la verità suprema dei valori che racchiude; dall’altro, ogni cultura esprime il Vangelo in maniera originale e ne manifesta aspetti nuovi. L’inculturazione è, così, un elemento della ricapitolazione di tutte le cose in Cristo (Ef 1, 10) e della cattolicità della Chiesa (Lumen Gentium, nn. 16 e 17).

4.3. Differenti aspetti dell’inculturazione

L’inculturazione si riverbera fortemente su tutti gli aspetti dell’esistenza di una Chiesa, specialmente sulla sua vita e sul suo linguaggio, come ora evidenzieremo.

— A livello di vita, l’inculturazione consiste nel fatto che le forme e le figure concrete di espressione e di organizzazione dell’istituzione ecclesiale corrispondano meglio possibile ai valori positivi che costituiscono l’identità di una cultura. Consiste pure in una presenza positiva e in un impegno attivo nei confronti dei problemi umani più fondamentali in essa presenti. L’inculturazione non è solo la conservazione delle tradizioni culturali, ma è anche un operare al servizio di tutto l’uomo e di tutti gli uomini; compenetra e trasforma tutte le relazioni; attenta ai valori del passato, guarda anche all’avvenire.

— A livello di linguaggio (inteso in senso antropologico e culturale), l’inculturazione consiste in primo luogo nell’atto di appropriazione del contenuto della fede nelle parole e nelle categorie di pensiero, nei simboli e nei riti d’una determinata cultura. Richiede poi l’elaborazione d’una risposta dottrinale fedele e insieme nuova, costruttiva ma che invita alla conversione, ai nuovi problemi dottrinali ed etici connessi con le aspirazioni e con le negazioni, con i valori e con le devianze di quella cultura.

Anche se le culture sono diverse, la condizione umana è una; perciò la comunicazione tra le culture è non solo possibile ma necessaria. Così, il Vangelo rivolgendosi all’intimo dell’uomo, riveste un valore transculturale e la sua identità deve poter essere riconosciuta da cultura a cultura. Ciò richiede che ogni cultura sia aperta alle altre culture. Va ricordato che «il Vangelo si trasmette da sempre attraverso un dialogo apostolico che è inevitabilmente inserito in un certo dialogo tra culture » (Catechesi Tradendae, n. 53).

Con la sua presenza e il suo impegno nella storia degli uomini, il nuovo popolo di Dio è sempre guidato verso situazioni nuove; deve quindi di continuo impegnarsi ad annunciare il Vangelo nel cuore della cultura e delle culture. Sorgono talora situazioni ed epoche che richiedono un impegno particolare, come è oggi il caso specialmente per l’evangelizzazione dei popoli dell’Asia, dell’Oceania, del Nord e Sud America. Siano esse nuove o antiche, queste Chiese, che possiamo chiamare « non europee », si trovano in una situazione particolare rispetto all’inculturazione. I missionari che hanno portato loro il Vangelo lo hanno trasmesso inevitabilmente con elementi della propria cultura. Non potevano, per definizione, compiere ciò che spettava propriamente ai cristiani che vivevano nelle culture di recente evangelizzate. Come notava Giovanni Paolo II ai vescovi dello Zaire, « l’evangelizzazione comporta tappe e approfondimenti ». Perciò, sembra giunto il tempo in cui molte Chiese non europee, prendendo per la prima volta coscienza della loro peculiare originalità e dei compiti che loro incombono, hanno il dovere di creare a livello della vita e del linguaggio nuove forme di espressione dell’unico Vangelo. Nonostante le difficoltà che incontrano e il tempo che una tale impresa richiede, lo sforzo, che queste comunità compiono in comunione con la Santa Sede e con l’aiuto di tutta la Chiesa, si rivela decisivo per l’avvenire dell’evangelizzazione.

In quest’impegno globale, la promozione della giustizia è indubbiamente solo un elemento, ma un elemento importante e urgente. L’annuncio del Vangelo deve accettare la sfida sia delle ingiustizie locali, sia dell’ingiustizia planetaria. È vero che in questo campo si sono manifestate alcune deviazioni di natura politico-religiosa; ma esse non dovrebbero condurre a sospettare o a dimenticare la necessaria missione di promuovere la giustizia; anzi, mostrano piuttosto quanto sia urgente un discernimento teologico fondato su strumenti d’analisi della massima scientificità possibile, sempre però guidato dalla luce della fede (cf. Gesù Cristo, forza di liberazione. Istruzione su alcuni aspetti della Teologia della liberazione, Congregazione per la Dottrina della Fede, 1984). D’altra parte, siccome le ingiustizie sono troppo spesso connesse con l’ingiustizia planetaria sulla quale Paolo VI aveva con forza richiamato l’attenzione mondiale nella Populorum Progressio, la promozione della giustizia riguarda la Chiesa cattolica diffusa in tutto il mondo, richiede cioè l’aiuto vicendevole di tutte le Chiese particolari e l’aiuto della Sede Apostolica Romana.

5. CHIESE PARTICOLARI E CHIESA UNIVERSALE

5.1. Distinzioni necessarie

Rifacendoci all’uso più comune del Vaticano II, ripreso dal nuovo Codice di diritto canonico, in questo studio adottiamo la seguente distinzione: « La Chiesa particolare » (Ecclesia peculiaris aut particularis) è in primo luogo la diocesi (cf. can. 368) « vincolata al suo pastore e da lui riunita per mezzo del Vangelo e dell’Eucaristia nello Spirito Santo» (Christus Dominus, n. 11). Il criterio, qui, è essenzialmente teologico. Secondo un certo uso, d’altronde non accettato dal Codice, « Chiesa locale » (Ecclesia localis) può indicare un insieme più o meno omogeneo di Chiese particolari, la cui costituzione risulta per lo più da elementi geografici, storici, linguistici o culturali. Sotto l’impulso della divina Provvidenza, queste chiese hanno sviluppato, come gli « antichi patriarcati », o sviluppano ancor oggi, un proprio patrimonio teologico, giuridico, liturgico e spirituale. Qui, il criterio è invece di priorità socioculturale.

Distinguiamo anche la struttura essenziale della Chiesa dalla sua figura concreta e mutevole (o la sua organizzazione). La struttura essenziale comprende tutto ciò che nella Chiesa deriva dalla sua istituzione divina (iure divino), mediante la fondazione operata da Cristo e il dono dello Spirito Santo. Benché non possa essere che unica e destinata a perdurare sempre, questa struttura essenziale e permanente riveste sempre una figura concreta e un’organizzane (iure ecclesiastico), frutti di elementi contingenti ed evolutivi, storici, culturali, geografici, politici... Perciò la figura concreta della Chiesa è normalmente soggetta a evoluzione ed è quindi il luogo ove si manifestano legittime, anzi necessarie, differenze. La diversità delle organizzazioni rimanda tuttavia all’unità della struttura.

La distinzione tra la struttura essenziale e la figura concreta (od organizzazione) non significa che tra di esse vi sia una separazione. La struttura essenziale è sempre implicata in una figura concreta, senza la quale non potrebbe sussistere. Per questo motivo la figura concreta non è neutra nei confronti della struttura essenziale che deve potere esprimere con fedeltà ed efficacia, in una determinata situazione. Su alcuni punti, specificare con certezza ciò che dipende dalla struttura e dalla forma (o organizzazione) può richiedere un delicato discernimento.

La Chiesa particolare, aderendo al suo vescovo e pastore, appartiene in quanto tale alla struttura essenziale della Chiesa. Tuttavia, in epoche diverse, questa stessa struttura assume forme che possono variare. Il modo di funzionamento in seno a ogni Chiesa particolare, come pure i vari raggruppamenti di più Chiese particolari, appartengono alla forma concreta e all’organizzazione. È, naturalmente, il caso delle « Chiese locali » localizzate dalla loro origine e dalle loro tradizioni.

5.2. Unità e diversità

Premesse queste distinzioni, si deve sottolineare che per la teologia cattolica dell’unità e della diversità della Chiesa s’impone un riferimento originario, quello della Trinità differenziata delle persone nell’Unità stessa di Dio. La distinzione reale delle persone non divide affatto la natura. La teologia della Trinità ci mostra che le vere differenze possono sussistere unicamente nell’Unità; invece, ciò che non possiede unità non ammette la differenza (cf. J. A. Moehler). In modo analogo possiamo applicare queste riflessioni alla teologia della Chiesa.

La Chiesa della Trinità (cf. Lumen Gentium, n. 4), di cui molteplice è la diversità, riceve la propria unità dal dono dello Spirito Santo, egli stesso vincolo d’unità tra il Padre e il Figlio.

