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VIDEOMESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
IN OCCASIONE DEL IV INCONTRO MONDIALE DEI MOVIMENTI POPOLARI

[Multimedia]

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Sorelle, fratelli, cari poeti sociali!

1. Cari poeti sociali

Così mi piace chiamarvi, “poeti sociali”. Perché voi siete poeti sociali, in quanto avete la capacità e il coraggio di creare speranza laddove appaiono solo scarto ed esclusione. Poesia vuol dire creatività, e voi create speranza. Con le vostre mani sapete forgiare la dignità di ciascuno, quella delle famiglie e quella dell’intera società con la terra, la casa e il lavoro, la cura e la comunità. Grazie perché la vostra dedizione è parola autorevole, capace di smentire i rinvii silenziosi e tante volte “educati” a cui siete stati sottoposti, o a cui sono sottoposti tanti nostri fratelli. Ma pensando a voi credo che la vostra dedizione sia principalmente un annuncio di speranza. Vedervi mi ricorda che non siamo condannati a ripetere né a costruire un futuro basato sull’esclusione e la disuguaglianza, sullo scarto o sull’indifferenza; dove la cultura del privilegio sia un potere invisibile e insopprimibile e lo sfruttamento e l’abuso siano come un metodo abituale di sopravvivenza. No! Questo voi lo sapete annunciare molto bene. Grazie.

Grazie per il video che abbiamo appena condiviso. Ho letto le riflessioni dell’incontro, la testimonianza di quello che avete vissuto in questi tempi di tribolazione e di angoscia, la sintesi delle vostre proposte e delle vostre aspirazioni. Grazie. Grazie di rendermi partecipe del processo storico che state attraversando e grazie di condividere con me questo dialogo fraterno, che cerca di vedere il grande nel piccolo e il piccolo nel grande, un dialogo che nasce nelle periferie, un dialogo che giunge a Roma e nel quale tutti possiamo sentirci invitati e interpellati. «Per incontrarci e aiutarci a vicenda abbiamo bisogno di dialogare» (Enc. Fratelli tutti, 198), e quanto!

Avete avvertito che la situazione attuale meritava un nuovo incontro. Lo stesso ho sentito io. Anche se non abbiamo mai perso il contatto – sono già passati sei anni, credo, dall’ultimo incontro generale –. In questo tempo sono successe molte cose, tante sono cambiate. Si tratta di cambiamenti che segnano punti di non ritorno, punti di svolta, crocevia in cui l’umanità è chiamata a scegliere. Occorrono nuovi momenti di incontro, discernimento e azione congiunta. Ogni persona, ogni organizzazione, ogni Paese, e il mondo intero, ha bisogno di cercare questi momenti per riflettere, discernere e scegliere. Perché ritornare agli schemi precedenti sarebbe davvero suicida e, se mi consentite di forzare un po’ le parole, ecocida e genocida. Sto forzando!

In questi mesi molte delle cose da voi denunciate sono risultate del tutto evidenti. La pandemia ha fatto vedere le disuguaglianze sociali che colpiscono i nostri popoli e ha esposto – senza chiedere permesso né scusa – la straziante situazione di tanti fratelli e sorelle, quella situazione che tanti meccanismi di post-verità non hanno potuto occultare.

Molte cose che davamo per scontate sono cadute come un castello di carte. Abbiamo sperimentato come, da un giorno all’altro, il nostro modo di vivere può cambiare drasticamente, impedendoci, per esempio, di vedere i nostri familiari, compagni e amici. In molti Paesi gli Stati hanno reagito. Hanno ascoltato la scienza e sono riusciti a porre limiti per garantire il bene comune e hanno frenato almeno per un po’ questo “meccanismo gigantesco” che opera in modo quasi automatico, dove i popoli e le persone sono semplici ingranaggi (cfr S. Giovanni Paolo II, Enc. Sollicitudo rei socialis, 22).

