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Card. Victor Manuel Fernández Prefetto del
Dicastero per la Dottrina della Fede
Il flusso reciproco tra teologia e vita
alla luce di San Bonaventura e di altri maestri
Conferenza per il Simposio monastico “Sapienza. Forma di vita e di pensiero”
Pontificio Ateneo Sant’Anselmo, Roma, 9 aprile 2025
I rapporti fra teologia e vita rappresentano una questione cruciale. Per “vita”
si intende sia l’esperienza spirituale che i comportamenti.
1. Con il termine “esperienza spirituale” intendo più precisamente “il
Vangelo vissuto” ovvero il Vangelo fatto proprio, assaporato, ringraziato,
goduto, ricevuto felicemente come dono per me, fino al punto che diventa
rapporto personale col Cristo che si rivela e rapporto con la Trinità che
penetra il cuore.
2. In secondo luogo, e come conseguenza di quanto sopra, parlo di “vita” nel
senso dell’esistenza concreta con i suoi comportamenti: non certo come il
compimento di un codice di leggi; sì, invece, come sentiva san Carlo di
Foucauld: agire come Cristo, domandarmi sempre cosa farebbe Cristo al mio posto,
e lasciarlo agire attraverso di me, permettere che sia Cristo ad esprimersi
attraverso il mio modo di vivere, di reagire, di comportarmi. In tutto ciò non
va poi dimenticato che in questo mondo dell’agire si deve sempre includere la
vita fraterna e comunitaria, il compromesso sociale e la missione.
Che rapporti ha la teologia con la “vita” intesa in questo duplice modo?
Diventare più buoni
Spicca nella storia della teologia un grande teologo che si caratterizza
precisamente per essere riuscito a unire saldamente teologia e vita: mi
riferisco a san Bonaventura. Quando si interrogava circa il servizio che la
teologia è chiamata a compiere, san Bonaventura lo faceva da discepolo di san
Francesco d’Assisi. Si chiedeva dunque che avrebbe detto al riguardo san
Francesco. E la risposta era facile da conoscere, perché sant’Antonio da Padova
aveva posto a san Francesco proprio la seguente domanda: “Lei che ne pensa? Io
prima di diventare un suo discepolo studiavo ed insegnavo teologia, vale la pena
che continui a farlo?”. Ed è a tutti noi che san Francesco ha risposto con una
letterina in cui utilizza le parole indispensabili: “A frate Antonio… Ho piacere che tu insegni la sacra teologia ai frati, purché
in questa occupazione, tu non estingua lo spirito dell’orazione e della
devozione”.
Conoscendo questa lettera, il grande teologo Bonaventura, quando si pose la
domanda: “a che serve la teologia?”, rispose senza dubbi: “per diventare più
buoni” (Brevil, prol, 5, 2). Se veramente la teologia è un approfondimento del Vangelo, la stessa teologia ci
motiverà all’ incontro d’amore col Signore nella preghiera e a cambiare i
comportamenti, a agire sempre di più come Cristo. Studiare la Trinità, ad
esempio, ci illumina per capire l’importanza della vita in comunità. Aver capito
che è Dio colui che ha voluto la diversità che esiste nel mondo, deve servirci
quando guardiamo le cose e la storia. Aver compreso l'infinita dignità che ogni
essere umano ha, dovrebbe provocare in noi gli atteggiamenti giusti ogni volta
che incontriamo un’altra persona. Avere inteso che Dio è veramente il senso
ultimo dell'esistenza deve orientarci quando pianifichiamo la nostra vita in
mezzo a tante incertezze e dubbi del nostro cammino.
Se lo studio non arricchisce la vita, diventa solo un cumulo di idee, un
esercizio di logica, una costruzione mentale, una dimostrazione di capacità
sistematiche, una vanagloria intellettuale che ci pone sopra gli altri che non
hanno queste abilità speculative.
Invece, in una teologia collegata alla vita esiste un circolo virtuoso. Infatti,
nella misura in cui tentiamo di vivere meglio, la nostra mente si apre per
capire più profondamente i misteri del Vangelo. L’amore vissuto provoca un
contatto con le realtà soprannaturali, e questo “contatto” trabocca e scende
come un fiume sulla mente, ed è così che l’intelletto si illumina e vede meglio.
Il fatto è, come afferma chiaramente la Parola rivelata: “Amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è stato
generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è
amore” (1 Gv 4, 7-8). Qui è tutto chiaro, eppure quanta fatica facciamo a
trarre le conseguenze di questo testo della Parola rivelata! Non riusciamo a
intuire che è un chiarimento essenziale sulla nostra ricerca della conoscenza di
Dio.
Questo testo biblico ha dietro di sé una storia che lo collega molto
strettamente col tema che stiamo approfondendo. Se leggiamo, infatti, il Vangelo
di Giovanni e poi la prima lettera di Giovanni, troviamo un’evoluzione che si
evidenzia in alcuni testi di questi due scritti. Nei tempi in cui vide la luce
la prima lettera a Giovanni erano apparsi alcuni gruppi di profilo pre-gnostico,
che proponevano una visione di Dio come luce che può essere raggiunta attraverso
la conoscenza. La vita rimaneva fuori. Allora la comunità giovannea ha fatto lo
sforzo di rileggere il Vangelo per eliminare questo rischio. Vediamo tre esempi.