L’universale « cattolico » va dunque distinto dalle false figure dell’universale connesse sia con le dottrine totalitarie sia con i sistemi materialistici, sia con le false ideologie della scienza e della tecnica, sia ancora con le strategie imperialiste di qualsiasi origine.

Non lo si può neppure confondere con un’uniformità che distruggerebbe le legittime particolarità, e neanche lo si potrebbe assimilare a una rivendicazione sistematica di singolarità che minaccerebbe l’unità essenziale.

Il Codice di Diritto Canonico (can. 368) ha ripreso la formulazione della Lumen Gentium (n. 23), secondo la quale « la sola e unica Chiesa Cattolica sussiste nelle Chiese particolari e a partire da esse ». Tra le Chiese particolari e la Chiesa universale esiste quindi una reciproca interiorità, una specie di osmosi. La Chiesa universale, infatti, trova la sua esistenza concreta in ogni Chiesa in cui è presente; mentre ogni Chiesa particolare è « formata a immagine della Chiesa universale» (Lumen Gentium, n. 23) con la quale vive in intensa comunione.

5.3. Il servizio dell’unità

Nel cuore del reticolo universale di Chiese particolari, che com­pongono l’unica Chiesa di Dio, troviamo un centro e un punto di riferimento: la Chiesa particolare di Roma. Essa è la Chiesa con cui — come scrive Sant’Ireneo — « deve necessariamente accordarsi l’intera Chiesa », e che presiede alla carità e alla comunione universale (cf. Sant’Ignazio d’Antiochia, Ep. ad Rom., prooemium). Cristo Gesù, Pastore eterno, infatti, « affinché lo stesso Episcopato fosse uno e indiviso, prepose agli altri apostoli il beato Pietro e in lui stabilì il principio e il fondamento perpetuo e visibile dell’unità della fede e della comunione» (Lumen Gentium, n. 18). Successore dell’apostolo Pietro, il Pontefice romano è il vicario di Cristo e il capo visibile di tutta la Chiesa sulla quale esercita « la potestà piena, suprema e universale » (Lumen Gentium, n. 22).

La Costituzione non intende dissociare la dottrina, che essa ripropone relativamente al primato e al magistero del Pontefice romano, dalla « dottrina concernente i vescovi successori degli Apostoli » (cf. Lumen Gentium, n. 18). Il collegio dei vescovi, che succede a quello degli Apostoli, manifesta insieme la varietà, l’universalità e l’unità del popolo di Dio. Ora « i vescovi, successori degli Apostoli, reggono, col successore di Pietro, vicario di Cristo e capo visibile di tutta la Chiesa, la casa del Dio vivente » (Lumen Gentium, n. 18), cioè la Chiesa. Ne segue che il Collegio episcopale « è pure, insieme con il suo capo il romano Pontefice, e mai senza di esso, soggetto di suprema e piena potestà su tutta la Chiesa » (Lumen Gentium, n. 22). Ogni vescovo, nella propria Chiesa parti­colare, « è solidale con tutto il corpo episcopale cui è stato affidato, a imitazione del collegio apostolico, il compito di vigilare sull’integrità della fede e sull’unità della Chiesa » (Paolo VI, Esortazione apostolica «Quinque iam anni», 8 dicembre 1970, alla fine del n. II). Perciò è « tenuto ad avere per tutta la Chiesa una sollecitudine che, sebbene non esercitata con atto di giurisdizione, sommamente contribuisce tuttavia al bene della Chiesa universale » (Lumen Gentium, n. 23); così pure, egli governerà la propria diocesi nella persuasione che questa « è formata a immagine della Chiesa universale » (Lumen Gentium, n. 23).

Il « senso collegiale » (affectus collegialis) che il Concilio ha ravvivato nei vescovi si è concretamente tradotto, in seguito, mediante l’importante funzione svolta dalle Conferenze Episcopali (cf. Lumen Gentium, n. 23). In seno a tali istanze, i vescovi di una nazione o di un territorio esercitano « insieme » o « congiuntamente » alcune loro responsabilità apostoliche e pastorali (cf. Christus Dominus, n. 38 e Codice di Diritto Canonico, can. 447).

Si può anche sottolineare che le Conferenze Episcopali sviluppano spesso tra loro relazioni di vicinanza, di collaborazione e di solidarietà, soprattutto a livello continentale. Vediamo, così, assemblee episcopali continentali riunire delegati delle diverse Conferenze nel quadro delle grandi aree del mondo; per esempio: il Consiglio Episcopale Latinoamericano (CELAM), il Symposium delle Conferenze Episcopali dell’Africa e del Madagascar (SECAM), la Federazione delle Conferenze Episcopali dell’Asia (FABC), il Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee (CCEE). Codeste assemblee propongono alla nostra epoca, che conosce l’unificazione e l’organizzazione di grandi aree geopolitiche, una figura concreta dell’unità della Chiesa nella diversità delle culture e delle situazioni umane.

L’utilità, anzi la necessità, pastorale delle Conferenze Episcopali come pure i loro raggruppamenti su scala continentale, è indiscutibile. È lecito però per tale motivo scorgere in essi, come talora si fa, per il fatto che vi si svolge un lavoro in comune, istanze specifiche « collegiali » nel senso stretto inteso dalla Lumen Gentium (n. 22 s.) e dalla Christus Dominus (nn. 4-6)? Questi testi non consentono, a rigor di termine, di attribuire alle Conferenze Episcopali e ai loro raggruppamenti continentali la qualifica di « collegiali » (il termine « collegialità » come tale non è stato usato dal Concilio Vaticano II). Infatti, la collegialità episcopale che ha il suo fondamento nella collegialità degli Apostoli è universale e, s’intende, rispetto all’insieme della Chiesa, della totalità del corpo episcopale in unione con il Papa. Queste condizioni si verificano pienamente nel Concilio Ecumenico e si possono verificare nell’azione unitaria dei vescovi che risiedono nelle diverse parti del mondo secondo le indicazioni stabilite nel decreto Christus Dominus, n. 4 (cf. Lumen Gentium, n. 22). In certo qual modo possono verificarsi anche nel Sinodo dei Vescovi, che può ritenersi espressione vera, benché parziale, della collegialità universale, perché, « rappresentando tutto l’episcopato cattolico, insieme dimostra che tutti i vescovi sono partecipi, in gerarchica comunione, della sollecitudine della Chiesa universale » (Christus Dominus, n. 5; cf. Lumen Gentium, n. 23). Al contrario istituzioni come le Conferenze Episcopali (e i loro raggruppamenti continentali) derivano dall’organizzazione o dalla forma concreta della Chiesa (iure ecclesiastico), l’uso, nei loro riguardi, dei termini « collegio », « collegialità », « collegiale », è dunque solo in un senso analogo, teologicamente improprio.

Asserendo ciò, non si diminuisce affatto l’importanza della funzione pratica che le Conferenze Episcopali e i loro raggruppamenti continentali devono svolgere in futuro, specie per ciò che concerne le relazioni tra le Chiese particolari, le Chiese « locali » e la Chiesa universale. I risultati già conseguiti consentono di provare, al riguardo, una fondata fiducia.

Rimane il fatto che nella condizione peregrinante, come è la nostra, i rapporti tra le Chiese particolari tra di loro come pure quelli con la Sede di Roma, incaricata del ministero dell’unità e della comunione universali, possono talora dimostrarsi difficili. L’inclinazione peccaminosa degli uomini li spinge a tramutare le differenze in opposizioni, per cui bisogna senza sosta ricercare, nella comunione con la Sede di Roma e sotto la sua autorità, le modalità più adatte a esprimere l’universalità cattolica, che permetta la compenetrazione degli elementi umani più diversi nell’unità della fede.