Tutti abbiamo subito il dolore della chiusura, ma a voi come sempre è toccata la parte peggiore. Nei quartieri privi di infrastrutture di base (dove vivono molti di voi e milioni e milioni di persone), è difficile restare in casa; non solo perché non si dispone di tutto il necessario per portare avanti le misure minime di cura e di protezione, ma semplicemente perché la casa è il quartiere. I migranti, le persone prive di documenti, i lavoratori informali senza reddito fisso si sono visti privati, in molti casi, di qualsiasi aiuto statale e impossibilitati a svolgere i loro compiti abituali, aggravando la loro già lacerante povertà. Una delle espressioni di questa cultura dell’indifferenza è che sembrerebbe che questo “terzo” sofferente del nostro mondo non rivesta sufficiente interesse per i grandi media e per chi fa opinione. Non appare. Rimane nascosto, “rannicchiato”.

Voglio fare riferimento anche a una pandemia silenziosa che da anni colpisce i bambini, gli adolescenti e i giovani di ogni classe sociale; e credo che, in questo tempo d’isolamento, sia cresciuta ancora di più. Si tratta dello stress e dell’ansia cronica, legata a diversi fattori come l’iperconnettività, lo smarrimento e la mancanza di prospettiva di futuro, che si aggrava senza un vero contatto con gli altri – famiglie, scuole, centri sportivi, oratori, parrocchie –; insomma, si aggrava per la mancanza di un vero contatto con gli amici, perché l’amicizia è la forma in cui l’amore risorge sempre.

È evidente che la tecnologia può essere uno strumento di bene, ed è uno strumento di bene, che permette dialoghi come questo e tante altre cose, ma non può mai sostituire il contatto tra noi, non può mai sostituire una comunità in cui radicarci e in cui far sì che la nostra vita diventi feconda.

E, parlando di pandemia, non possiamo non interrogarci sul flagello della crisi alimentare. Nonostante i progressi della biotecnologia, milioni di persone sono state private di alimenti, benché questi siano disponibili. Quest’anno venti milioni di persone in più si sono viste trascinate a livelli estremi di insicurezza alimentare, salendo a [molti] milioni di persone. L’indigenza grave si è moltiplicata. Il prezzo degli alimenti è aumentato notevolmente. I numeri della fame sono orribili, e penso, per esempio, a Paesi come Siria, Haiti, Congo, Senegal, Yemen, Sud Sudan; ma la fame si fa sentire anche in molti altri Paesi del mondo povero e, non di rado, anche nel mondo ricco. È possibile che le morti annuali legate alla fame possano superare quelle del Covid. [1] Ma questo non fa notizia, questo non genera empatia.

Desidero ringraziarvi perché avete sentito come vostro il dolore degli altri. Voi sapete mostrare il volto della vera umanità, quella che non si costruisce voltando le spalle alla sofferenza di chi sta accanto, ma nel riconoscimento paziente, impegnato e spesso perfino doloroso del fatto che l’altro è mio fratello (cfr Lc 10,25-37) e che i suoi dolori, le sue gioie e le sue sofferenze sono anche i miei (cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 1). Ignorare chi è caduto è ignorare la nostra stessa umanità che grida in ogni nostro fratello.

Cristiani e non, avete risposto a Gesù che ha detto ai suoi discepoli davanti alla gente affamata: «Voi stessi date loro da mangiare» (Mt 14,16). E dove c’era scarsità, il miracolo della moltiplicazione si è ripetuto in voi che avete lottato instancabilmente perché a nessuno mancasse il pane (cfr Mt 14,13-21). Grazie!

Come i medici, gli infermieri e il personale sanitario nelle trincee sanitarie, voi avete messo il vostro corpo nella trincea dei quartieri emarginati. Ho presenti molti, tra virgolette, “martiri” di questa solidarietà, dei quali ho saputo tramite voi. Il Signore ne terrà conto.

Se tutti quelli che per amore hanno lottato insieme contro la pandemia potessero anche sognare insieme un mondo nuovo, come sarebbe tutto diverso! Sognare insieme.

2. Beati

Voi siete, come vi ho detto nella lettera che vi ho inviato lo scorso anno, [2] un vero esercito invisibile; siete parte fondamentale di quella umanità che lotta per la vita di fronte a un sistema di morte. In questa dedizione vedo il Signore che si fa presente in mezzo a noi per donarci il suo Regno. Gesù, quando ci ha presentato il “protocollo” con il quale saremo giudicati – cfr Mt 25 –, ci ha detto che la salvezza consisteva nel prendersi cura degli affamati, dei malati, dei prigionieri, degli stranieri, insomma, nel riconoscere e servire Lui in tutta l’umanità sofferente. Perciò mi sento di dirvi: «Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati» ( Mt 5,6); «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» ( Mt 5,9).