Il Vangelo di Giovanni dice: “se avete conosciuto me conoscerete anche il Padre
mio, fin da ora lo conoscete” (Gv 14, 7). La prima Lettera dice: “Chi non ama
non ha conosciuto Dio” (1 Gv 4, 8).
Il Vangelo dice: “chi ascolta la mia parola e crede nel Padre che mi ha
mandato […] è già passato dalla morte alla vita” (Gv 5, 24). La prima
Lettera dice: “noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita
perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte” (1 Gv 3, 14).
Dove il Vangelo dice: “chi cammina nelle tenebre non sa dove va, mentre
avete la luce camminate nella luce” (Gv 3, 16) La prima Lettera dice: “chi ama suo fratello, dimora nella luce e non v'è in lui occasione di inciampo.
Ma chi odia suo fratello è nelle tenebre, cammina nelle tenebre e non sa dove
va” (1 Gv 2, 10-11).
Si vede bene l’operazione fatta con questi testi. La prima Lettera afferma
all’inizio che “Dio è luce e in lui non c’è tenebra alcuna” (1 Gv 1, 5), ma poi
sottolinea che, senza una vita di amore fraterno, non c’è luce: c’è soltanto una
finta saggezza.
Tutto ciò è stato fortemente accolto nel pensiero di Bonaventura, che arriva
infine a identificare la sapienza con l'esercizio della carità: “Maior
sapientia quae possit ese, est quod dispensator fructuose expendat quae habet
dispensare […] Misericordia amica est sapientiae” (De septem Donis 9, 15).
Un pensiero che cambia la vita?
Molte volte sorge una domanda: “se riusciamo ad approfondire una verità, ad
accettarla con convinzione, questo produce di per sé un cambiamento nella nostra
vita personale?” Verrebbe spontaneo rispondere di sì. Ma guardiamo semplicemente
alla storia. Non dobbiamo forse riconoscere che sono stati tanti i pensatori che
hanno espresso certe idee con grande convinzione, ma poi, nelle situazioni
concrete, si sono mossi esattamente in direzione contraria. Succede anche con
alcuni politici che sono di sinistra con ferma convinzione ma che poi, quando
governano, prendono decisioni tipiche della destra, e così via.
La stessa cosa accade con la teologia? L'approfondimento teologico diventa una
convinzione che automaticamente cambia la vita? Cominciamo col riconoscere che
non pochi che si sono macchiati del terribile delitto di pedofilia sono persone
con un pensiero molto classico, una morale piuttosto rigida e convinzioni molto
ferme sul sesto comandamento che impongono agli altri come uno che lancia
mattoni. E lo stesso si potrebbe dire di coloro che difendono con forza
un'opzione per i poveri e la argomentano magnificamente e anche con passione, ma
poi preferiscono non essere molto vicini ai poveri. Allo stesso modo, tante
belle riflessioni sulla Trinità come comunione, che inviterebbero pure a
riprodurre questo dinamismo nelle relazioni tra gli esseri umani, non
necessariamente producono, in chi le propone con molta bellezza, una vita
comunitaria intensa e generosa.
Si deve pertanto affermare che un pensiero, anche se è carico di riflessione, di
argomenti belli, di convinzione, non cambia spontaneamente la vita, non produce
un tale effetto da solo. Cosa direbbe un maestro come San Bonaventura, che aveva
un pensiero mistico ed evangelico, fortemente ispirato dalla spiritualità di San
Francesco, con una teologia piena di poesia e di espressioni di amore per Gesù
Cristo? Cosa direbbe su questo punto? Non c'è bisogno di immaginarlo perché egli
dice esplicitamente al riguardo: “Non est securus transitus a scientia ad
sapientiam” (In Hexaem. 19, 3). La conoscenza teologica, per quanto
bella possa essere, non ci assicura l'accesso alla sapienza, che è una
conoscenza già resa viva dalla carità. Ma questa verità non sempre ci è chiara e
facilmente si può credere che il fatto di aver capito qualcosa implichi il fatto
di viverla già.
E se questo passaggio non è garantito, automatico, immediato, allora come
avviene il passaggio dalla conoscenza alla vita? Bonaventura risponde senza
esitazione: “Oportet medium ponere” (ib). E spiega pure quale sia
questo “medium”: “Transitus autem est exercititum”: Il passaggio dalla
conoscenza alla vita è un “esercizio” (ib). E continua: “exercitatio
a studio sapientiae ad studio sanctitatis”. Vale a dire: anche se non
possediamo una scienza superficiale, perché c'è già una vita di grazia che ci fa
entrare nell'ambito della sapienza, lo studio ha sempre bisogno del nostro
impegno per “esercitare” il Vangelo, perché soltanto così il Vangelo potrà avere
qualche conseguenza nella nostra crescita vitale. Ecco cos'è quello che
Bonaventura chiama “sapientialia exercitia” (De Regno Dei, 34),
riferendosi in particolare alle opere di misericordia.
