VISITA A "VILLA NAZARETH"
PAROLE DEL SANTO PADRE FRANCESCO
Sabato, 18 giugno 2016
Commento al Vangelo del Buon Samaritano (Lc 10,25-37)
Ci sono tante persone coinvolte in questo brano del Vangelo: quello che fa la domanda “chi è il mio prossimo?”; Gesù; e poi, nella parabola, i briganti, il povero che era mezzo morto sulla strada, poi il sacerdote, poi il dottore della legge, forse avvocato [il “levita”]; poi il locandiere, l’albergatore.
Nella parabola, forse né il sacerdote né il dottore della legge né il samaritano né l’albergatore sapevano rispondere alla domanda “chi è il prossimo?”; forse neppure conoscevano com’era “il prossimo”, chi era “il prossimo”. Il sacerdote era di fretta, come tutti i preti, perché ha guardato l’orologio: “Devo dire la Messa”, o, tante volte: “Ho lasciato la chiesa aperta, devo chiuderla, perché l’orario è quello e non posso rimanere qui”. Il dottore della legge, uomo pratico, ha detto: “Se io mi immischio in questo, domani devo andare in tribunale, fare il testimone, dire quello che ho fatto, perdo due, tre giorni di lavoro… No, no, meglio…”. Viva Ponzio Pilato, e se n’è andato. Invece, quell’altro [il samaritano] peccatore, straniero che non era proprio del popolo di Dio, si è commosso: “ebbe compassione”, e si fermò. Tutti e tre – il sacerdote, l’avvocato e il samaritano – sapevano bene, conoscevano bene cosa si doveva fare. E ciascuno di loro ha preso la propria decisione. Ma a me piace pensare all’albergatore: è l’anonimo. Lui ha guardato tutto questo, ha visto e non ha capito nulla. “Ma questo è pazzo! Un samaritano che aiuta un ebreo! E’ pazzo! E poi, con le sue mani gli guarisce le ferite e lo porta qui all’albergo e mi dice: ‘Tu prenditi cura di lui, io ti pagherò se c’è qualcosa in più…’. Io non ho mai visto una cosa simile, questo è un pazzo!”. E quell’uomo ha ricevuto la Parola di Dio: nella testimonianza. Di chi? Del sacerdote, no, perché neppure lo aveva visto; dell’avvocato, lo stesso. Del peccatore, un peccatore che ha compassione. “Ah, hai sentito quella cosa? Un peccatore, sì, non era fedele al popolo di Dio, ma ha avuto compassione”. E non capiva niente, è rimasto con il dubbio, forse con la curiosità: “Ma che cosa è successo qui, strano…”. Con l’inquietudine dentro; e questo è ciò che fa la testimonianza. La testimonianza di questo peccatore ha seminato inquietudine nel cuore di questo locandiere; e cosa è successo di lui, il Vangelo non lo dice, neppure il nome. Ma sicuramente quest’uomo… – di sicuro, perché lo Spirito Santo quando semina, fa crescere – di sicuro è cresciuta la sua curiosità, la sua inquietudine, l’ha lasciata crescere nel suo cuore e ha ricevuto il messaggio della testimonianza. Poi, giorni dopo, è passato un'altra volta da quelle parti il samaritano; sicuramente ha pagato qualcosa. Oppure [l’albergatore gli ha detto]: “No, lascia, lascia: questo va sul mio conto”. Forse questa è stata la sua prima reazione alla testimonianza.
E perché io mi soffermo, oggi, su questo personaggio, su questa persona? Perché la nostra testimonianza non si può contabilizzare – non so come si dice –. La testimonianza è vivere in modo tale che gli altri “vedano le opere vostre e glorifichino il Padre che è nei Cieli” (cfr Mt 5,16), cioè che incontrino il Padre, che vadano a Lui… Sono parole di Gesù.
Io, su Villa Nazareth ho sentito delle notizie: “C’è questa Opera…”, ma non conoscevo bene. Poi Mons. Celli mi ha detto qualche cosa… E’ un’Opera, un lavoro dove si favorisce la testimonianza. Qui si viene non per “arrampicarsi”, né per guadagnare soldi, no, ma per seguire le tracce di Gesù e dare testimonianza di Gesù, seminare testimonianza. Nel silenzio, senza spiegazioni, con i gesti… Riprendere il linguaggio dei gesti. E sicuramente questo albergatore è in cielo, di sicuro!, perché quel seme, di sicuro, è cresciuto, è germogliato. Ha visto una cosa che mai, mai avrebbe pensato di vedere. E questa è la testimonianza. La testimonianza passa e se ne va. Tu la lasci lì e vai. Solo il Signore la custodisce, la fa crescere, come fa crescere il seme: mentre il padrone dorme, cresce la pianta.