6. IL NUOVO POPOLO DI DIO COME SOCIETÀ GERARCHICAMENTE ORDINATA

6.1. Comunione, struttura e organizzazione

Sin dal suo apparire nella storia, il nuovo popolo di Dio appare strutturato attorno ai pastori che Gesù Cristo stesso gli ha scelto, costituendoli suoi Apostoli (Mt 10, 1-42), e ponendo a loro guida Pietro (Gv 21, 15-17). « Quella missione divina, affidata da Cristo agli Apostoli, dovrà durare sino alla fine dei secoli (cf. Mt 28, 20), poiché il Vangelo che essi devono trasmettere è per la Chiesa principio di tutta la sua vita in ogni tempo. Per questo gli Apostoli, in questa società gerarchicamente ordinata, ebbero cura di costituirsi dei successori » (Lumen Gentium, n. 20). Non è possibile quindi dissociare il popolo di Dio che è la Chiesa dai ministeri che la strutturano e specialmente dall’episcopato. Questo, alla morte degli Apostoli, diventa il vero « ministero della comunità » che i vescovi esercitano con l’ausilio dei sacerdoti e dei diaconi (Lumen Gentium, n. 20). Da allora, se la Chiesa si presenta come un popolo e una comunione di fede, di speranza e di carità, nel cui seno i fedeli di Cristo « godono della vera dignità cristiana » (Lumen Gentium, n. 18), questo popolo e questa comunione sono provvisti di ministeri e di mezzi di crescita che assicurano il bene dell’intero corpo. Non si possono quindi separare nella Chiesa gli aspetti d’una struttura e di una vita che in essa sono intimamente associate tra loro. « Cristo, unico mediatore, ha costituito sulla terra la sua Chiesa santa, comunità di fede, di speranza e di carità, come un organismo visibile; la sostenta incessantemente, e per essa diffonde su tutti la verità e la grazia. La società costituita di organi gerarchici e il corpo mistico di Cristo, l’assemblea visibile e la comunità spirituale, la Chiesa della terra e la Chiesa ormai in possesso dei beni celesti, non si devono considerare come due realtà, ma formano una sola complessa realtà risultante di un elemento umano e di un elemento divino » (Lumen Gentium, n. 8).

La comunione che definisce il nuovo popolo di Dio è dunque una comunione sociale gerarchicamente ordinata. Come precisa la « nota esplicativa previa » del 16 novembre 1964, se « la comunione è un concetto tenuto in grande onore nell’antica Chiesa (e anche oggi, specialmente in Oriente), per essa [tuttavia] non s’intende un certo vago "affetto", ma una "realtà organica", che richiede forma giuridica e insieme è animata dalla carità ».

A questo punto ci si può coerentemente porre la questione relativa alla presenza e alla portata dell’organizzazione giuridica nella Chiesa. Se è il caso di distinguere la funzione sacramentale ontologica dall’aspetto canonico-giuridico (cf. « Nota esplicativa previa » del 16 novembre 1964), ciò non toglie che l’una e l’altro siano, a livelli diversi, assolutamente necessari alla vita della Chiesa. Tenendo presente l’analogia parziale o relativa (ob non mediocrem analogiam) della Chiesa con il Verbo Incarnato, come viene sviluppata dalla Lumen Gentium (n. 8), non dimentichiamo che « come la natura assunta è a servizio del Verbo divino come vivo organo di salvezza, a lui indissolubilmente unito, in modo non dissimile l’organismo sociale della Chiesa è a servizio dello Spirito di Cristo che lo vivifica, per la crescita del corpo ». L’analogia con il Verbo Incarnato permette di affermare che quest’« organo di salvezza » che è la Chiesa va inteso in modo tale da evitare due eccessi tipici delle eresie cristologiche dell’antichità. Così, va evitato, da un lato, una specie di « nestorianesimo » ecclesiale, secondo cui nessun rapporto sostanziale esisterebbe tra l’elemento divino e l’elemento umano; e, dall’altro, un « monofisismo » ecclesiale, secondo cui tutto nella Chiesa sarebbe « divinizzato » e quindi senza i limiti, le deficienze o gli errori dell’organizzazione, frutto dei peccati e dell’ignoranza umana. Certo, la Chiesa è un sacramento, ma non con tenore e perfezione uguali in ogni atto che compie. Dal momento che ritorneremo sul tema della Chiesa-sacramento, ci basti qui ricordare che la liturgia costituisce il settore in cui la sacramentalità della Chiesa opera e viene espressa con il massimo vigore (cf. Sacrosanctum Concilium, nn. 7 e 10). Seguono quindi il ministero della Parola quando è esercitato nelle sue più elevate espressioni (cf. Lumen Gentium, nn. 21 e 25); e infine il campo ove si dispiega la funzione pastorale con l’autorità canonica o potere di governo (Lumen Gentium, n. 23). Ne consegue che la legislazione ecclesiastica, benché fondata su un’autorità di origine divina, non può sottrarsi all’influenza esercitata in misura più o meno notevole dall’ignoranza e dal peccato. In altri termini: la legislazione ecclesiastica non è né può essere infallibile; ciò, evidentemente, non significa che essa non abbia influenza sul mistero della salvezza. Negarle qualsiasi funzione positivamente salvifica significherebbe, in fin dei conti, ridurre la sacramentalità della Chiesa ai soli sacramenti e quindi attenuare la visibilità della Chiesa nella sua vita quotidiana.

6.2. Principi di vita pratica nella società di comunione gerarchicamente ordinata

Nella struttura fondamentale della Chiesa possiamo scorgere gli stessi principi che illuminano la sua organizzazione e la sua prassi canonico-giuridica.

1. In quanto comunità visibile e organismo sociale, la Chiesa ha bisogno di norme che esprimano la sua struttura fondamentale e sociale, e precisino, in forza d’un giudizio prudenziale, le regole da osservare nelle circostanze concrete della vita della comunità. Come possono mutare le circostanze pratiche, così anche la fedeltà, che è dovuta allo Spirito Santo, può esigere che alcune norme pure mutino.

2. Lo scopo della legislazione ecclesiale non può essere che il bene comune della Chiesa. Questo comprende indissolubilmente la tutela del deposito della fede ricevuta da Cristo e il progresso spirituale dei figli di Dio diventati membri del corpo di Cristo.

3. Se la Chiesa necessita di norme e di diritto, dobbiamo, conseguentemente, riconoscere che possiede un’autorità legislativa (Lumen Gentium, n. 27; cf. Codice di Diritto Canonico, cann. 135, 292, 333, 336, 391, 445, 455, ecc.). Questa rispetterà scrupolosamente il principio generale ricordato dalla Dichiarazione conciliare sulla libertà religiosa (n. 7), secondo la quale « all’uomo va riconosciuta la libertà più ampia possibile, e non dev’essere limitata se non quando e in quanto è necessario ». Un simile potere implica pure che le legittime disposizioni legislative siano accolte e osservate da parte dei fedeli con un’obbedienza religiosa. Tuttavia, l’esercizio d’una tale autorità richiederà da parte dei Pastori un’attenzione tutta particolare alla temibile responsabilità che il potere di legiferare comporta; vi sarà unito anche il grave dovere morale di consultare in via preliminare le persone competenti insieme con l’obbligo, quando ciò sia necessario, di procedere a ulteriori emendamenti delle stesse leggi.

La presenza di elementi giuridici nelle disposizioni che sovrintendono alla vita della Chiesa richiede ancora alcune considerazioni. La libertà cristiana è uno dei tratti peculiari della Nuova Alleanza o del « nuovo popolo di Dio » e costituisce quindi una novità rispetto all’antica legge. Tuttavia, l’avvento di questa nuova libertà, nella testimonianza dei Profeti di Israele già connessa con l’interiorizzazione della legge, scolpita nell’intimo dell’animo e nello stesso cuore dell’uomo (cf. Ger 31, 31), non comporta che la legge esteriore scompaia interamente dalla vita della Chiesa, almeno sinché questa è « pellegrina » su questa terra. Il Nuovo Testamento ci presenta già i primi elementi di un diritto ecclesiastico (Mt 18, 15-18; At 15, 28 s.; 1 Tm 3, 1-13; 5, 17-22; Tt 1, 5-9, ecc.). I primi Padri della Chiesa sono testimoni di alcuni sviluppi di norme destinate a fissare e conservare il retto ordine della comunità. Così Clemente Romano, Ignazio d’Antiochia, Policarpo di Smirne, Tertulliano, Ippolito, ecc. I Concili ecumenici o locali stabiliscono disposizioni disciplinari accanto a decisioni dottrinali propriamente dette. L’antico diritto della Chiesa era dunque già importante, anche se non assumeva sempre la forma di una legge scritta. Vigeva infatti una specie di diritto consuetudinario, non per questo meno vincolante e che spesso ha costituito la fonte dei « santi canoni » che verranno redatti in seguito.

7. IL SACERDOZIO COMUNE NEL SUO RAPPORTO COL SACERDOZIO MINISTERIALE

7.1. Due forme di partecipazione al sacerdozio di Cristo

Il Vaticano II ha rivolto una rinnovata attenzione al sacerdozio comune dei fedeli. L’espressione « sacerdozio comune » e la realtà che racchiude hanno profonde radici bibliche (cf. per esempio, Es 19, 6; Is 61, 6, 1 P 2, 5.9; Rm 12, 1; Ap 1, 6; 5, 9-10) e sono state ampiamente commentate dai Padri della Chiesa (Origene, San Giovanni Crisostomo, Sant’Agostino...). Tuttavia quest’espressione era quasi scomparsa dal vocabolario della teologia cattolica, a causa dell’uso antigerarchico che ne avevano fatto i Riformatori. Conviene però ricordare a questo punto che il Catechismo Romano vi allude esplicitamente. La Lumen Gentium riserva uno spazio notevole alla categoria di « sacerdozio comune dei fedeli », riferito ora alle persone dei battezzati propriamente dette (Lumen Gentium, n. 10), ora alla comunità o alla Chiesa che nel suo insieme è detta « sacerdotale » (Lumen Gentium, n. 11).