Vogliamo che questa beatitudine si estenda, permei e unga ogni angolo e ogni spazio dove la vita si vede minacciata. Ma ci succede, come popolo, come comunità, come famiglia e persino individualmente, di dover affrontare situazioni che ci paralizzano, dove l’orizzonte scompare e lo smarrimento, il timore, l’impotenza e l’ingiustizia sembrano impossessarsi del presente. Sperimentiamo anche resistenze ai cambiamenti di cui abbiamo bisogno e a cui aspiriamo, resistenze che sono profonde, radicate, che vanno al di là delle nostre forze e decisioni. È ciò che la Dottrina sociale della Chiesa ha chiamato “strutture di peccato”, che siamo chiamati anche noi a convertire e che non possiamo ignorare nel momento in cui pensiamo al modo di agire. Il cambiamento personale è necessario, ma è anche imprescindibile adeguare i nostri modelli socio-economici, affinché abbiano un volto umano, perché tanti modelli lo hanno perso. E, pensando a queste situazioni, divento insistente nel chiedere. E inizio a chiedere. A chiedere a tutti. E a tutti voglio chiedere in nome di Dio.

Ai grandi laboratori, che liberalizzino i brevetti. Compiano un gesto di umanità e permettano che ogni Paese, ogni popolo, ogni essere umano, abbia accesso al vaccino. Ci sono Paesi in cui solo il tre, il quattro per cento degli abitanti è stato vaccinato.

Voglio chiedere, in nome di Dio, ai gruppi finanziari e agli organismi internazionali di credito di permettere ai Paesi poveri di garantire i bisogni primari della loro gente e di condonare quei debiti tante volte contratti contro gli interessi di quegli stessi popoli.

Voglio chiedere, in nome di Dio, alle grandi compagnie estrattive – minerarie, petrolifere –, forestali, immobiliari, agroalimentari, di smettere di distruggere i boschi, le aree umide e le montagne, di smettere d’inquinare i fiumi e i mari, di smettere d’intossicare i popoli e gli alimenti.

Voglio chiedere, in nome di Dio, alle grandi compagnie alimentari di smettere d’imporre strutture monopolistiche di produzione e distribuzione che gonfiano i prezzi e finiscono col tenersi il pane dell’affamato.

Voglio chiedere, in nome di Dio, ai fabbricanti e ai trafficanti di armi di cessare totalmente la loro attività, che fomenta la violenza e la guerra, spesso nel quadro di giochi geopolitici il cui costo sono milioni di vite e di spostamenti.

Voglio chiedere, in nome di Dio, ai giganti della tecnologia di smettere di sfruttare la fragilità umana, le vulnerabilità delle persone, per ottenere guadagni, senza considerare come aumentano i discorsi di odio, il grooming [adescamento di minori in internet], le fake news [notizie false], le teorie cospirative, la manipolazione politica.

Voglio chiedere, in nome di Dio, ai giganti delle telecomunicazioni di liberalizzare l’accesso ai contenuti educativi e l’interscambio con i maestri attraverso internet, affinché i bambini poveri possano ricevere un’educazione in contesti di quarantena.

Voglio chiedere, in nome di Dio, ai mezzi di comunicazione di porre fine alla logica della post-verità, alla disinformazione, alla diffamazione, alla calunnia e a quell’attrazione malata per lo scandalo e il torbido; che cerchino di contribuire alla fraternità umana e all’empatia con le persone più ferite.

Voglio chiedere, in nome di Dio, ai Paesi potenti di cessare le aggressioni, i blocchi e le sanzioni unilaterali contro qualsiasi Paese in qualsiasi parte della terra. No al neocolonialismo. I conflitti si devono risolvere in istanze multilaterali come le Nazioni Unite. Abbiamo già visto come finiscono gli interventi, le invasioni e le occupazioni unilaterali, benché compiuti sotto i più nobili motivi o rivestimenti.