Mi auguro che quest’Opera continui ad essere un’Opera di testimonianza, una casa di testimonianza; di testimonianza a tutti, a tutti. Di testimonianza per la gente che si avvicina, o che ne sente parlare… una testimonianza. Mi auguro questo. E che il Signore ci liberi dai briganti – ce ne sono tanti! –, ci liberi dai sacerdoti di fretta o che vanno in fretta, sempre, non hanno tempo di ascoltare, di vedere, devono fare le loro cose…; ci liberi dai dottori che vogliono presentare la fede di Gesù Cristo con una rigidità matematica; e ci insegni a fermarci e ci insegni quella saggezza del Vangelo: “sporcarsi le mani”. Che il Signore ci dia questa grazia. Grazie.
Domande e risposte
Il coraggio della scelta - Valentina Piras
Santo Padre,
prima di maestri, noi giovani abbiamo bisogno di testimoni credibili. Sovente abbiamo la consapevolezza di abitare una realtà complessa nella quale non ci sono punti di riferimento costanti e dove vengono proposte esperienze senza sostanza. A volte siamo ragazzi e adulti ‘parcheggiati’ nella vita, preda dell’illusione del successo e del culto del proprio ego, incapaci di donarci agli altri. Santo Padre, noi vorremmo che Lei ci desse una parola che ci aiuti a far luce sulle tenebre che sovrastano i nostri cuori. Come possiamo ridestare la grandezza e il coraggio di scelte di ampio respiro, di slanci del cuore per affrontare sfide educative e affettive?
Papa Francesco:
Grazie. Una parola-chiave è: “Noi giovani abbiamo bisogno di testimoni credibili”. E questa è proprio la logica del Vangelo: dare testimonianza. Con la propria vita, il modo di vivere, le scelte fatte… Ma testimonianza di che? Di diverse cose. Testimonianza, noi cristiani, di Gesù Cristo che è vivo, ci ha accompagnato: ci ha accompagnato nel dolore, è morto per noi, ma è vivo. Detto così, sembra troppo clericale. Ma io capisco qual è la testimonianza che i giovani cercano: è la testimonianza dello “schiaffo”. Lo schiaffo è una bella testimonianza quotidiana! Quella che ti sveglia, ti dice: “Guarda, non farti illusioni con le idee, con le promesse…”. Anche illusioni più vicine a noi. L’illusione del successo: “No, io vado per questa strada e avrò successo”. Del culto del proprio ego. Oggi, tutti lo sappiamo, lo specchio è di moda! Guardarsi. Il proprio ego, quel narcisismo che ci offre la cultura di oggi. E quando non abbiamo testimonianze, forse la vita ci va bene, guadagniamo bene, abbiamo una professione, c’è un bel posto di lavoro, una famiglia…, ma tu hai detto una parola molto forte: “Siamo uomini e donne parcheggiati nella vita”, cioè che non camminano, che non vanno. Come i conformisti: tutto è abitudine, un’abitudine che ci lascia tranquilli, abbiamo il necessario, non manca niente, grazie a Dio… “Come possiamo ridestare la grandezza e il coraggio di scelte di ampio respiro, di slanci del cuore per affrontare sfide educative e affettive?”. La parola l’ho detta tante volte: rischia! Rischia. Chi non rischia non cammina. “Ma se sbaglio?”. Benedetto il Signore! Sbaglierai di più se tu rimani fermo, ferma: quello è lo sbaglio, lo sbaglio brutto, la chiusura. Rischia. Rischia su ideali nobili, rischia sporcandoti le mani, rischia come ha rischiato quel samaritano della parabola. Quando noi nella vita siamo più o meno tranquilli, c’è sempre la tentazione della paralisi. Non rischiare: stare tranquilli, quieti… “Come possiamo ridestare la grandezza e il coraggio di scelte di ampio respiro”, hai domandato, “di slanci del cuore per affrontare sfide educative e affettive?”. Avvicinati ai problemi, esci da te stesso e rischia, rischia. Altrimenti la tua vita lentamente diventerà una vita paralitica; felice, contenta, con la famiglia, ma lì, parcheggiata – per usare la tua parola. E’ molto triste vedere vite parcheggiate; è molto triste vedere persone che sembrano più mummie da museo che esseri viventi. Rischia! Rischia. E se sbagli, benedetto il Signore. Rischia. Avanti! Non so, questo mi viene di dirti.
La fatica della fede nel mondo di oggi – Gabriele Giuliano
Caro Papa Francesco,
sui giornali spesso troviamo notizie drammatiche relative alla tragedia che sta colpendo le comunità cristiane sparse nel mondo: questi eventi ci inducono ad una profonda riflessione su quanto possa essere testimoniata e vissuta la propria fede, addirittura fino alla morte. Questo coraggio della fede autentica ci mette tutti davvero in discussione. Come possiamo essere testimoni credibili del Vangelo, come annunciare il messaggio di Cristo al mondo? Molti di noi, con tutte le mancanze e i limiti intrinseci all’essere umano, ci provano, ma si scoraggiano facilmente. A Lei succede? Si è mai trovato in crisi con la sua fede? Dove e come ha trovato il modo di riprendersi, non stancarsi, e continuare nel suo mandato, da laico prima, da consacrato poi?