Il Concilio ricorre d’altra parte all’espressione « sacerdozio ministeriale o gerarchico » (Lumen Gentium, n. 10) per indicare « il ministero sacro esercitato [nella Chiesa, dai vescovi e dai sacerdoti] per il bene dei loro fratelli » (Lumen Gentium, n. 13). Benché non figuri direttamente ed esplicitamente nel Nuovo Testamento, questa designazione, a partire dal in secolo, viene usata costantemente nella Tradizione. Il Concilio Vaticano II vi ricorre abitualmente, mentre il Sinodo dei Vescovi del 1971 le dedica un documento specifico.

Il Concilio connette il sacerdozio comune dei fedeli con il sacramento del battesimo, indicando anche che un tale sacerdozio ha, per il cristiano, il contenuto e la finalità di « offrire, mediante tutte le opere, spirituali sacrifici » (Lumen Gentium, n. 10), o ancora che si tratta, come già precisava San Paolo, « di offrire i propri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio » (Rm 12, 1). La vita cristiana è dunque vista come una lode offerta a Dio e come un culto di Dio realizzato da ogni persona e da tutta la Chiesa. La santa liturgia (Sacrosanctum Concilium, n. 7), la testimonianza della fede e l’annuncio del Vangelo (Lumen Gentium, n. 10), partendo dal senso soprannaturale della fede di cui sono partecipi tutti i fedeli (cf. Lumen Gentium, n. 12), costituiscono l’espressione di tale sacerdozio. Questo si realizza concretamente nella vita quoti­diana del battezzato, allorché l’esistenza stessa diventa offerta di sé inserendosi nel mistero pasquale di Cristo. Il sacerdozio comune dei fedeli (o dei battezzati) fa risaltare con chiarezza la profonda unità tra il culto liturgico e il culto spirituale e concreto della vita quotidiana. Dobbiamo del pari sottolineare qui che un tale sacerdozio può essere inteso soltanto come partecipazione al sacerdozio di Cristo: nessuna lode sale verso il Padre se non attraverso la mediazione di Cristo, unico Mediatore; il che implica l’azione sacramentale di Cristo. Nell’economia cristiana, infatti, l’offerta della vita si realizza pienamente solo grazie ai sacramenti e in maniera particolarissima grazie all’Eucaristia. Non sono forse i sacramenti simultaneamente sorgente della grazia ed espressione dell’offerta cultuale?

7.2. Nesso tra l’uno e l’altro sacerdozio

Avendo ridato, in un certo qual modo, il suo pieno significato all’espressione « sacerdozio comune dei fedeli », il Concilio Vaticano II si è interrogato per conoscere i reciproci rapporti tra il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico. L’uno e l’altro trovano, indubbiamente, il proprio fondamento e la propria sorgente nell’unico sacerdozio di Cristo. « Questo, [infatti], è partecipato sotto forme diverse, sia dai ministri, sia dal popolo fedele » (Lumen Gentium, n. 62; cf. n. 10). L’uno e l’altro si esprimono, nella Chiesa, attraverso la relazione sacramentale con la persona, la vita e l’azione santificanti di Cristo. Per il pieno sviluppo della vita nella Chiesa, corpo di Cristo, il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico non possono che essere complementari o « ordinati l’uno all’altro », così però, che dal punto di vista della finalità della vita cristiana e del suo compimento, il primato spetta al sacerdozio comune, anche se, dal punto di vista dell’organicità visibile della Chiesa e dell’efficacia sacramentale, la priorità spetta al sacerdozio ministeriale. La Lumen Gentium ha definito questi rapporti al n. 10: « Il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale o gerarchico, quantunque differiscano essenzialmente e non solo di grado, sono tuttavia ordinati l’uno all’altro; infatti l’uno e l’altro, ognuno a suo proprio modo, partecipano all’unico sacerdozio di Cristo. Il sacerdozio ministeriale, con la potestà sacra di cui è investito, forma e regge il popolo sacerdotale, compie il sacrificio eucaristico in persona di Cristo e lo offre a Dio a nome di tutto il popolo; i fedeli, in virtù del regale loro sacerdozio, concorrono all’oblazione dell’Eucaristia, ed esercitano il sacerdozio con la partecipazione ai sacramenti, con la preghiera e il ringraziamento, con la testimonianza di una vita santa, con l’abnegazione e l’operosa carità ».

7.3. Fondamento sacramentale dell’uno e dell’altro sacerdozio

Come indica il testo ora citato, è mediante la realtà sacramentale presente nella vita della Chiesa, realtà che si esprime in modo del tutto particolare nell’Eucaristia, che da un punto di vista teologico, si possono stabilire le relazioni tra le due forme di sacerdozio e la loro connessione. I sacramenti, lo abbiamo già rilevato, sono nello stesso tempo sorgente della grazia ed espressione dell’offerta spirituale di tutta la vita. Ora, il culto liturgico della Chiesa, nel quale una tale offerta raggiunge la propria pienezza, può realizzarsi solo quando la comunità è presieduta da un soggetto che può agire in persona Christi. Questa condizione, ed essa sola, dà pienezza al « culto spirituale », inserendolo nell’offerta e nello stesso sacrificio del Figlio. « Attraverso il ministero dei presbiteri il sacrificio spirituale dei fedeli viene reso perfetto, perché viene unito al sacrificio di Cristo, unico Mediatore; questo sacrificio, infatti, per mano dei presbiteri e in nome di tutta la Chiesa, viene offerto nell’Eucaristia in modo incruento e sacramentale, fino al giorno della venuta del Signore. A ciò tende e in ciò trova la sua perfetta realizzazione il ministero dei presbiteri. Infatti il loro servizio, che comincia con l’annuncio del Vangelo, deriva la propria forza e la propria efficacia dal sacrificio di Cristo, e ha come scopo che "tutta la città redenta, cioè la riunione e società dei santi, si offra a Dio come sacrificio universale per mezzo del gran sacerdote, il quale ha anche offerto se stesso per noi nella sua passione, per farci diventare corpo di così eccelso capo" (Sant’Agostino, De Civ. Dei 10, 6) » (Presbyterorum Ordinis, n. 2).

Poiché sono originati da un’unica sorgente, il sacerdozio di Cristo, e in definitiva hanno un unico fine, l’offerta del Corpo di tutto il Cristo, il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale dei vescovi e dei presbiteri sono dunque strettamente correlati. Tanto che Sant’Ignazio d’Antiochia sostiene che senza vescovi, senza presbiteri e senza diaconi, non si può neppure parlare di Chiesa (cf. Ad Troll., III, 1). La Chiesa esiste solo come Chiesa strutturata e quest’affermazione vale anche quando si adopera la categoria di « popolo di Dio », che sarebbe erroneo identificare col solo laicato, prescindendo dai vescovi e dai sacerdoti.

E ancora, « il senso soprannaturale della fede » riguarda « tutto il popolo, quando dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici esprime l’universale suo consenso in materia di fede e di costumi » (Lumen Gentium, n. 12). A questo punto quindi non si può più opporre il senso della fede del popolo di Dio al magistero gerarchico della Chiesa, prescindendo dai vescovi e dai presbiteri. Il senso della fede, al quale il Concilio rende testimonianza e che è suscitato e sorretto dallo Spirito di verità », riceve la Parola di Dio in maniera autentica unicamente sotto la guida del sacro magistero (cf. Lumen Gentium, n. 12).

All’interno dell’unico nuovo popolo di Dio, sacerdozio comune e sacerdozio ministeriale dei vescovi e dei presbiteri sono inscindibili. Il sacerdozio comune raggiunge la pienezza del proprio valore ecclesiale grazie al sacerdozio ministeriale, mentre quest’ultimo esiste unicamente in vista dell’esercizio del sacerdozio comune. Vescovi e presbiteri sono indispensabili alla vita della Chiesa e dei battezzati, ma essi pure sono chiamati a vivere in pienezza il medesimo sacerdozio comune, e, a tale titolo, necessitano del sacerdozio ministeriale. « Per voi io sono vescovo, con voi sono cristiano », dice Sant’Agostino (Sermo 340, 1).