Le scelte necessarie
A questo pensiero san Bonaventura aggiunge che un'opzione preferenziale è
indispensabile nel nostro percorso intellettuale: la conoscenza e la vita sono
due aspetti complementari, belli e necessari, ma non hanno lo stesso valore. Per
raggiungere la propria pienezza umana, la cosa più importante, la cosa
indispensabile, è la vita. Ecco perché conclude: “Qui enim praefet scientiam
sanctitati nunquam prosperabitur” (ib). Se in fondo, dunque, abbiamo
optato per la scienza, sia per curiosità, sia anche per impressionare gli altri
o per qualsiasi altro motivo, in verità abbiamo scelto una strada infruttuosa.
Tuttavia, Bonaventura riconosce che alcuni temi della teologia possono aiutarci
più di altri a favorire una maturazione nella nostra vita ed una maggiore
fedeltà al Vangelo. Ecco perché suggerisce che, se siamo chiari sul significato
della nostra esistenza, c'è un secondo livello di scelta a cui dobbiamo prestare
attenzione. È necessario, infatti, stabilire un certo ordine tra i temi che
affrontiamo nello studio: “Quo ordine, ut id prius addiscat quod maturius est
ad salutem”, invitandoci pure a preferire “quod vehementius trahit ad
amorem Dei” (De septem Donis 4, 23).
Bisogna ricordare che si tratta di un invito alla sintesi, a penetrare il cuore
del Vangelo piuttosto che i suoi aspetti secondari. In questo senso Papa
Francesco elogia santa Teresa de Lisieux come “dottore della sintesi”, perché
“il suo genio consiste nel portarci al centro, a ciò che è essenziale, a ciò che
è indispensabile”, e come teologi “abbiamo ancora bisogno di recepire questa
intuizione geniale di Teresina e di trarne le conseguenze teoriche e pratiche” (C’est
la Confiance, 49-50).
Allo stesso tempo, Bonaventura sottolinea la necessità di stabilire delle
priorità negli obiettivi che ci poniamo quando studiamo: “non propter inanem
gloriam aut curiositatem, sed propter aedificationem suam et proximi addiscat”
(ib). In questo testo è importante notare che san Bonaventura non chiama
in causa solo a ciò che può edificare noi stessi, ma anche ciò che può edificare
di più il prossimo. In una tale ricerca, allora, non c’è soltanto scienza, ma si
esercita proprio la virtù della carità. Questo ci porta al prossimo argomento.
Aliis tradere
La “vita” include pure la comunicazione di quello che abbiamo vissuto. Anche se
siete monaci, la conoscenza teologica diventa piena nella comunicazione, almeno
tra voi. La comprensione, infatti, raggiunge il suo apice e mostra la sua
autenticità quando può essere espressa nella lingua dell'altro. Se il teologo
non lo fa, è perché la verità su cui ha riflettuto non è stata da lui
sufficientemente penetrata e proprio per questo non può portare frutto.
L'esperienza teologica è comunicativa per sua stessa natura. Un'autentica
comprensione produce da sé il bisogno imperativo di essere comunicata, come un
fuoco interiore impossibile da spegnere: "Guai a me se non predicassi il
Vangelo!" (1 Cor 9,16).
E la teologia si fa anche attraverso metafore, come insegnava san Tommaso (cfr.
ST I, 1, 9). Già la
Evangelii Nuntiandi aveva chiarito che si
tratta di una questione molto più profonda e ampia delle parole che usiamo. Si
tratta di linguaggio in senso antropologico.[1]
Allora il compito di cercare le espressioni metaforiche giuste presuppone che
uno abbia prima fatto un grande sforzo per penetrare nelle categorie dell'altro,
nella sua sensibilità, nelle passioni che lo muovono, nel suo modo di guardare e
di vivere il mondo, tenendo altresì conto di quello che Dio stesso sta tentando
di dire attraverso queste circostanze storiche. Presuppone, in sintesi, una
lettura della realtà che ci permetta di penetrarla. In questo senso, Papa
Francesco sottolineava che è necessario che i teologi “abbiano a cuore la
finalità evangelizzatrice della Chiesa e non si accontentino con una teologia da
tavolino” (EG 133).
Questo sforzo, allora, può essere fatto anche da un monaco e non l’allontana
affatto dalla contemplazione. In che modo? Approfittando soprattutto della vita
comunitaria, nella quale è possibile avere momenti di condivisione di quello che
ciascuno scopre nella sua ricerca ed esperienza personale. Questo lo facevano i
nostri grandi santi e maestri come san Benedetto, sant’Agostino, san Bernardo ed
altri. Si tratta, in un incontro fraterno, di tentare di esprimere all’altro
quello che ci ha illuminato e cercare le parole e le metafore perché
quest’esperienza sia utile anche per lui. Allo stesso tempo, è importante e
molto fruttuoso recepire la visione dei nostri interlocutori per poter ripensare
le nostre idee. Questo ci ricorda, infine, che c’è una costruzione comunitaria
della teologia, e la teologia ha oggi scoperto meglio il valore del “noi” nel
metodo teologico.