Papa Francesco:
Ma, tu hai fatto una domanda troppo personale! E io devo fare la scelta… O rispondo la verità, o faccio una telenovela che sia bella e via… La tragedia delle comunità cristiane sparse nel mondo: questo è vero. Ma è il destino dei cristiani: la testimonianza – riprendo la parola testimonianza - fino a situazioni difficili. A me non piace, e voglio dirlo chiaramente, a me non piace quando si parla di un genocidio dei cristiani, per esempio nel Medio Oriente: questo è un riduzionismo, è un riduzionismo. La verità è una persecuzione che porta i cristiani alla fedeltà, alla coerenza nella propria fede. Non facciamo un riduzionismo sociologico di quello che è un mistero della fede: il martirio. Quei 13 – credo che fossero uomini egiziani cristiani copti, santi oggi, canonizzati dalla Chiesa Copta – sgozzati sulle spiagge della Libia: tutti sono morti dicendo: “Gesù, aiutami!”. Gesù. Ma io sono sicuro che la maggioranza di loro non sapesse nemmeno leggere. Non erano dottori in teologia, no, no. Era gente, come si dice, ignorante, ma erano dottori di coerenza cristiana, cioè erano testimoni di fede. E la fede ci fa testimoniare tante cose difficili nella vita; anche con la vita testimoniamo la fede. Ma non inganniamoci: il martirio cruento non è l’unico modo di testimoniare Gesù Cristo. E’ il massimo, diciamo, eroico. E’ anche vero che oggi ci sono più martiri che non nei primi secoli della Chiesa, è vero. Ma c’è il martirio di tutti i giorni: il martirio dell’onestà, il martirio della pazienza, nell’educazione dei figli; il martirio della fedeltà all’amore, quando è più facile prendere un’altra strada, più nascosta: il martirio dell’onesta, in questo mondo che si può chiamare anche “il paradiso delle tangenti”, è tanto facile: “Lei dica questo e avrà questo”, dove manca il coraggio di buttare in faccia i soldi sporchi, in un mondo dove tanti genitori danno da mangiare ai figli il pane sporcato dalle tangenti, quel pane che loro comprano con le tangenti che guadagnano… Lì è la testimonianza cristiana, lì è il martirio: “No, io non voglio questo!” – “Se tu non vuoi, non avrai quel posto, non potrai salire più in alto”. Il martirio del silenzio davanti alla tentazione delle chiacchiere. Per un cristiano – lo dice Gesù – non è lecito chiacchierare. Gesù dice che quello che dice “stupido” al fratello deve andarsene all’inferno. Voi sapete che le chiacchiere sono come la bomba di un terrorista, di un kamikaze – non di un kamikaze, di un terrorista, almeno il kamikaze ha il coraggio di morire anche lui – no, le chiacchiere sono quando io butto la “bomba”, distruggo quello, e io rimango felice. Ma la testimonianza cristiana è il martirio di ogni giorno, il martirio silenzioso, e noi dobbiamo parlare così. “Ma noi siamo uomini e donne martirizzati, dobbiamo avere la faccia triste, una faccia… col muso lungo”. No. C’è la gioia della parola Gesù, come quelli della spiaggia della Libia.
E ci vuole coraggio, e il coraggio è un dono dello Spirito Santo. Il martirio, la vita cristiana martiriale, la testimonianza cristiana non si può vivere senza il coraggio della vita cristiana. San Paolo usa due parole, per indicare la vita martiriale cristiana, la vita di ogni giorno: coraggio e pazienza. Due parole. Il coraggio di andare avanti e non vergognarti di essere cristiano e farti vedere come cristiano, e la pazienza di portare sulle spalle il peso di ogni giorno, anche i dolori, anche i propri peccati, le proprie incoerenze. “Ma, si può essere cristiano con i peccati?”. Sì. Tutti siamo peccatori, tutti. Il cristiano non è un uomo o una donna che ha l’asepsi dei laboratori, non è come l’acqua distillata! Il cristiano è un uomo, una donna capace di tradire il proprio ideale con il peccato, è un uomo e una donna debole. Ma noi dobbiamo riconciliarci con la nostra debolezza. E così il naso [l’aspetto] diventa un po’ più umile. Più umile.