Questo sistema, con la sua logica implacabile del guadagno, sta sfuggendo a ogni controllo umano. È ora di frenare la locomotiva, una locomotiva fuori controllo che ci sta portando verso l’abisso. Siamo ancora in tempo.

Ai governi in generale, ai politici di tutti i partiti, voglio chiedere, insieme ai poveri della terra, di rappresentare i propri popoli e di lavorare per il bene comune. Voglio chiedere loro il coraggio di guardare ai propri popoli, di guardare negli occhi la gente, e il coraggio di sapere che il bene di un popolo è molto più di un consenso tra le parti (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 218). Si guardino dall’ascoltare soltanto le élite economiche tanto spesso portavoce di ideologie superficiali che eludono le vere questioni dell’umanità. Siano al servizio dei popoli che chiedono terra, casa, lavoro e una vita buona. Quel “buon vivere” aborigeno che non è la “dolce vita” o il “dolce far niente”, no. Quel buon vivere umano che ci mette in armonia con tutta l’umanità, con tutto il creato.

Voglio chiedere anche a noi tutti, leader religiosi, di non usare mai il nome di Dio per fomentare guerre o colpi di Stato. Stiamo accanto ai popoli, ai lavoratori, agli umili e lottiamo insieme a loro affinché lo sviluppo umano integrale sia una realtà. Gettiamo ponti di amore perché la voce della periferia, con il suo pianto, ma anche con il suo canto e la sua gioia, non provochi paura ma empatia nel resto della società.

E così sono insistente nel chiedere.

È necessario che insieme affrontiamo i discorsi populisti d’intolleranza, xenofobia, aporofobia – che è l’odio per i poveri –, come tutti quelli che ci portano all’indifferenza, alla meritocrazia e all’individualismo, queste narrative sono servite solo a dividere i nostri popoli e a minare e neutralizzare la nostra capacità poetica, la capacità di sognare insieme.

3. Sogniamo insieme!

Sorelle e fratelli, sogniamo insieme! E poiché chiedo questo con voi, insieme a voi, voglio anche trasmettervi alcune riflessioni sul futuro che dobbiamo costruire e sognare. Ho detto riflessioni, ma forse bisognerebbe dire sogni, perché in questo momento non bastano il cervello e le mani, abbiamo bisogno anche del cuore e dell’immaginazione: abbiamo bisogno di sognare per non tornare indietro. Abbiamo bisogno di utilizzare quella facoltà tanto eccelsa dell’essere umano che è l’immaginazione, quel luogo dove l’intelligenza, l’intuizione, l’esperienza, la memoria storica si incontrano per creare, comporre, avventurarsi e rischiare. Sogniamo insieme, perché sono stati proprio i sogni di libertà e di uguaglianza, di giustizia e di dignità, i sogni di fraternità a migliorare il mondo. E sono convinto che attraverso questi sogni passa il sogno di Dio per tutti noi, che siamo suoi figli.

Sogniamo insieme, sognate tra voi, sognate con altri. Sappiate che siete chiamati a partecipare ai grandi processi di cambiamento, come vi ho detto in Bolivia: «Il futuro dell’umanità è in gran parte nelle vostre mani, nella vostra capacità di organizzare, di promuovere alternative creative» (Discorso ai movimenti popolari, Santa Cruz de la Sierra, 9 luglio 2015). È nelle vostre mani.

“Ma queste sono cose irraggiungibili”, dirà qualcuno. Sì, ma hanno la capacità di metterci in movimento, di metterci in cammino. E proprio lì sta tutta la vostra forza, tutto il vostro valore. Perché siete capaci di andare al di là delle miopi autogiustificazioni e dei convenzionalismi umani che riescono solo a continuare a giustificare le cose così come stanno. Sognate! Sognate insieme. Non cadete in quella rassegnazione dura e perdente… Il Tango lo esprime bene: “Dai che va tutto bene! Che tanto è lo stesso. Laggiù all’inferno ci incontreremo!”. No, no, per favore, non cascateci. I sogni sono sempre pericolosi per quanti difendono lo status quo, perché mettono in discussione la paralisi che l’egoismo del forte e il conformismo del debole vogliono imporre. E qui c’è una sorta di patto non fatto ma che è inconscio: quello tra l’egoismo dei forti e il conformismo dei deboli. Ma non può funzionare così. I sogni trascendono gli angusti limiti che ci vengono imposti e ci propongono nuovi mondi possibili. E non sto parlando di fantasticherie basse che confondono il vivere bene con il divertirsi, che non è altro che passare il tempo per riempire il vuoto di senso e così restare alla mercé della prima ideologia di turno. No, non è questo, ma sognare per quel buon vivere in armonia con tutta l’umanità e con il creato.