Ma su questo punto possiamo andare oltre. Trovare, infatti, un modo di dire la
verità al mondo attuale non è finalizzato necessariamente solo per svolgere
un’attività missionaria o per arricchirci a vicenda nell’incontro con gli altri.
Quell’operazione è preziosa prima di tutto proprio per capire aspetti
della verità che lo Spirito sta tentando di trasmettere nel mondo di oggi. Le
metafore non si usano solo per trasmettere vecchie idee al mondo d’oggi, ma
anche per poter capire attraverso la metafora, o la poesia, o la pittura, o la
musica, quello che con altri linguaggi non si coglie del tutto. E questo è
prezioso anche per un monaco che non per caso è nato in questo secolo. C’è una
contemplazione della verità che, essendo eterna, presenta diversi aspetti nei
diversi luoghi e nei diversi momenti storici, e anche la contemplazione si
incarna e si arricchisce nell’oggi. Se Dio ci ha regalato il dono di nascere in
questo tempo storico, dobbiamo incarnarci in questo momento storico e cogliere
quello che offre per la nostra comprensione della verità. È lo stesso Spirito
Santo chi ci parla nella storia, e noi cogliamo la Sua voce anche attraverso il
dialogo con le filosofie, con le scienze, così come attraverso il dialogo con i
più poveri e i più semplici del Popolo di Dio, perché loro guardano la realtà da
un altro punto di vista. Grazie a questa incarnazione nel nostro oggi accade poi
che, anche quando studiamo san Bernardo o san Bonaventura, troviamo nei loro
testi delle luci che nel nostro contesto attuale dicono qualcosa di nuovo, che
di fatto è “nuovo” anche per loro che hanno vissuto in un altro ben diverso
contesto storico.
La comprensione dietro la comunicazione
Detto tutto questo, guardiamo ora anche l'altra faccia della realtà. Chi non
legge, non studia, non riflette, finisce per ripetere le stesse cose e tutto
diventa noioso. La verità del Vangelo non cambia, è la stessa di sempre, ma non
possiamo ripeterla, neanche a noi stessi, sempre allo stesso modo, perché così
stanca, perde fascino, ci porta a una triste mediocrità.
Siamo chiamati a comunicare una comprensione profonda delle verità della fede,
non solo una certezza interiore. Per comunicare una certezza interiore, basta
provocare nell’altro una certa esperienza di fede attraverso una testimonianza
di vita, che non ha neppure bisogno di parole. Ma la fede porta in sé anche la
chiamata a utilizzare al meglio la nostra capacità di pensare, per poter
comunicare una verità sulla quale abbiamo riflettuto.
È vero che la comprensione può essere semplicemente la connaturalità,
l'abbraccio che produce l'esperienza dell'amore teologale, la luce della
sapienza soprannaturale. Si tratta di un vero contatto con la verità del Vangelo
prodotto dalla grazia stessa (cfr. ST II-II, 45, 2). Questo vale non solo
per il mistero della Trinità, ma per tutti i temi della teologia. In questo
senso, una persona molto semplice che vive la verginità con gioia sa quale sia
l’essenza della virginità molto meglio di un teologo che la spiega. Bonaventura
lo esprime in questo modo: “Nobilior est modus aprehendi per tactus et
amplexus quam per modum visus” (III Sent 27, 2, 1, ad 6).
Questa è una conoscenza accessibile a tutti, senza esigenze accademiche. È vero.
Ma tutto questo non esclude un altro cammino: quello dello sforzo e della gioia
costanti della teologia. Non tutti scriveranno articoli di teologia o terranno
conferenze, ma tutti in certa misura devono essere teologi e fare un uso
eccellente della loro intelligenza per la gloria di Dio.
Quando Dio ti chiama all'incontro con Lui e alla missione, non ti strappa la
testa, non mutila il tuo cervello, non deturpa la tua capacità di riflessione,
non distrugge la facoltà di pensiero che Lui stesso ha creato in te con amore
infinito. Al contrario, promuove la nostra intelligenza perché si sviluppi più
che mai al servizio del Vangelo. Così l’evangelizzazione diventa, come spiegava
san Tommaso d’Aquino, "comunicare ciò che è stato contemplato" (ST
II-II, 188, 6); essa suppone cioè l'aver contemplato, richiede l'aver dedicato
un prolungato spazio di solitudine e di ricerca allo studio orante, e l'aver
perseverato in questa dedizione.