La verità non è nelle apparenze. “Io non sono peccatore”, come quel fariseo che pregava davanti al Signore: “Ti ringrazio perché non sono come questo, come quello, come quell’altro”; sporcava tutti, ma lui era pulito. Si pavoneggiava. Permettetemi, è un po’… non è troppo corretto, no, non è proprio lecito quello che io dirò adesso, ma l’immagine ci aiuterà. La coerenza cristiana della verità è sentirsi peccatori e bisognosi di perdono; invece quello che si pavoneggia di essere cristiano perfetto, è come il pavone: ma che bello il pavone!, si vede, è una realtà bella... Scusatemi, ma girate di dietro: anche quella è la verità del pavone! E il messaggio di Cristo al mondo è così: siamo peccatori, e Gesù ci ha amato, ci ha guarito, o siamo in via di guarigione, sempre. E ci ama. E questi limiti intrinseci a noi e anche limiti estrinseci che noi vediamo, per esempio, l’ipocrisia nella Chiesa, l’ipocrisia dei cristiani; questi limiti ci scoraggiano, e così la fede entra in crisi. E qui la domanda sfacciata: “Si è mai trovato in crisi con la sua fede?”. Questa è una domanda che fate al Papa! Avete coraggio! “Dove e come ha trovato il modo di riprendersi, non stancarsi e continuare nel suo mandato, da laico, prima, da consacrato, poi?”. Tante volte io mi trovo in crisi con la fede e alcune volte anche ho avuto la sfacciataggine di rimproverare Gesù: “Ma perché Tu permetti questo?”, e anche dubitare: “Ma questa sarà la verità, o sarà un sogno?”. E questo da ragazzo, da seminarista, da prete, da religioso, da vescovo e da Papa. “Ma come mai il mondo è così, se Tu hai dato la Tua vita? Ma non sarà, questa, un’illusione, un alibi per consolarci?”. Un cristiano che non abbia sentito questo, qualche volta, la cui fede non sia entrata in crisi, gli manca qualcosa: è un cristiano che si accontenta con un po’ di mondanità e così va avanti nella vita. Mi hanno detto – perché io non conosco il cinese, con le lingue ho tanta difficoltà, vedete… - non conosco il cinese, ma mi hanno detto che la parola crisi, in cinese, si fa con due ideogrammi: uno è l’ideogramma rischio e l’altro l’ideogramma opportunità. E’ vero. Quando uno entra in crisi – come quando Gesù disse a Pietro che il diavolo lo avrebbe messo in crisi [“vagliato”] come si fa con il grano, e tante volte il diavolo, la vita, il prossimo, tante persone ci fanno “saltare” come il grano, ci mettono in crisi – c’è sempre un pericolo, un rischio, un rischio in senso non buono, e un’opportunità. Il cristiano – questo l’ho imparato – non deve avere paura di entrare in crisi: è un segno che va avanti, che non è ancorato alla riva del fiume o del mare, che ha preso il largo e va avanti. E lì ci sono i problemi, le crisi, le incoerenze, e la crisi del proprio peccato, che ci fa tanto vergognare. E come non stancarsi? E’ una grazia. Chiedila al Signore: “Signore, che non mi stanchi. Dammi la grazia della pazienza, di andare avanti, di aspettare che venga la pace”. Non so: così mi sembra di rispondere.
La vocazione professionale e affettiva – Giacomo Guarini
Santo Padre,
oggi tutto si dirige verso l’affermazione dell’individuo e sembra smarrirsi la persona come essere capace di donarsi e di ricevere amore. L’amore non è più inteso come movimento verso il bene dell’altro ma come mezzo di una gratificazione individuale; in modo particolare, non nascondiamo le difficoltà che riguardano noi giovani laureati, spesso avviliti dalla mancanza di prospettive concrete per il nostro futuro e impossibilitati a dare compimento alla vocazione professionale e affettiva che, grazie a Villa Nazareth, abbiamo scoperto. Pertanto, come fare del lavoro un luogo di vocazione, in un mondo governato da uno sfrenato individualismo? Come vivere le relazioni quali specchio dell’amore di Dio, anche nel fidanzamento, in un contesto in cui ogni desiderio di gratuità sembra venire meno?