Ma qual è uno dei pericoli più grandi che dobbiamo affrontare oggi? Durante la mia vita – non ho quindici anni, una certa esperienza ce l’ho – ho potuto rendermi conto che da una crisi non si esce mai uguali. Da questa crisi della pandemia non usciremo uguali: o ne usciremo migliori o ne usciremo peggiori, come prima no. Non ne usciremo mai uguali. E oggi dobbiamo affrontare insieme, sempre insieme, questa domanda: “Come usciremo da questa crisi? Migliori o peggiori? Certamente vogliamo uscirne migliori, ma per questo dobbiamo rompere i legacci di ciò che è facile e dell’accettazione passiva del “non c’è alternativa”, del “questo è l’unico sistema possibile”, quella rassegnazione che ci annienta, che ci porta a rifugiarci solo nel “si salvi chi può”. E per questo bisogna sognare. Mi preoccupa il fatto che, mentre siamo ancora paralizzati, ci sono già progetti avviati per riarmare la stessa struttura socioeconomica che avevamo prima, perché è più facile. Scegliamo il cammino difficile, usciamone migliori.

In Fratelli tutti ho utilizzato la parabola del Buon Samaritano come la rappresentazione più chiara di questa scelta impegnata nel Vangelo. Mi diceva un amico che la figura del Buon Samaritano viene associata da una certa industria culturale a un personaggio mezzo tonto. È la distorsione che provoca l’edonismo depressivo con cui s’intende neutralizzare la forza trasformatrice dei popoli, e specialmente della gioventù.

Sapete che cosa mi viene in mente adesso, insieme ai movimenti popolari, quando penso al Buon Samaritano? Sapete che cosa mi viene in mente? Le proteste per la morte di George Floyd. È chiaro che questo tipo di reazione contro l’ingiustizia sociale, razziale o maschilista può essere manipolato o strumentalizzato da macchinazioni politiche o cose del genere; ma l’essenziale è che lì, in quella manifestazione contro quella morte, c’era il “samaritano collettivo” (che non era per niente scemo!). Quel movimento non passò oltre, quando vide la ferita della dignità umana colpita da un simile abuso di potere. I movimenti popolari sono, oltre che poeti sociali, “samaritani collettivi.

In questi processi ci sono così tanti giovani che io sento speranza…; ma ci sono molti altri giovani che sono tristi, che forse per sentire qualcosa in questo mondo hanno bisogno di ricorrere alle consolazioni a buon mercato che offre il sistema consumistico e narcotizzante. E altri – è triste – altri scelgono proprio di uscire dal sistema. Le statistiche di suicidi giovanili non vengono pubblicate nella loro totale realtà. Quello che voi fate è molto importante, ma è anche importante che riusciate a contagiare le generazioni presenti e future con ciò che fa ardere il vostro cuore. In questo avete un duplice lavoro o responsabilità. Restare attenti, come il Buon Samaritano, a tutti quelli che sono feriti lungo la strada ma, al tempo stesso, far sì che molti di più si uniscano in questo atteggiamento: i poveri e gli oppressi della terra lo meritano, la nostra casa comune ce lo chiede.

Voglio offrire alcune piste. La Dottrina sociale della Chiesa non contiene tutte le risposte, ma ha alcuni principi che possono aiutare questo cammino a concretizzare le risposte e aiutare sia i cristiani sia i non cristiani. A volte mi sorprende che ogni volta che parlo di questi principi alcuni si meravigliano e allora il Papa viene catalogato con una serie di epiteti che si utilizzano per ridurre qualsiasi riflessione alla mera aggettivazione screditante. Non mi fa arrabbiare, mi rattrista. Fa parte della trama della post-verità che cerca di annullare qualsiasi ricerca umanistica alternativa alla globalizzazione capitalista; fa parte della cultura dello scarto e fa parte del paradigma tecnocratico.