Questa fondamentale esperienza sapienziale, tanto ardua quanto confortante, si
traduce in ciò che san Paolo VI ha splendidamente espresso come "culto della
verità”:
"Il Vangelo che ci è stato affidato è anche parola di verità. Una verità che
libera [...] Una verità profonda che cerchiamo nella Parola di Dio e di cui non
siamo né i proprietari, né gli arbitri, ma i depositari, gli eredi, i servi. Ci
si aspetta che ogni evangelizzatore possieda il culto della verità [...] Il
predicatore del Vangelo sarà colui che, anche a costo della rinuncia e del
sacrificio, cercherà sempre la verità che deve trasmettere agli altri. Non vende
né maschera mai la verità per il desiderio di piacere agli altri, per suscitare
stupore, o per originalità o per desiderio di apparire. Non rifiuta mai la
verità. Non la oscura per pigrizia nel cercarla, per comodità, per paura. Non
smette di studiarla" (EN 78).
Se uno non dedica tempo alla lettura, alla riflessione, a porsi delle domande e
cercare le risposte oltre quanto si è sempre detto, si diventa facilmente
fondamentalisti, che ripetono due o tre frasi come se fossero assolute, e le
buttano addosso agli altri con violenza ed arroganza come sassi. Quello non è
amore alla verità. Chi ama la verità si sente sempre superato, immerso in un
mare inesauribile, e continua a cercare una comprensione più profonda. Per
questa ragione Papa Francesco ci invitava ad evitare l’atteggiamento di coloro
che si sentono padroni della loro verità perché rimangono chiusi in un unico
approccio ad essa, incapaci di fare lo sforzo di capire le ragioni di altri
pensieri: “A quanti sognano una dottrina monolitica difesa da tutti senza
sfumature, ciò può sembrare un’imperfetta dispersione. Ma la realtà è che tale
varietà aiuta a manifestare e a sviluppare meglio i diversi aspetti
dell’inesauribile ricchezza del Vangelo” (EG 40).
L'opposto del fondamentalismo è una santa insoddisfazione che San Giovanni della
Croce esprime così bene:
“Questo spessore di saggezza e conoscenza di Dio è così profondo e immenso che,
sebbene l'anima ne sappia di più, può sempre entrare più in profondità. Perché è
immenso e le sue ricchezze sono incomprensibili [...] L'anima desidera entrare
in questa boscaglia e incomprensibilità dei giudizi e dei sentieri, perché muore
nel desiderio di giungere alla conoscenza di essi nel profondo. Perché
conoscere, in essi, è una delizia inestimabile che supera ogni senso”(Cant 36, 10-11).[2]
Buio, contatto e ricerca
I grandi mistici hanno sempre insegnato che, più si sale in alto, maggiore è la
sensazione di oscurità nella mente ed ogni pretesa di abbracciare la verità con
le proprie capacità scompare, fino a quando si diventa pienamente ricettivi,
lasciandosi afferrare dalla luce di Dio. Allora prende forma e vita una nuova
specie di saggezza. Vediamo come si sono espressi alcuni maestri:
“È necessario che tutte le operazioni intellettuali siano abbandonate, e che
l’apice dell'affetto sia trasferito interamente a Dio e tutto sia trasformato in
Dio. E questa è l'esperienza mistica più segreta, che nessuno conosce se non chi
la riceve, e nessuno la riceve se non chi la desidera, e nessuno la desidera se
lo Spirito Santo non lo infiamma fino al midollo... Se volete sapere come si fanno queste cose, chiedete la grazia, non la
conoscenza umana; chiedete il desiderio, non la comprensione; chiedete il gemito
espresso nella preghiera, non lo studio e la lettura; chiedete allo Sposo, non
al Maestro; chiedete a Dio, non all'uomo; chiedete le tenebre, non la luce; non
la luce, ma al fuoco...” (S. Bonav. Itiner. VII, 4-6).
“Non di conoscenza, ma di godimento; non di ammirazione, ma di affetto; non
della scienza, ma dell'esperienza; non di vista, ma di gusto e di sapore”
(S. Francesco di Sales, Trat. amore Dio, V, 3).[3]
“Dio prende la volontà, ma mi sembra che prenda anche l'intelletto, perché non
ragiona, ma è occupato a godere di Dio come uno che guarda, e vede così tanto
che non sa dove guardare” (S. Teresa d’Avila, Vida, XII).[4]
“Per venire a sapere tutto, non devi voler sapere qualcosa di niente... Per
arrivare a ciò che non sai, devi andare attraverso dove non sai” (S.
Giovanni della Croce, Subida, I, 13, 11).[5]
Paradossalmente, però, c’è da riconoscere che le considerazioni sin qui
riportate non diminuiscono l'importanza della teologia; soltanto la collocano
propriamente, come umile serva, in un contesto che la supera e al tempo stesso
la stimola provocando il "culto della verità". Le altezze non ci portano fuori
dalla terra, al contrario, ci permettono di entrare nelle profondità di questo
mondo. Vedete che qualcuno raggiunge quelle vette in una pienezza di sapienza,
nel luminoso non sapere, e nello stesso tempo forse è maestro dei novizi e deve
esporre un tema, o deve predicare a Messa, o deve tenere una lezione, e per
questo ha ancora bisogno di studiare e prepararsi. Quella conoscenza mistica,
infatti, così profonda e personale, non è comunicabile: "Il mio segreto è per
me", diceva Angela de Foligno, e non lo ha nemmeno comunicato al suo direttore
spirituale. Per questa ragione vi è il bisogno di dare forma ad un altro modo di
sapere che sia comunicabile.