Papa Francesco:
Tu hai detto una parola che a me piace tanto: la gratuità. Noi dimentichiamo spesso questo senso della gratuità, e dimentichiamo che la gratuità è il linguaggio di Dio. Lui ci ha creato gratuitamente; Lui ci ha ricreato in Gesù gratuitamente; e lo stesso Gesù ci ammonisce: “Quello che voi avete ricevuto gratuitamente, datelo gratuitamente”. La gratuità. In questa civiltà del “do ut des”, io ti do questo e questo, tutto si negozia, la gratuità corre il pericolo di sparire. E alle volte, o tante volte – credo che sia una delle abitudini più comuni – il cristianesimo diventa pelagiano: tutto si compra. “Io faccio questo e sono più santo”, “io faccio questo e sono più perfetto”, “io faccio questo e sono più cristiano”, “non faccio questo e il mio cristianesimo non…”. Anche con Dio abbiamo questo atteggiamento del “do ut des”. Ma il Signore, già nell’Antico Testamento ci diceva: “Io non ho bisogno dei vostri sacrifici. Guardate vicino a voi, e aiutate gli altri. Siate giusti nello stipendio”. E questo che tu chiami “l’affermazione dell’individuo”, questo individualismo ci porta a gravissime ingiustizie. Ingiustizie umane. Non direi “sociali”, perché qualcuno può dire: “Ma questo prete è socialista”. No, no: umane! E’ un po’ la gratificazione individuale che non ha niente a che fare con la gratuità che ci propone Gesù Cristo, che ci insegna Dio, che è proprio il linguaggio di Dio: gratuità. Dobbiamo metterci su questa lunghezza d’onda, della gratuità. Le gratificazioni individuali, l’edonismo: questa anche è una cultura dell’edonismo. Si cerca la soddisfazione personale. E oggi dobbiamo fare tanto lavoro anche per distinguere i santi da quelli che si truccano per apparire come santi! Tanti cristiani truccati che non sono cristiani, perché non sanno di gratuità. Vivono altrimenti.
“Come fare del lavoro un luogo di vocazione?”. Andare verso la prima chiamata, la chiamata che ognuno di noi riceve e che è la stessa che ha ricevuto l’umanità in Adamo: andate, coltivate la Terra, moltiplicatevi, assoggettatevi la terra, lavorate… “Come fare del lavoro un luogo di vocazione?”. Forse la parola più forte qui è lavoro. Una cosa è lavorare e un’altra è fare cose per profittare e anche per approfittarsi degli altri. La cultura del lavoro. In tanti Paesi sottosviluppati c’è la cultura del sussidio: si aiuta, ma non si insegna a lavorare. A me fa tanto bene pensare a Don Bosco, alla fine dell’Ottocento, in quella Torino massonica, mangiapreti, povera, dove i ragazzi erano per la strada… Cosa ha fatto, lui? E’ andato con l’acqua benedetta? No. Ha fatto educazione di emergenza, ha fatto studiare per imparare mestieri semplici, e così entrare nella cultura del lavoro. Ha visto in quel rischio una opportunità, in quella crisi religiosa una opportunità; e ha aperto un orizzonte umano e religioso, a quelle persone. Lavoro. Che non è la stessa cosa che “fare cose”. La vocazione del lavoro, lavoro creativo. Il lavoro ci rende simili a Dio, che è Creatore, ed è anche un Artigiano. E il lavoro è un luogo di vocazione, non è un luogo di stallo, di parcheggio. La mia vocazione mi porta ad andare avanti nel lavoro, nella creatività.
E anche nel fidanzamento. Nel fidanzamento c’è la gratuità, c’è anche un impegno di andare insieme, capirsi, sentirsi, superare le difficoltà, mantenere la fedeltà; è anche un impegno gratuito. La gratuità si impara nel fidanzamento. Ma io, qui, vorrei fare una riflessione. Tante volte il lavoro, nel senso di “fare cose”, fa sì che venga meno la famiglia, venga meno il matrimonio. Io mi entusiasmo, per esempio con la politica, e vado di qua e di là e di là e poi non mi curo della moglie o del marito o dei figli. Io ho l’abitudine, nella Confessione, quando un uomo o una donna sposati mi dicono che hanno dei bambini e che forse perdono la pazienza…, io faccio una domanda: “Ma quanti bambini hai?”. Tante volte loro si spaventano: ma quale sarà la prossima domanda? E la seconda domanda è: “E dimmi: tu giochi con loro? Tu prendi tempo per giocare con i tuoi figli, per ascoltarli, per avere uno spazio di comunicazione con loro?” – “Ma, Padre – una risposta – quando io esco per lavorare la mattina, i bambini dormono, e quando torno, dormono”. Questo lavoro schiavizzante che non permette di vivere la gratuità del dono dell’amore, del dono di Dio, forse non è colpa di quest’uomo o di questa donna: è colpa della situazione, è colpa dell’ingiustizia, dell’ingiustizia morale che noi viviamo in questa società. Ma dico questo: curate la famiglia, curate il marito, curate la moglie, curate i bambini; e mi permetto una cosa che io ho molto a cuore: curate i nonni! Curate i nonni. Loro sono la nostra memoria! In questa cultura dello scarto, è tanto facile scartare i nonni: o a casa loro, o nella casa di riposo, e non andare a trovarli. Adesso è cambiato un po’ perché siccome non c’è tanto lavoro e loro hanno la pensione, allora andiamo dai nonni! Curate i nonni. Mi tocca il cuore quella profezia del profeta Gioele, nel capitolo III: “I nonni sogneranno”, e sarà proprio il sogno, la capacità di sognare cose grandi, quello che farà andare avanti i ragazzi, i giovani.
Mi fermo qui, perché non finisco più.