I principi che espongo sono misurati, umani, cristiani, compilati nel Compendio elaborato dall’allora Pontificio Consiglio “Giustizia e Pace” [3]. È un piccolo manuale della Dottrina sociale della Chiesa. E a volte, quando i Papi, sia io, sia Benedetto, o Giovanni Paolo II, diciamo qualcosa, c’è gente che si meraviglia: “Da dove ha preso questo?”. È la dottrina tradizionale della Chiesa. C’è molta ignoranza in questo. I principi che espongo stanno in quel libro, al capitolo quarto. Voglio chiarire una cosa: sono inseriti in questo Compendio e questo Compendio è stato voluto da san Giovanni Paolo II. Raccomando a voi, e a tutti i leader sociali, sindacali, religiosi, politici e imprenditoriali di leggerlo.

Nel capitolo quarto di questo documento troviamo principi come l’opzione preferenziale per i poveri, la destinazione universale dei beni, la solidarietà, la sussidiarietà, la partecipazione, il bene comune, che sono mediazioni concrete per attuare a livello sociale e culturale la Buona Novella del Vangelo. E mi rattrista quando alcuni fratelli della Chiesa s’infastidiscono se ricordiamo questi orientamenti che appartengono a tutta la tradizione della Chiesa. Ma il Papa non può non ricordare questa dottrina anche se molto spesso dà fastidio alla gente, perché a essere in gioco non è il Papa ma il Vangelo.

E in questo contesto, vorrei riprendere brevemente alcuni principi sui quali contiamo per portare avanti la nostra missione. Ne menzionerò due o tre, non di più. Uno è il principio di solidarietà. La solidarietà non solo come virtù morale ma come principio sociale, principio che cerca di affrontare i sistemi ingiusti allo scopo di costruire una cultura della solidarietà che esprima – dice letteralmente il Compendio – «la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune» (n. 193).

Un altro principio è quello di stimolare e promuovere la partecipazione e la sussidiarietà tra i movimenti e tra i popoli, capace di limitare qualsiasi schema autoritario, qualsiasi collettivismo forzato o qualsiasi schema stato-centrico. Non si può utilizzare il bene comune come scusa per schiacciare l’iniziativa privata, l’identità locale o i progetti comunitari. Pertanto, questi principi promuovono un’economia e una politica che riconoscano il ruolo dei movimenti popolari, «della famiglia, dei gruppi, delle associazioni, delle realtà territoriali locali, in breve, di quelle espressioni aggregative di tipo economico, sociale, culturale, sportivo, ricreativo, professionale, politico, alle quali le persone danno spontaneamente vita e che rendono loro possibile una effettiva crescita sociale». Questo nel numero 185 del Compendio.

Come vedete, cari fratelli, care sorelle, sono principi equilibrati e ben stabiliti nella Dottrina sociale della Chiesa. Con questi due principi credo che possiamo compiere il prossimo passo dal sogno all’azione. Perché è tempo di agire.

4. Tempo di agire

Spesso mi dicono: “Padre, siamo d’accordo, ma in concreto, che dobbiamo fare?”. Io non ho la risposta, perciò dobbiamo sognare insieme e trovarla insieme. Tuttavia, ci sono misure concrete che forse possono permettere qualche cambiamento significativo. Sono misure che si trovano nei vostri documenti, nei vostri interventi, e di cui ho tenuto molto conto, sulle quali ho meditato e ho consultato esperti. In incontri passati abbiamo parlato dell’integrazione urbana, dell’agricoltura familiare, dell’economia popolare. A queste, che ancora richiedono di continuare a lavorare insieme per concretizzarle, mi piacerebbe aggiungerne altre due: il salario universale e la riduzione della giornata lavorativa.