D'altra parte, resta vero che, se portato avanti nel modo giusto, un
approfondimento teologico può sempre continuare a stimolare una nuova crescita
nella vita di carità. Si danno, dunque, due livelli, due modi di conoscere, due
percorsi diversi che convivono e si completano a vicenda.
Attività piena
La nostra ricerca della verità, intesa in questo senso così ricco, permette poi
che l'azione pastorale possa essere al tempo stesso contemplazione, cioè
"comunicazione di ciò che si sta contemplando" e non solo di quello che
si è contemplato. Per san Tommaso, questa è la cosa più perfetta che possiamo
vivere su questa terra, poiché combina la perfezione della contemplazione con la
perfezione del dono di sé nell'azione (cf. ST II-II, 188, 6-7; 181, 3).
Quando questo accade, l'azione acquista una qualità interiore tale che il
teologo non fa fatica quando comunica, non si angoscia di uscire dalla sua
solitudine riflessiva se deve predicare o insegnare, perché nella comunicazione
contemplativa il suo carisma teologico diventa pieno. L'azione comunicativa a
sua volta, come esercizio della carità, predispone a una migliore contemplazione
(cf. ST II-II, 182, 4, ad 3).
Questo richiamo alla comunicazione contemplativa presuppone un tempo di studio
svolto con grande adesione interiore. Non possiamo più intendere lo studio come
un momento di sonno, in cui si rinuncia alla vita per entrare in una sorta di
inutile letargo. La ricerca della verità è piena attività. È una ricettività ed
un invito ad aprirsi alla verità, ma con piena consapevolezza e donazione di sé,
con la massima attenzione, come chi ascolta il proprio amico con totale
interesse. Si tratta di un’esperienza che possiamo accostare a quella della vita
eterna, dove non fabbricheremo né costruiremo nulla: sarà solo atto pieno, vita
piena. Proprio per questo Bonaventura esortava: “Non spingerti oltre le tue
capacità, ma non rimanere in basso” (In Hexaem. 19,19).
L’importanza dell’inizio
Abbiamo ricordato con san Bonaventura che è importante custodire la finalità per
la quale studiamo, lo sforzo di collegare lo studio all’impegno a vivere meglio,
e che bisogna stare attenti anche alle scelte che facciamo e all’ordine delle
cose da studiare, in modo tale che si studi in via prioritaria quello che possa
meglio arricchire la vita.
Possiamo immaginare ancora qualcosa d’altro che possa dare allo studio quella
qualità che lo fa diventare veramente fecondo? La risposta a questo
interrogativo è positiva: diventa veramente fecondo quello studio che si svolge
nel contesto di un intenso desiderio che va alimentato dalla preghiera:
“Non est enim anima contemplativa sine desiderio vivaci” (In Hexaem. 22, 29).
“Nullus habet, nisi vir desiderium, nec potest [hanc visionem] habere nisi per
magnum desiderium” (In Hexaem. 20, 1).
“Nunquam venit in contemplatione radius spendoris quin etiam sit inflammans” (In
Hexaem. 20, 12).
La preghiera che esprime e alimenta questo desiderio deve essere un autentico
"gemito"; è una preghiera che "rugire facit a gemitu cordis" (Itin.,
prol, 3). Questo gemito orante è ciò che ci tiene al riparo da uno studio senza
uno scopo adeguato e ci porta a riconoscere la necessità della grazia anche nel
lavoro teologico: “Igitur ad gemitum orationis per Christum crucifixum [...]
primus quidem lectorem invito, ne forte credat quod sibi sufficiat lectio sine
unctione, speculatio sine devotione, investigatio sine ammirazione...” (ib, 4a).
Se si inizia a studiare con un tale spirito di preghiera, allora è possibile
sviluppare una teologia che nutre veramente la vita: “Prevenitus igitur
divina gratia, humilibus et pius, compunctis et devotis, unctis oleo laetitiae,
et amatoribus divinae sapientiae et eius desiderius inflammatis, vacare
volentibus ad Deum magnificandum, admirandum et etiam degustandum, speculationes
subiectas propono” (ib, 4b).
Dall'amore all'amore
Non ci resta da ricordare che il nostro sforzo di penetrare la verità e lo
sforzo di comunicarla sono uniti da una sola cosa: sono uniti dall'amore.
Non dal desiderio di farsi notare né dall’ossessione di accumulare dati e
conoscenze: “…ad amorem Dei, quo fine, ut non propter inanem gloriam aut
curiositatem, sed propter aedificationem suam et proximi addiscat” (De
septem Donis 4, 23).
Sia la scienza che la profezia, senza amore, “non ci servono a nulla” (cfr. 1
Cor 13,1-3). L'amore ha molto a che fare con la migliore conoscenza teologica.