Le nuove povertà – Maria Elena Tagliaboschi
Santo Padre,
la crisi economica, i rilevanti flussi migratori, i cambiamenti demografici, l’incompatibilità dei tempi di lavoro con quelli della cura dei figli, sono solo alcuni dei fenomeni che stanno fortemente incidendo sullo sviluppo della società nei paesi industrializzati. Tutto ciò sta favorendo la nascita di nuove povertà: anziani soli; disoccupati e precari in forte crescita che non trovano lo spazio loro dovuto nel mercato del lavoro; giovani coppie soffocate da spese ingenti per la gestione familiare. Questi cambiamenti ci fanno sentire smarriti e sempre più poveri, prima che economicamente, nella speranza, nei desideri, nelle passioni. Con quale spirito, noi giovani e adulti possiamo affrontare queste situazioni che molte volte ci coinvolgono?
Papa Francesco:
Scusatemi, mi sono allungato troppo. Riguardo a questa domanda, per la maggior parte ho risposto a tante cose. Ma io andrò forse al centro del problema. Quello che dobbiamo rivedere è lo stile dell’economia di oggi. Oggi – e questo lo dico perché l’ho scritto nella Evangelii gaudium – c’è un’economia che uccide. Nel mondo, nell’economia mondiale, al centro non c’è l’uomo, la donna: c’è il dio denaro. E questo ci uccide. Tu puoi trovare una mattina d’inverno un senzatetto morto di freddo in piazza Risorgimento, o tanti bambini che non hanno da mangiare per la strada, o anche drogati… Questo non fa notizia, non fa notizia. Ma se i punti delle borse di Tokyo, Londra, Francoforte, New York calano di due o tre, grande tragedia internazionale! Noi siamo schiavi di questo sistema economico che uccide, schiavi e vittime. Oggi è comune lavorare in nero, perché se tu non lavori in nero, non hai lavoro. E’ comune. Oggi è comune che ti facciano il contratto di lavoro da settembre a giugno, e poi luglio e agosto? Mangia un po’ d’aria! E poi ti danno un altro contratto da settembre. Senza assistenza sanitaria, senza possibilità di pensione. Questo si chiama “lavoro schiavo”, e la maggioranza di noi vive in questo sistema di lavoro schiavo.
I flussi migratori: in parte fuggono per la fame, perché il loro Paese è stato sfruttato e hanno fame. E in parte fuggono dalla guerra, che è proprio l’affare in questo momento che rende più soldi: i trafficanti d’armi. E lo stesso che vende, che traffica le armi a questo Paese che è in guerra con quello, è lo stesso che vende a quello che è in guerra con questo! Anche per fare arrivare gli aiuti umanitari in Paesi di guerra o di guerriglia, è una difficoltà: tante volte la Croce Rossa non è riuscita. Ma le armi arrivano sempre, non c’è dogana che le fermino! Perché? Perché è proprio l’affare che rende di più. Il dio denaro. Noi siamo schiavi. Raccontava una ragazza, l’anno scorso, giovane: ha visto sul giornale, è andata, e lì c’era una coda di gente che era andata per questi lavori. E l’impiegato ha visto il suo curriculum e le ha detto: “Sì, sì, questo può andare, sì, lei può andare. Il suo lavoro sarà 10-11 ore al giorno, più o meno, più di 11 no, lo stipendio 650 euro al mese”. E la ragazza ha detto: “Ma, questo non è giusto!” – “Ma, se ti piace, lo prendi; se non ti piace, guarda dietro di te la coda che c’è… Arrivederci!”. E questo è il pane nostro di ogni giorno, e da queste ingiustizia vengono tante nuove povertà, tante nuove povertà. Una volta io sono andato in una baraccopoli di Buenos Aires, e c’era gente nuova. Sono andato a visitarli in quella casetta un po’ di legno, un po’ di latta che loro avevano fatto, ma i mobili erano buoni. E io ho avuto il coraggio di domandare: “Ma come mai, non capisco…”. E lui mi ha detto: “Padre, fino al mese scorso noi potevamo pagare l’affitto; adesso no”. E così crescono le baraccopoli. E’ la grande ingiustizia. E dobbiamo parlare chiaro: questo è peccato mortale. E a me dà indignazione, mi fa male, quando – per esempio, una cosa che è di attualità – vengono per battezzare un bambino e ti portano uno [come padrino], e gli viene detto: “Ma lei non è sposato in chiesa, no, lei non può essere padrino, perché il matrimonio, sposarsi in chiesa è importante”. Ma poi ti portano un altro che è un truffatore, uno sfruttatore di gente, un trafficante di bambini, ma è un “bravo cattolico”, dà elemosina alla Chiesa… “Ah, sì, tu puoi essere padrino”. Ma noi abbiamo capovolto i valori! Il mondo economico, oggi, come è sistemato nel mondo, è immorale. Sto parlando in genere, ma ci sono eccezioni. C’è gente buona, ci sono Paesi che cercano di cambiare questo, ci sono istituzioni che lavorano contro questo. Ma l’atmosfera mondiale è che l’uomo e la donna sono stati spostati dal centro dell’economia, e lì c’è il dio denaro. Credo che con questo ho risposto alla tua domanda.