Ordinati l’uno all’altro, il sacerdozio comune di tutti i fedeli e il sacerdozio ministeriale dei vescovi e dei presbiteri presentano tra loro una differenza essenziale (differenza che non è dunque solo di grado), a causa del loro fine. Operando in persona Christi, il vescovo e il presbitero lo rendono presente di fronte al popolo; nello stesso tempo, il vescovo e il presbitero rappresentano anche tutto il popolo davanti al Padre.

Certo, ci sono atti sacramentali la cui validità dipende dal fatto che chi li celebra ha, in virtù della propria ordinazione, la facoltà di agire in persona Christi o « nell’ufficio di Cristo ». Non ci si può tuttavia accontentare di tale osservazione per legittimare l’esistenza del ministero ordinato nella Chiesa. Esso appartiene alla struttura essenziale della Chiesa e quindi alla sua immagine e alla sua visibilità. La struttura essenziale della Chiesa come pure la sua immagine comportano una dimensione « verticale », segno e strumento dell’iniziativa e della preveggenza divine nell’economia cristiana.

7.4. La vocazione propria dei laici

La riflessione sin qui condotta si rivela utile per spiegare alcune disposizioni del nuovo Codice di Diritto Canonico relative al sacerdozio comune dei fedeli. Nella linea del numero 31 della Lumen Gentium, il can. 204, § 1 collega il battesimo con la partecipazione dei cristiani alla funzione sacerdotale, profetica e regale di Cristo: « I fedeli sono coloro che, essendo stati incorporati a Cristo mediante il Battesimo, sono costituiti popolo di Dio e perciò, resi partecipi nel modo loro proprio dell’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo, sono chiamati ad attuare, secondo la condizione giuridica propria di ciascuno, la missione che Dio ha affidato alla Chiesa da compiere nel mondo ».

Nello spirito della missione che i laici svolgono nella Chiesa e nel mondo, missione che è quella di tutto il popolo di Dio, i cann. 228, §l e 230, § 1 e 3 prevedono l’ammissione di laici a incarichi e uffici ecclesiastici; per esempio ai ministeri di lettore, di accolito e altri (cf. cann. 861, § 2; 910, § 2; 1112). Sarebbe però un abuso ritenere che tali autorizzazioni determinino un essere indifferenziato tra gli uffici rispettivi dei vescovi, dei presbiteri, dei diaconi e quelli dei laici.

Il compito del laico negli incarichi e negli uffici ecclesiastici, contemplati nei canoni sopracitati, è certamente del tutto legittimo e si dimostra del resto assolutamente necessario in determinate situazioni; non può però possedere nella sua pienezza il valore di segno ecclesiale che risiede nei ministeri ordinati, in virtù della loro peculiare qualità di rappresentanti sacramentali di Cristo. L’apertura ai laici di incarichi e uffici ecclesiastici non dovrebbe avere l’effetto di offuscare il segno visibile della Chiesa, popolo di Dio gerarchicamente ordinato, che ha inizio da Cristo Capo.

Questa medesima apertura non dovrebbe neppure portarci a dimenticare che i laici hanno, nell’insieme della missione della Chiesa che essi condividono con tutti gli altri fedeli, una vocazione propria, come una propria vocazione hanno anche i vescovi, i presbiteri, i diaconi o, a un livello diverso, i religiosi e le religiose. Come ha stabilito il Concilio al numero 31 della Lumen Gentium: « Per loro vocazione è proprio dei laici cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio. Essi vivono nel secolo, cioè implicati in tutti i singoli impieghi e affari del mondo e nelle ordinarie condizioni della vita familiare e sociale, di cui la loro esistenza è come intessuta. Ivi sono da Dio chiamati a contribuire, quasi dall’interno a modo di fermento, alla santificazione del mondo mediante l’esercizio della loro funzione propria e sotto la guida dello spirito evangelico, e in questo modo, a rendere visibile Cristo agli altri, principalmente con la testimonianza della loro vita e col fulgore della fede, della speranza e della carità ».

8. LA CHIESA COME SACRAMENTO DI CRISTO

8.1. Sacramento e mistero

La Chiesa di Cristo, « nuovo popolo di Dio », si presenta indissolubilmente come mistero e soggetto storico. Per esprimere la realtà insieme divina e umana della Chiesa, la costituzione conciliare Lumen Gentium ricorre, come abbiamo già rilevato, al termine « sacramento ». Tale designazione deriva il suo valore dal posto notevole che occupa nel primo paragrafo del documento: « Siccome la Chiesa è in Cristo come sacramento, cioè segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano... ». Nell’impianto del testo della Costituzione il termine « sacramento » viene applicato due volte ancora alla Chiesa (nn. 9 e 48); tale uso non esige del resto spiegazione, poiché il principio posto nel paragrafo primo della Costituzione sembra essere sufficiente. Senza aver raggiunto il successo di un’espressione come « popolo di Dio », il termine sacramento applicato alla Chiesa ha ottenuto una certa diffusione. In ogni modo, il suo uso richiede alcuni chiarimenti.

L’uso della parola « sacramento », quando si riferisce alla Chiesa, permette di sottolineare in Dio e in Cristo il punto d’origine e di assoluta dipendenza della Chiesa (cf. Sacrosanctum Concilium, n. 5). Indica ugualmente in modo molto preciso l’orientamento della Chiesa verso la manifestazione e la presenza agli uomini del mistero dell’Amore universale di Dio, in vista dell’intima unione di tutti gli uomini con il Padre, con il Figlio e con lo Spirito Santo, come pure la comunione degli uomini tra loro. Il termine sacramento fa risaltare con forza la profonda struttura del « mistero » di Cristo e, in rapporto a questa, l’autentica natura della vera Chiesa. Questa « ha la caratteristica di essere nello stesso tempo umana e divina, visibile ma dotata di realtà invisibili, ardente nell’azione e dedita alla contemplazione, presente nel mondo e tuttavia pellegrina; tutto questo in modo che quanto in essa è umano sia ordinato e subordinato al divino, il visibile all’invisibile, l’azione alla contemplazione, la realtà presente alla città futura, verso la quale siamo incamminati » (Sacrosanctum Concilium, n. 2; cf. Lumen Gentium, n. 8). Neppure è inutile richiamare l’attenzione su questo fatto: se, 50 anni fa, alcuni teologi cattolici hanno riportato in auge questa denominazione della Chiesa come sacramento, fu anche per ridare al cristianesimo un maggior valore comunitario e sociale e non individualista o anche istituzionale. Il cristianesimo nella sua stessa essenza è mistero d’unione e d’unità: unione inti­ma con Dio, unità degli uomini tra loro.

Il termine « sacramento », dal latino sacramentum, rimanda, quando lo si applica alla Chiesa, alla parola d’origine greca mysterion con cui condivide un significato fondamentalmente equivalente. Come abbiamo osservato sopra, il « mistero » è il decreto divino con cui il Padre realizza la sua volontà salvifica in Cristo, mentre nello stesso tempo la rivela attraverso una realtà temporale che conserva tutta la sua trasparenza.

8.2. Cristo e la Chiesa

Certamente, non bisogna dimenticare che l’espressione « sacramento », come del resto le altre parole: figura, immagine, analogia o paragone, non è in grado di definire a rigor di termine e di descrivere esaustivamente la realtà della Chiesa. La designazione della Chiesa come sacramento sottolinea pur sempre in primo luogo e con grande chiarezza il vincolo della Chiesa con Cristo. Così a quest’espressione si possono avvicinare le immagini bibliche di Chiesa Corpo di Cristo e di Sposa; come anche la formula di « nuovo popolo di Dio», quale si diffrange nei suoi due inscindibili orientamenti di mistero e di soggetto storico. Difatti, tutte le immagini bibliche della Chiesa, che sono enumerate nel capitolo primo della Lumen Gentium e che fanno risaltare rispettivamente le note complementari d’identificazione e di differenza di Cristo e della Chiesa, possono trovare nel termine sacramento quasi una trascrizione formale.

La Chiesa è veramente abitata dalla presenza di Cristo al punto che chi ha trovato lei, ha trovato Cristo. Tale è la presenza di Cristo nel battesimo e nell’Eucaristia, nella Parola di Dio, nell’assemblea dei cristiani (Mt 18, 20), nella testimonianza del ministero apostolico (Lc 10, 16; Gv 13, 18. 20), nel servizio ai poveri (Mt 25, 40), nell’apostolato... Tuttavia, nello stesso tempo, la Chiesa, che è composta di uomini e di peccatori, ha bisogno di convertirsi, di purificarsi e di chiedere al suo Signore i doni spirituali necessari alla sua missione nel mondo. La Chiesa è, simultaneamente, il sacramento efficace dell’unione con Dio e dell’unità del genere umano, mentre deve senza posa implorare — per i suoi membri in primo luogo — la misericordia di Dio e l’unità dei suoi figli. In altre parole, il Signore è presente nella Chiesa (Ap 21, 3. 22), ma sta incessantemente davanti a lei per portarla nello Spirito Santo verso le realtà ancora maggiori (cf. Gv 5, 20) della presenza definitiva di Dio « tutto in tutti » (1 Cor 15, 28; Col 3,11).