Quando lo studio è condotto in modo tale da infiammare l'affetto e la carità, la
stessa intelligenza viene illuminata e rettificata: "Debent ergo istae
illustrationes intrare in affectum, ut intellectus rectificetur" (In
Hexaem. 18:3). La stessa conoscenza della verità si arricchisce: “Cognitio
experimentalis de divina suavitate amplificat cognitionem speculativam de divina
veritate” (III Sent, 34, I, 2, 2, ad 2). C’è una “redundantia”
dall’esperienza d’amore all’intelligenza che fiorisce con una nuova luce, in
modo tale che chi sa meglio è quello che ama di più.
A sua volta, lo sforzo speculativo mosso dal dinamismo dell'amore aggiunge nuove
ragioni all'amore. Perché tutta la realtà scaturisce dall'amore di Dio, è
attraversata da quell'amore, e tutto è orientato all'amore. È il motore che
muove l'universo e gli dà significato. Ecco perché Bonaventura diceva che il
frutto più grande di tutte le scienze è la carità ("fructus omnium
scientiarum": De red art. 26). Il fine di tutte le conoscenze, e in
particolare di tutta la Scrittura, è quello di stimolare un atto d'amore:
“…per caritatem, ad quam terminatur tota intentio sacrae Scripturae, et per
consequens omni illuminatio desursum descendens, et sine qua omnis cognitio vana
est” (ib).
E’ lì che si trova la pienezza umana e soprannaturale. Come abbiamo già detto,
tutto ciò presuppone un cammino, poiché nessuna conoscenza, nemmeno quella
teologica, produce di per sé una crescita nell'amore. Quest’ultima accade solo
quando ad ogni progresso della conoscenza speculativa si unisce un nuovo
tentativo di amare di più, un nuovo esercizio di autotrascendenza che ci apre e
ci avvicina agli altri. Per questo, ogni dono di sé che il teologo fa, ogni
rinuncia per il bene degli altri, lo orienterà verso il fine ultimo della
teologia: crescere nell'amore e, in definitiva, essere più buono. A motivo di
questo circolo virtuoso, nel riconoscimento gratuito dell'altro si produce la
disposizione migliore per giungere a un nuovo approfondimento teologico, si
aprono maggiormente gli occhi perché la speculazione giunga a una nuova
penetrazione del Mistero. Infatti, ci sono delle opere che non impediscono la
contemplazione, ma la facilitano (“faciliorem facit”), come le opere di
misericordia (IV Sent 37, 1, 3, ad 6). Perché finalmente la perfezione
della contemplazione si raggiunge solo quando, oltre a contemplare Dio
nell'intimità, riusciamo a scoprirlo negli altri (cf. II Sent 23, 2, 3).
Notiamo che ci troviamo di fronte a una concezione della teologia che presuppone
una visione unitaria ed armonica di tutto il reale, naturale e
soprannaturale, dell'intimità e del mondo esterno, della conoscenza e della
vita. Non ci sono contraddizioni perché tutto scaturisce dall'unico Dio che è
amore. In questo contesto unitario e integrale, è possibile comprendere una
procedura metodologica proposta da Bonaventura, che al di fuori di questo quadro
non sarebbe accettabile. Questo è ciò che viene chiamato argomento “ex
pietate". Consiste in quanto segue: quando di fronte a due opinioni diverse
non è facile concludere, perché nessuna di esse ha un fondamento molto solido
nella Scrittura (II Sent 26, 1, 2) o perché non presentano argomenti
decisivi a loro favore (II Sent 13, 2, 2), si deve scegliere quella che
muove più alla pietà verso Dio e verso il prossimo: "A pietati [...] magis
est consona, et propterea est magis secura" (II Sent 26, 1, 2). Non
per pragmatismo, ma perché sicuramente questa è la verità. Data l'unità che
esiste tra tutto ciò che è reale, la verità tende all'amore, verità e amore sono
due aspetti della stessa medaglia.
Il dolore e la pazzia
In questo modo capiamo finalmente le ragioni per cui un buon teologo è qualcuno
che si preoccupa sempre delle persone, qualcuno che è capace di soffrire per e
con gli altri. È difficile pensare oggi che una teologia autentica e solida
possa scaturire da una comodità individualista, indifferente e apatica. In tal
senso possiamo ripetere san Giovanni della Croce: “Non si può giungere al
spessore e alla sapienza delle ricchezze di Dio senza entrare in molti modi
nella selva della sofferenza” (Cant. 36,13). In un siffatto cammino
teologico, l’offerta che facciamo a Dio del nostro pensiero integra tutto: le
fatiche di ogni giorno, le difficoltà del lavoro, i problemi della famiglia e
della comunità, le stanchezze nel servizio, i dolori della comunione ecclesiale.
Tutto questo, se non si traduce in un mero lamento egocentrico e diventa un
dolore d'amore, feconda il nostro pensiero, riempie la nostra vita di
significato e ci dona qualcosa di reale da comunicare agli altri.