Dal centro alle periferie – Tonino Casamassimi
Santo Padre,
il confronto con i valori fondanti di questa Comunità deve portare a interrogarci continuamente sulla serietà del nostro impegno nel mondo e del nostro servizio al prossimo. Una realtà come Villa Nazareth si riempie di senso proprio nella misura in cui riesce a far fruttificare i talenti trafficati ben al di fuori delle proprie mura, non solo quelle fisiche. Da qui il tentativo di aprirci sempre più - nel nostro piccolo e fra diverse difficoltà – all’impegno nella vita civile e sociale, ad una presenza attiva non confinata a questo luogo fisico ma estesa a tutti i territori in cui vivono ed operano i membri della nostra Comunità, ad una riflessione e ad una concreta progettualità di accoglienza del prossimo che viene da terre lontane. In quali modi e con quale spirito possiamo rafforzare il nostro impegno nel mondo, per vivere seriamente quell’incontro con le periferie dell’esistenza al quale Lei esorta, e che trova radice profonda nel messaggio evangelico?
Papa Francesco:
Far fruttificare i talenti. Noi saremo giudicati su questo: cosa ho fatto con i miei talenti, con quello che ho ricevuto, con quello che il Signore gratuitamente mi ha dato? E’ una domanda che dobbiamo farci. Posso fare di più? Posso dare di più? Posso condividere di più? I talenti, non solo i soldi, i talenti! E qual è uno dei talenti più importanti del cristianesimo, e anche uno dei grandi talenti di Villa Nazareth dal momento della fondazione? Lei ha detto la parola: l’accoglienza. Noi stiamo vivendo una civiltà di porte chiuse, di cuori chiusi. Ci difendiamo, ci difendiamo l’uno dall’altro: “Questo è mio; questo è mio”. Paura di accogliere. Paura di accogliere. E non parlo soltanto dell’accoglienza ai migranti, che questo è un grande problema, è anche un problema politico mondiale. Ma anche l’accoglienza quotidiana, l’accoglienza di quello che mi cerca per annoiarmi con le sue lamentele, con i suoi problemi, e cerca da me una parola di conforto e anche la possibilità di spalancare una “finestrina” per uscirne fuori. A me fa male, fa male quando vedo le chiese con le porte chiuse, fa male. Ci saranno alcuni motivi giustificabili, ma una chiesa a porte chiuse significa che quella comunità cristiana ha il cuore chiuso, è rinchiusa in sé stessa. E noi dobbiamo riprendere il senso dell’accoglienza, essere accolti. E questo è molto semplice, è quotidiano, quello che succede a Roma: credo che è uno dei lavori, o se voi volete chiamarlo in termini di apostolato, ciò di cui noi abbiamo più bisogno è l’apostolato dell’orecchio. Noi non abbiamo tempo per ascoltare, abbiamo perso questa capacità: “Io no, non ho tempo di andare ad ascoltare queste lamentele, no, mi fanno male, meglio se faccio un’altra cosa più utile, non perdere tempo…”. Se non facciamo questo non accogliamo gli altri. E se non accogliamo non siamo cristiani e non saremo accolti nel Regno dei Cieli. E’ matematico. E’ così, questa è la logica del Vangelo. E’ così. E voi che avete avuto l’esperienza dell’accoglienza qui, in questa Casa, avete una grande responsabilità sociale ed ecclesiale: insegnare, far capire che questa è la porta della strada cristiana. Quando noi siamo stati battezzati, siamo stati accolti dalla comunità cristiana. Una bella cerimonia liturgica dove il parroco spiegava bene le cose, tutto… Ma questa accoglienza sacramentale, con il segno della Trinità, io sono capace di portarla avanti nel mio modo di vivere la fede? O preferisco guardare da un’altra parte? Meglio dire: “non ho capito”, “non ho sentito”, “non sapevo”… E invece questo [l’accoglienza] dà frutto, dà frutto. Accoglienza che fa fruttificare i talenti. C’è la grande accoglienza di quelli che vengono da terre lontane, e c’è la piccola accoglienza, quando tu – papà o mamma – torni dal lavoro e c’è tuo figlio o tua figlia adolescente che è in difficoltà e ha voglia di dirti qualcosa o ha bisogno almeno che tu ascolti qualcosa… “Sono troppo occupato, facciamo domani…”. Questo è il momento della grazia: accogliere. “Ma, Padre, questa è una tortura!”. No, è una mortificazione, è una mortificazione. E’ la croce di ogni giorno. Gesù ci ha detto: “Colui che vuol venire dietro di me, prenda la propria croce”, non ha detto “prenda la propria morfina per addormentarsi bene”; “prenda la propria croce e mi segua”. E l’accoglienza è una croce, ma una croce bella, perché ci fa ricordare l’accoglienza che il Buon Dio ha avuto e ha con noi, ogni volta che noi andiamo da Lui per riconciliarci, per chiedere consiglio, per chiedere perdono… Accoglienza.