Nell’attesa della venuta di Cristo, alla fine dei tempi, la Chiesa fa l’esperienza del peccato attraverso i suoi membri e conosce la prova della divisione. Gli uomini e le donne che costituiscono la Chiesa possono talvolta essere di ostacolo all’azione dello Spirito Santo. I pastori non sono, più degli altri, al riparo dagli abusi e dagli errori per il solo fatto della legittimità della loro autorità. Sotto l’aspetto più strutturale, poiché il sacramento è « segno e strumento », la realtà simbolica e sociale che lo costituisce (res et sacramentum) rimanda sempre a una realtà superiore e più fondamentale, cioè divina (res tantum). Ciò vale per la Chiesa che dipende tutta da Cristo verso il quale essa orienta, senza mai confondersi con Lui che è il suo Signore.

8.3. La Chiesa, sacramento di Cristo

Il termine « sacramento », quando è applicato alla Chiesa, richiede — lo si vede bene — alcuni chiarimenti. A proposito della Chiesa non si tratta evidentemente di un ottavo sacramento, poiché il termine, quando viene adoperato per la Chiesa, lo è in un senso analogico. Senso, a dire il vero, più fondamentale che per i sette sacramenti, ma nel contempo meno preciso. Infatti, tutto nella vita della Chiesa, come abbiamo già rilevato, non riceve da sé il valore d’efficacia salvifica che caratterizza i sette sacramenti. Notiamo ancora che, se la Chiesa è sacramento, Cristo è il sacramento « primordiale », da cui dipende la Chiesa: « Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in Lui. Egli è anche il capo del corpo, cioè della Chiesa » (Gal 1, 17 s.).

Mediante la categoria di « sacramento » qualcosa di essenziale è stato dunque detto sulla realtà della Chiesa, e il senso di questo termine applicato alla Chiesa è proprio reale. D’altronde alcuni teologi cattolici avevano fatto ricorso, molto prima del Concilio, al termine « sacramento » trasmesso loro dai Padri della Chiesa nell’intento di contribuire allo sforzo della Chiesa per esprimere se stessa. Il significato dato è allora quello di « Chiesa sacramento di Dio » o « sacramento di Cristo ». Più precisamente, potendo Cristo stesso essere designato mediante l’espressione « sacramento di Dio », la Chiesa, in modo più preciso, può essere detta « sacramento di Cristo ». Poiché è sposa e corpo di Cristo, la Chiesa riceve questo nome di sacramento. Tuttavia, è più che evidente che la Chiesa non è sacramento, se non in totale dipendenza da Cristo che merita, egli, di essere chiamato « il sacramento primordiale ». I sette sacramenti, poi, hanno realtà e senso soltanto nell’impianto totale che costituisce la Chiesa.

Osserviamo infine che, quando viene applicato alla Chiesa, il termine « sacramento » rimanda alla salvezza che, realizzandosi mediante l’unione a Dio in Cristo, conduce all’unità degli uomini tra loro. Possiamo parimenti associare « sacramento » al termine « mondo », evidenziando così che la Chiesa è il sacramento della salvezza del mondo, in quanto il mondo ha bisogno della salvezza che la Chiesa riceve la missione di proporgli. In tale prospettiva possiamo dire che la Chiesa è il sacramento di Cristo per la salvezza del mondo.

La teologia della Chiesa-sacramento ci consente, di conseguenza, di essere maggiormente attenti alla responsabilità concreta della comunità cristiana. Infatti, attraverso la vita, la testimonianza e l’azione quotidiana dei discepoli di Cristo gli uomini vengono guidati verso il loro Salvatore. Certuni, attraverso la conoscenza del « segno » della Chiesa e la grazia della conversione, scoprono qual è la grandezza dell’Amore di Dio e la verità del Vangelo, cosicché per loro la Chiesa è proprio esplicitamente « segno e strumento » di salvezza. Altri, invece, vengono associati dallo Spirito Santo, in una maniera più misteriosa e a Dio solo nota, al mistero pasquale di Cristo e quindi anche alla Chiesa (Lumen Gentium, nn. 14 e 16; Ad Gentes, n. 7; Gaudium et Spes, nn. 22 e 5).

9. L’UNICA CHIESA DI CRISTO

9.1. Unità della Chiesa e diversità degli elementi cristiani

Esiste un’« unica Chiesa di Cristo, che nel simbolo professiamo una santa, cattolica e apostolica, e che il Salvatore nostro, dopo la sua risurrezione, diede da pascere a Pietro (Gv 21, 17), affidandone a lui e agli altri apostoli la diffusione e la guida (cf. Mt 28, 18 ss.), e costituì per sempre la colonna e il sostegno della verità (cf. 1 Tm 3, 15). Questa Chiesa, in questo mondo costituita e organizzata come una società, sussiste nella Chiesa cattolica, governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui, ancorché al di fuori del suo organismo visibile si trovino parecchi elementi di santificazione e di verità, che, quali doni propri della Chiesa di Cristo, spingono verso l’unità cattolica » (Lumen Gentium, n. 8).

In pratica, non si può evitare di porre a confronto l’unità teologica della Chiesa e la pluralità storica « delle molte comunioni cristiane che propongono se stesse agli uomini come la vera eredità di Gesù Cristo; tutti asseriscono di essere discepoli del Signore, ma la pensano diversamente e camminano per vie diverse, come se Cristo stesso fosse diviso » (Unitatis Redintegratio, n. 1). Poiché simili divisioni costituiscono oggetto di scandalo e ostacolo all’evangelizzazione del mondo, il Concilio si proposte di stabilire contemporaneamente la presenza della Chiesa di Cristo nella Chiesa cattolica, e l’esistenza al di fuori dei confini visibili della Chiesa cattolica di elementi o di beni spirituali, dai quali la stessa Chiesa è edificata e vivificata.

9.2. Unicità della Chiesa cattolica

È necessario ricordare innanzitutto « la pienezza della grazia e della verità affidata alla Chiesa cattolica » (Unitatis Redintegratio, n. 3). Questa ne beneficia per il fatto che « al solo collegio apostolico con a capo Pietro crediamo che il Signore ha affidato tutti i beni della Nuova Alleanza, per costituire l’unico Corpo di Cristo sulla terra, al quale bisogna che siano pienamente incorporati tutti quelli che già in qualche modo appartengono al popolo di Dio » (Unitatis Redintegratio, n. 3). La dimensione spirituale della Chiesa non può essere separata dalla sua dimensione visibile. La Chiesa, una, unica e universale, la Chiesa di Gesù Cristo, può essere riconosciuta storicamente nella Chiesa visibile costituita attorno al collegio dei vescovi e del suo capo, il Papa (cf. Lumen Gentium, n. 8). La Chiesa si trova quindi là dove i successori dell’apostolo Pietro e degli altri Apostoli realizzano visibilmente la continuità con le origini. Infatti, con la continuità apostolica, altri elementi essenziali si aggiungono inseparabilmente: Sacra Scrittura, dottrina della fede e Magistero, sacramenti e ministeri. Tali elementi aiutano il sorgere e lo sviluppo dell’esistenza secondo Cristo. Proprio come asserisce la fede ortodossa, essi formano lo strumento essenziale e il mezzo specifico, grazie ai quali è favorita la crescita della vita di Dio tra gli uomini. Infatti, questi elementi costituiscono ciò che la Chiesa è veramente. È lecito riconoscere che tutta l’opera salvifica di Dio nel mondo si riferisce alla Chiesa, da quando in essa i mezzi per crescere nella vita di Cristo hanno raggiunto il loro vertice e la loro perfezione.