Guardiamo all'esempio di san Paolo, che è stato il più teologico degli autori
biblici, ma allo stesso tempo è stato il più missionario, capace di soffrire con
il suo popolo. Ecco alcuni passaggi dalle sue lettere:
"Sono diventato debole con i deboli per guadagnare i deboli. Mi sono fatto tutto
in tutti per salvare alcuni ad ogni costo» (1 Cor 9,22).
"Chi sviene senza che io svenga? Chi soffre lo scandalo senza che io bruci
dentro?" (2 Cor 11,29).
"Figli miei, per i quali soffro di nuovo le doglie del parto!" (Gal 4,19).
Paolo non conosceva una vita tranquilla né riusciva a capire l’ossessione di
molti per il piacere, per il comfort o per il riposo. Anche quando riceveva un
po' di conforto da Dio, pensava che si trattava di un dono da trasmettere agli
altri: “Dio ci consola in tutte le nostre sofferenze, perché diamo a coloro
che soffrono la stessa consolazione che noi riceviamo da Dio” (2 Cor 1,4).
Come diceva san Giovanni della Croce, “la sofferenza è un mezzo per entrare più a fondo nella giungla della deliziosa
sapienza di Dio, perché la sofferenza più pura porta la comprensione più intima
e pura, e di conseguenza la gioia più pura e più alta” (Cant, 36, 12).[6]
Il cardinale Martini ha espresso questa medesima verità utilizzando categorie
esistenziali, riferendosi alla necessità di passare attraverso una prova limite,
come chi si trova sull'orlo dell'abisso, nella solitudine più radicale, per
potersi aprire veramente al mistero di Dio che si rivela.[7]
Certamente, la contemplazione di Cristo sulla Croce, che ama sino alla fine, può
propiziare una teologia che ci fa più ricettivi di fronte a questo mistero. Così
ci permette di accettare nell’amore la croce di ogni giorno che poi alimenta la
sapienza. A questo punto ci è di aiuto un racconto -che se non è vero e ben
trovato e che stato immortalato sulla tela da Zurbaran- circa una riunione tra
san Bonaventura e san Tommaso d’Aquino. Quest’ultimo, dopo aver ascoltato una
bella argomentazione di Bonaventura, gli avrebbe domandato: qual è la fonte da
dove hai preso questi argomenti? A quel punto Bonaventura si sarebbe messo in
piedi, tolto un velo da un muro e, mostrandogli il Crocifisso, gli avrebbe
risposto: "Questa è la fonte".
Il racconto è coerente con il pensiero di Bonaventura perché è sua l’insistenza
sul fatto che "la Croce è il libro della sapienza" (In Parasceve, sermo
2) e che "tutto si manifesta nella Croce" (Tripl. Via 3, 3). Allo stesso
tempo egli spiega pure che l'amore e la bellezza che si manifestano nella Croce
sono qualcosa di "sopraeccedente" (III Sent 1, 2, 4, ad 1),[8] "smodato" (III Sent, 1, 2, 1, ad 2. 2), "stolto" (Vitis Myst,
3, 5-6) e "pazzo" (II Sent 16, 2, 1)[9]. Ed in modo quasi spontaneo, proprio parlando sulla Croce, conclude il suo
ragionamento lanciando come una provocazione ai saggi di questo mondo: "Haec
est logica nostra" (In Hexaem, 1, 30), "questa è la nostra logica".
Víctor Manuel Card. Fernández
[1] "Il linguaggio deve essere compreso qui non tanto a livello semantico o
letterario, ma a quello che si potrebbe definire antropologico o culturale [...]
tenendo conto delle persone concrete con i loro segni e simboli, e
rispondendo alle domande che suscitano" (EN 63).
[2] “Esta espesura de sabiduría y ciencia de Dios es tan profunda e inmensa, que,
aunque más el alma sepa de ella, siempre puede entrar más adentro. Porque es
inmensa y sus riquezas son incomprensibles… El alma desea entrar en esta
espesura e incomprensibilidad de juicios y vías, porque muere en deseos de
llegar en el conocimiento de ellos muy adentro. Porque el conocer en ellos es un
deleite inestimable que excede todo sentido”.
[3]“...un ravissement non de connoissance mais de jouissance, non d'admiration mais
d'affection, non de science mais d'expérience, non de veue mais de goust et de
savourement”.
[4]“Dios toma la voluntad, pero me parece que toma también el entendimiento, porque
no discurre, sino que está ocupado gozando de Dios como quien está mirando, y ve
tanto que no sabe hacia dónde mirar”.
[5]“Para venir a saberlo todo, no quieras saber algo en nada… Para venir a lo que
no sabes, has de ir por donde no sabes”.
[6] “El padecer es un medio para entrar más adentro en la espesura de la deleitable
sabiduría de Dios, porque el más puro padecer trae el más íntimo y puro
entender, y por consiguiente el más puro y subido gozar”.
[7] Cf. C. M. MARTINI,
Las confesiones de Pedro, Estella, 1994, 72.76.
[8]"Consummatio omnem consumationem superexcedens".
[9]"Propter nimiam caritatem": De septem Donis 1, 6.
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