Un reddito minino (l’RMU) o salario universale, affinché ogni persona in questo mondo possa accedere ai beni più elementari della vita. È giusto lottare per una distribuzione umana di queste risorse. Ed è compito dei Governi stabilire schemi fiscali e redistributivi affinché la ricchezza di una parte sia condivisa con equità, senza che questo presupponga un peso insopportabile, soprattutto per la classe media – generalmente, quando ci sono questi conflitti, è quella che soffre di più –. Non dimentichiamo che le grandi fortune di oggi sono frutto del lavoro, della ricerca scientifica e dell’innovazione tecnica di migliaia di uomini e donne nel corso di generazioni.

La riduzione della giornata lavorativa è un’altra possibilità. Il reddito minimo è una possibilità, l’altra è la riduzione della giornata lavorativa. E occorre analizzarla seriamente. Nel XIX secolo gli operai lavoravano dodici, quattordici, sedici ore al giorno. Quando conquistarono la giornata di otto ore non collassò nulla, come invece alcuni settori avevano previsto. Allora – insisto – lavorare meno affinché più gente abbia accesso al mercato del lavoro è un aspetto che dobbiamo esplorare con una certa urgenza. Non ci possono essere tante persone che soffrono per l’eccesso di lavoro e tante altre che soffrono per la mancanza di lavoro.

Ritengo che siano misure necessarie, ma naturalmente non sufficienti. Non risolvono il problema di fondo, e non garantiscono neppure l’accesso alla terra, alla casa e al lavoro nella quantità e qualità che i contadini senza terra, le famiglie senza una casa sicura e i lavoratori precari meritano. Non risolveranno nemmeno le enormi sfide ambientali che abbiamo davanti. Ma ho voluto menzionarle perché sono misure possibili e segnerebbero un positivo cambiamento di direzione.

È bene sapere che in questo non siamo soli. Le Nazioni Unite hanno cercato di stabilire alcune mete attraverso i cosiddetti Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (OSS), ma purtroppo non conosciute dai nostri popoli e dalle periferie; e questo ci ricorda l’importanza di condividere e di coinvolgere tutti in questa ricerca comune.

Sorelle e fratelli, sono convinto che il mondo si veda più chiaramente dalle periferie. Bisogna ascoltare le periferie, aprire loro le porte e permettere loro di partecipare. La sofferenza del mondo si capisce meglio insieme a quelli che soffrono. Nella mia esperienza, quando le persone, uomini e donne, che hanno subito nella propria carne l’ingiustizia, la disuguaglianza, l’abuso di potere, le privazioni, la xenofobia, nella mia esperienza vedo che capiscono meglio ciò che vivono gli altri e sono capaci di aiutarli ad aprire, realisticamente, strade di speranza. Quanto è importante che la vostra voce sia ascoltata, rappresentata in tutti i luoghi in cui si prendono decisioni! Offrirla come collaborazione, offrirla come una certezza morale di ciò che si deve fare. Sforzatevi di far sentire la vostra voce, e anche in quei luoghi, per favore, non lasciatevi incasellare è non lasciatevi corrompere. Due parole che hanno un significato molto grande, del quale non parlerò ora.

Riaffermiamo l’impegno che abbiamo preso in Bolivia: mettere l’economia al servizio dei popoli per costruire una pace duratura fondata sulla giustizia sociale e sulla cura della Casa comune. Continuate a portare avanti la vostra agenda di terra, casa e lavoro. Continuate a sognare insieme. E grazie, grazie sul serio, perché mi lasciate sognare con voi.

Chiediamo a Dio di effondere la sua benedizione sui nostri sogni. Non perdiamo le speranze. Ricordiamo la promessa che Gesù ha fatto ai suoi discepoli: “Sarò sempre con voi” (cfr Mt 28,20); e ricordandola, in questo momento della mia vita, voglio dirvi che anche io sarò con voi. L’importante è che siate consapevoli che Lui è con voi. Grazie!

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[1] “Il virus della fame si moltiplica”, rapporto dell’Oxfam del 9 luglio 2021, in base al Global Report on Food Crises (GRFC) del Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite.

[2] Lettera ai movimenti popolari, 12 aprile 2020.

[3] Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, 2004.

 

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Bollettino della Sala Stampa della Santa Sede, 16 ottobre 2021



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