Il Decreto sull’ecumenismo può a buon diritto parlare del « sacro mistero dell’unità della Chiesa », di cui enumera le componenti essenziali: « Gesù Cristo per mezzo della fedele predicazione del Vangelo, dell’amministrazione dei sacramenti e del governo esercitato nell’amore da parte degli apostoli e dei loro successori, cioè i vescovi con a capo il successore di Pietro, sotto l’azione dello Spirito Santo, vuole che il suo popolo cresca e sia perfezionata la sua comunione nell’unità: nella confessione di una sola fede, nella comune celebrazione del culto divino e nella fraterna concordia della famiglia di Dio » (Unitatis Redintegratto, n. 2). Se la Chiesa è la proposta della vita totale del Signore risuscitato, allora il nome di Chiesa può applicarsi pienamente là dove questa vita sacramentale e questa fede apostolica esistono nella loro integrità e continuità. Ora, riteniamo che tali elementi esistano in pienezza e per eccellenza nella Chiesa cattolica. È quanto la Lumen Gentium (n. 8) intende sottolineare con le seguenti parole: « Questa Chiesa, in questo mondo costituita e organizzata come una società, sussiste nella Chiesa cattolica, governata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con lui... ». La Chiesa si trova dunque là dove i successori di Pietro e degli altri Apostoli realizzano visibilmente la continuità con le origini. A tale Chiesa l’unità è stata donata « e crediamo che questa sussista in essa, senza possibilità di essere perduta » (Unitatis Redintegratio, n. 4). La Chiesa si realizza dunque in tutta la sua pienezza nella società guidata dal successore di Pietro e dai vescovi in comunione con Lui.

9.3. Elementi di santificazione

Tuttavia, la piena e perfetta presenza della Chiesa di Cristo nella Chiesa cattolica non esclude la presenza della Chiesa di Cristo in quei « parecchi elementi di santificazione e di verità che, ancorché al di fuori del suo organismo visibile, quali doni proprio della Chiesa di Cristo, spingono verso l’unità cattolica » (Lumen Gentium, n. 8). Per dono di Dio, orientato verso la sua Chiesa, ci sono numerosi elementi di santificazione e di verità che, pur esistendo al di fuori dell’organismo visibile della Chiesa cattolica, si ricollegano realmente all’ordine della salvezza. Di queste realtà di santificazione e di verità, il Concilio valorizza due caratteristiche una di fatto, l’altra teologica. Di fatto, è possibile osservare che si sviluppano elementi di santificazione e di verità al di fuori dell’organismo visibile e sociale della Chiesa cattolica; teologicamente parlando, siffatti elementi « spingono verso l’unità cattolica » (Lumen Gentium, n. 8).

Esistono quindi al di fuori della Chiesa cattolica non solo numerosi veri cristiani, ma anche numerosi principi di vita e di fede veramente cristiani. La Chiesa cattolica può dunque parlare, con il decreto Unitatis Redintegratio, di « Chiese orientali » e, per quel che concerne l’Occidente, di « Chiese e comunità ecclesiali separate » nn. 14 e 19). Autentici valori di Chiesa sono presenti nelle altre Chiese e comunità cristiane. Una tale presenza invita a che « tutti [cattolici e non cattolici] esaminino la loro fedeltà alla volontà di Cristo circa la Chiesa e, com’è dovere, intraprendano con vigore l’opera di rinnovamento e di riforma » (Unitatis Redintegratio, n. 4; cf. nn. 6 e 7).

Il Decreto conciliare sull’ecumenismo ha descritto con esattezza i principi cattolici dell’ecumenismo come il suo concreto esercizio nei confronti sia delle Chiese orientali, sia delle Chiese e comunità ecclesiali separate d’Occidente. L’insieme di tali disposizioni sviluppa la dottrina presente nella costituzione Lumen Gentium, soprattutto al n. 8. « Solo [dunque] per mezzo della cattolica Chiesa di Cristo, che è lo strumento generale della salvezza, si può ottenere tutta la pienezza dei mezzi di salvezza. [Tuttavia] queste Chiese e comunità separate, quantunque crediamo che abbiano delle carenze, nel mistero della salvezza non sono affatto spoglie di significato e di peso » (Unitatis Redintegratio, n. 3).

Dalla nostra analisi risulta che « l’autentica Chiesa » non può essere intesa come un’utopia che mirerebbe a raggiungere tutte le comunità cristiane oggi divise e separate. La « vera Chiesa », come pure la sua unità, non sono esclusivamente una realtà « futura ». Esse già si trovano nella Chiesa cattolica nella quale è realmente presente la Chiesa di Cristo. « Perciò non è permesso ai fedeli immaginare che la Chiesa di Cristo sia semplicemente un insieme — diviso, indubbiamente, ma che conserva ancora qualche unità — di Chiese e comunità ecclesiali; non hanno diritto di ritenere che questa Chiesa di Cristo non sussista più in nessun luogo oggi, cosicché la si debba considerare come un fine da ricercarsi da tutte le Chiese e comunità » (Dichiarazione Mysterium Ecclesiae della Congregazione per la Dottrina della Fede, 24 giugno 1973).

Il voto di Gesù: « Perché tutti siano una cosa sola. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato » (Gv 17, 21) è sempre più urgente. Come non meno urgente è l’obbligo, che ne deriva per tutti i cristiani e tutte le comunità cristiane, di tendere sin d’ora, con ogni loro energia, verso quest’unità, oggetto della nostra speranza.

10. L’INDOLE ESCATOLOGICA DELLA CHIESA: REGNO DI DIO E CHIESA

10.1. La Chiesa è insieme terrena e celeste

Il capitolo VII della Lumen Gentium intitolato « Indole escatologica della Chiesa e sua unione con la Chiesa celeste » non ha richiamato molto l’attenzione dei commentatori del Vaticano II. Eppure è in certo qual modo la chiave di lettura del capitolo II, poiché indica il fine verso cui il popolo di Dio è in cammino. A questo fine già accenna il n. 9 della Costituzione: « Questo popolo messianico [...] ha per fine il Regno di Dio, incominciato in terra dallo stesso Dio, e che dev’essere ulteriormente dilatato, finché alla fine dei secoli sia da lui portato a compimento ». Questo fine viene riconfermato dalla medesima Costituzione, all’inizio del n. 48: « La Chiesa, alla quale tutti siamo chiamati in Gesù Cristo e nella quale per mezzo della grazia di Dio acquistiamo la santità, non avrà il suo compimento se non nella gloria del Cielo, quando verrà il tempo della restaurazione di tutte le cose ». Del resto, troviamo il medesimo insegnamento nella Costituzione pastorale Gaudium et Spes: « La Chiesa, procedendo dall’amore dell’eterno Padre, fondata nel tempo dal Cristo redentore, radunata nello Spirito Santo, ha una finalità salvifica ed escatologica, che non può essere raggiunta pienamente se non nel mondo futuro » (n. 40). Il capitolo VII della Lumen Gentium, inoltre, ci offre una visione più vasta della Chiesa, quando ricorda che il popolo di Dio nel suo stato presente di soggetto storico è già escatologico e che la Chiesa pellegrina è unita alla Chiesa del cielo.

Non si può limitare, infatti, la Chiesa alla sua sola dimensione terrena e visibile. Poiché mentre è pellegrina su questa terra, le sorgenti che la vivificano e rinnovano in continuità sono « lassù, dove Cristo siede alla destra di Dio, dove la vita della Chiesa è nascosta con Cristo in Dio, fino a che col suo sposo comparirà rivestita di gloria (cf. Col 3, 1-4) » (Lumen Gentium, n. 6). Tale è l’opera che lo Spirito Santo compie « con la forza del Vangelo: fa ringiovanire la Chiesa, continuamente la rinnova e la conduce alla perfetta unione col suo Sposo » (Lumen Gentium, n. 4). Questo fine, verso cui lo Spirito Santo sospinge la Chiesa, determina la vita profonda della Chiesa pellegrinante. Perciò i credenti hanno sin d’ora la loro cittadinanza (politeuma) « nei cieli » (Fil 3, 20; Lumen Gentium, nn. 13 e 48); già la Gerusalemme di lassù è la nostra madre » (Gal 4, 26; Lumen Gentium, n. 6). È proprio del mistero stesso della Chiesa che tale fine sia già presente in forma nascosta nella Chiesa pellegrinante. Questo carattere escatologico della Chiesa non può indurre a sottovalutare le responsabilità temporali; anzi, guida la Chiesa sul cammino dell’imitazione del Cristo povero e servo. Dall’intima sua unione a Cristo e dai doni del Suo Spirito la Chiesa riceve la forza per dedicarsi al servizio di ogni uomo e di tutto l’uomo. « Nel suo cammino verso il Regno del Padre » (Gaudium et Spes, n. 1), la Chiesa misura tuttavia la distanza da superare fino al suo compimento finale, riconosce dunque di annoverare nel suo seno peccatori e che essa ha continuo bisogno di penitenza (Lumen Gentium, n. 8). Questa distanza, spesso dolorosamente avvertita, non deve far dimenticare che la Chiesa è essenzialmente una nelle varie sue tappe: si tratti della sua prefigurazione nella creazione, della sua preparazione nell’Antica Alleanza, della sua costituzione in « questi tempi che sono gli ultimi », della sua manifestazione mediante lo Spirito Santo e, infine, del suo compimento alla fine dei secoli, nella gloria (Lumen Gentium, n. 2). E ancora, se la Chiesa è una nelle varie tappe dell’economia divina, è ancora una nelle sue tre dimensioni di peregrinazione, di purificazione e di glorificazione: « Tutti quelli che sono di Cristo, avendo il suo Spirito formano una sola Chiesa e sono tra loro uniti in Lui (Ef 4, 16) » (Lumen Gentium, n. 49).

10.2. La Chiesa e il Regno

Dobbiamo tener presente la prospettiva dell’unità della Chiesa quando affrontiamo la difficile questione del rapporto tra Chiesa e Regno. Mentre molti tra i Padri della Chiesa, tra i teologi medievali o tra i Riformatori del secolo XVI identificano in genere la Chiesa e il Regno, si è giunti soprattutto da due secoli a questa parte, a frapporre tra i due una maggiore o minore distanza, accentuando unilateralmente l’aspetto escatologico per il Regno e l’aspetto storico per la Chiesa. Il Concilio non ha affrontato esplicitamente il problema, ma accostandone i vari testi, possiamo dedurre l’insegnamento della Lumen Gentium in merito.

Esaminando i testi riguardanti il compimento finale, non troviamo nessuna differenza tra la Chiesa e il Regno: da un lato, si afferma della Chiesa che « mentre va lentamente crescendo, anela al Regno perfetto » (Lumen Gentium, n. 5); dall’altro, invece, è la Chiesa che avrà essa stessa il suo compimento finale nella gloria del cielo (cf. Lumen Gentium, nn. 48 e 68). Da una parte, il compimento finale avverrà « quando Cristo consegnerà al Padre un Regno eterno e universale » (Gaudium et Spes, n. 39; cf. 1 Cor 15, 24; Presbyterorum Ordinis, n. 2); dall’altra, secondo il Concilio la Chiesa « avrà glorioso compimento alla fine dei secoli. Allora, come si legge nei santi Padri, tutti i giusti, a partire da Adamo, "dal giusto Abele fino all’ultimo eletto", saranno riuniti presso il Padre nella Chiesa universale » (Lumen Gentium, n. 2). È lo Spirito Santo che « conduce la Chiesa alla perfetta unione con il suo Sposo » (Lumen Gentium, n. 4). Ed è ancora la Chiesa che « spera e brama con tutte le sue forze di unirsi col suo Re nella gloria » (Lumen Gentium, n. 5), mentre altrove il Concilio può affermare che il popolo di Dio ha « per fine il Regno di Dio » aggiungendo che « alla fine dei secoli sarà da Lui portato a compimento » (Lumen Gentium, n. 9). È evidente perciò che, nell’insegnamento del Concilio, non vi può essere differenza, rispetto alla realtà futura alla fine dei tempi, tra la Chiesa compiuta (consummata) e il Regno compiuto (consummatum).

Qual è dunque il loro rapporto nel tempo presente? Il testo più esplicito (Lumen Gentium, n. 5) ci fa capire quanto sottile sia il rapporto tra le nozioni di Regno e di Chiesa. La sorte della Chiesa e la sorte del Regno all’origine appaiono inseparabili: « Il Signore Gesù diede inizio alla sua Chiesa predicando la Buona Novella, cioè la venuta del Regno di Dio » (Lumen Gentium, n. 5). Nascita della Chiesa e avvento del Regno di Dio si manifestano in perfetta simultaneità; come pure la crescita dell’una e dell’altro. Infatti, « quanti ascoltano con fede la parola di Cristo e appartengono al "piccolo gregge di Cristo" (Lc 12, 32), hanno accolto il Regno stesso di Dio» (Lumen Gentium, n. 5). Appartenere alla Chiesa significa che: « I credenti in Cristo, il Padre li ha voluti convocare nella santa Chiesa» (Lumen Gentium, n. 2). Possiamo dunque descrivere la crescita del Regno e la crescita della Chiesa negli stessi termini (Lumen Gentium, n. 5). Anzi, proprio nella crescita della Chiesa il Concilio scorge la crescita del Regno: « Cristo, per adempiere la volontà del Padre, ha inaugurato in terra il Regno dei cieli [...]. La Chiesa, ossia il Regno di Cristo già presente in mistero, per la potenza di Dio cresce visibilmente nel mondo » (Lumen Gentium, n. 3; cf. Dei Verbum, n. 17; Lumen Gentium, n. 13). La Chiesa pellegrinante è quindi « il Regno di Dio già presente in mistero », e mentre cresce, si protende verso il Regno compiuto, ma la sua crescita altro non è se non il compimento della sua missione: « La Chiesa riceve la missione di annunziare e instaurare in tutte le genti il Regno di Cristo e di Dio, e di questo Regno costituisce in terra il germe e l’inizio » (Lumen Gentium, n. 5). Questo richiamo della Chiesa, germe e inizio del Regno, esprime insieme l’unità e la differenza tra l’una e l’altro.

Chiesa e Regno convergono ancora nella maniera peculiare del loro crescere, che si realizza unicamente nella e mediante la conformazione a Cristo che dona la propria vita per la vita del mondo. Il Regno « patisce violenza » (Mt 11, 12) e, in ciò, la Chiesa non ha diverso destino, poiché « prosegue il suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio » (Sant’Agostino, cit. da Lumen Gentium, n. 8). La Chiesa è santa, pur annoverando nel proprio seno peccatori (Lumen Gentium, n. 8); e il Regno stesso « presente in mistero » (in mysterio) è, esso pure, nascosto nel mondo e nella storia, e perciò non ancora purificato dagli elementi che gli sono estranei (cf. Mt 13, 24-30; 47-49). In quanto mistero divino-umano, la Chiesa va oltre la socialis compago, o impianto sociale, della Chiesa cattolica (Lumen Gentium, nn. 8 e 13-17). Essere membra del Regno comporta un’appartenenza — almeno implicita — alla Chiesa.

10.3. La Chiesa è sacramento del Regno?

Per completare la dottrina del capitolo precedente dedicato alla Chiesa come sacramento, può essere utile domandarci qui se possiamo, a buon diritto, designare la Chiesa come il sacramento del Regno. D’altra parte, non si tratta solo di una questione di termi­nologia, ma di una vera questione teologica, alla quale il nostro studio ci permette di offrire una risposta circostanziata.

Osserviamo anzitutto che il Concilio non ha affatto adoperato tale espressione, anche se la parola sacramento è stata, come si è visto, usata in altri contesti. Potremo tuttavia ricorrere all’espressione « Chiesa, sacramento del Regno », purché naturalmente la si adoperi secondo il seguente quadro:

1. se applicato alla Chiesa, il termine sacramento viene adoperato in maniera analogica, come sottolinea il n. 1 della Lumen Gentium: Veluti sacramentum...

2. l’espressione considera il rapporto tra il Regno inteso nel suo pieno significato di compimento da un lato e, dall’altro, la Chiesa limitata al suo aspetto « pellegrinante »;

3. il termine « sacramento » vi è inteso nel suo pieno significato di iam praesens in mysterio (cf. Lumen Gentium, n. 3) della realtà (del Regno) nel sacramento (Chiesa pellegrinante);

4. la Chiesa non è puro segno (sacramentum tantum), ma la realtà significata è presente nel segno (res et sacramentum) come realtà del Regno;

5. la nozione di Chiesa non si limita al solo suo aspetto temporale e terreno e, inversamente, la nozione di Regno comporta una presenza hic et nunc in mysterio.

10.4. Maria, Chiesa già realizzata

Non è possibile leggere correttamente la Costituzione Lumen Gentium senza integrare l’apporto del capitolo Vili all’intelligenza del mistero della Chiesa. La Chiesa e il Regno trovano la loro più elevata realizzazione in Maria. Che la Chiesa sia già la presenza in mysterio del Regno, risulta evidente in maniera definitiva partendo da Maria, dimora dello Spirito Santo, modello della fede, Realsymbol della Chiesa. Per tale motivo il Concilio afferma riguardo a lei: « La Chiesa ha già raggiunto nella beatissima Vergine la perfezione che la rende senza macchia e senza ruga (cf. Ef 5, 27) » (Lumen Gentium, n. 65). La distanza, spesso dolorosa, tra la Chiesa pellegrinante e il Regno compiuto, è già percorsa in lei che, « assunta », « resa simile a suo Figlio risuscitato dai morti, già conosce in anticipo la condizione che tutti i giusti vivranno » (Paolo VI, Professione di fede, n. 15). Perciò, la Madre di Gesù « è l’immagine e la primizia della Chiesa che dovrà avere il suo compimento nell’età futura » (Lumen Gentium, n. 68).

 

* Testo della relazione approvata « in forma specifica » dalla Commissione Teologica Internazionale

 

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