Le sfide della famiglia – Massimo Moretti con la moglie Giorgia Lagattola
Santo Padre,
la famiglia oggi è sollecitata dalla cultura del provvisorio. La coppia è minata dalla tentazione di ricercare la maggiore felicità possibile in una dimensione che, nonostante il matrimonio, rischia di rimanere individuale. Sappiamo di poter contare sulla grazia indissolubile del sacramento, ma non sempre abbiamo la forza e la costanza di attingere a questo tesoro. Come possiamo mantenere viva la fiamma del nostro amore e quale valore ha per il mondo di oggi la promessa di eternità che ci siamo scambiati?
Papa Francesco:
Ho detto qualche cosa sulle famiglie, oggi, ma prenderò una o due parole tue. Quella sulla cultura del provvisorio: questo io lo ripeto sempre. Una parte della gente che si sposa non sa cosa fa. Si sposa… “Ma tu sai che questo è un sacramento?” – “Sì, sì, e per questo io dovrò confessarmi prima, sì, sì, lo farò, e farò la comunione, pure” – “E tu sai che questo è per tutta la vita?” – “Sì, sì, lo so, lo so”. Ma non lo sanno, perché questa cultura del provvisorio penetra tanto in noi, nei nostri valori, nei nostri giudizi, che poi significa – per parlare così, semplicemente – significa: “Sì, sì, io mi sposo finché l’amore dura, e quando l’amore non dura, è finito il matrimonio”. Non si dice, ma la cultura del provvisorio ti porta a questo. E credo che la Chiesa debba lavorare molto su questo punto con la preparazione al matrimonio. Nella Amoris laetitia c’è un capitolo, un capitolo dedicato a questo. Una signora – questo l’ho detto a San Giovanni in Laterano l’altro sera –, una signora una volta mi ha detto: “Voi preti siete furbi: per diventare prete studiate otto anni, poi andate bene; e se la cosa non va e tu trovi una ragazza che ti piace e non te la senti più, dopo un po’ fai una procedura, vai alla Santa Sede e ti danno la dispensa, ti sposi e formi una famiglia. E noi, che riceviamo un sacramento che è indissolubile e per tutta al vita, è il mistero di Cristo e della Chiesa e dura per tutta la vita, ci preparano con tre o quattro conferenze?”. E’ vero: la preparazione al matrimonio. E’ meglio non sposarsi, non ricevere il sacramento se tu non sei sicuro del fatto che lì c’è un mistero sacramentale, c’è lì l’abbraccio proprio di Cristo con la Chiesa; se non sei ben preparato.
Poi c’è la dimensione culturale e sociale. E’ vero, sposarsi è un fatto sociale, è sempre stato un fatto sociale, sempre, perché è bello sposarsi, in tutte le culture: ci sono tanti riti belli, belli, nelle culture… quando il ragazzo va a prendere la ragazza e la porta… tante cose belle, che indicano questa bellezza del matrimonio. Ma questo aspetto sociale, nella cultura del consumismo, della mondanità, alle volte favorisce la provvisorietà e non ti aiuta a prendere sul serio [il matrimonio]. Ho raccontato l’altra sera che avevo chiamato un ragazzo che io conoscevo; gli ho telefonato, perché la mamma mi aveva detto che si sposava, e io l’avevo conosciuto quando andavo a dire la Messa qui a Ciampino. Gli dico: “Mi hanno detto che ti sposi…” – “Sì, sì” – “Lo farai in quella chiesa?” – “Ma, veramente non sappiamo, perché dipende dal vestito della mia ragazza, che sia intonato con la chiesa, per la bellezza…” – “Ah, che bello, che bello… E quando?” – “Entro qualche settimana” – “Ah, va bene, va bene. Vi state preparando bene?” – “Sì, sì, adesso andiamo, stiamo cercando un ristorante che non sia troppo lontano, e anche le bomboniere, e questo e quello, e quell’altro…”. Che senso ha questo matrimonio? E’ puramente un fatto sociale, un fatto sociale. Io mi domando: questi fidanzati – bravi – sono liberi da questa cultura mondana consumistica edonistica, o il fatto sociale fa sì che cadano in questa mancanza di libertà? Perché il sacramento del matrimonio si può ricevere soltanto con libertà. Se tu non sei libero, non lo ricevi.
E poi, c’è una cosa che dobbiamo curare. A me piace incontrare, sia nelle Messe a Santa Marta sia nelle udienze generali, i coniugi che fanno il 50° e il 60°, perché sempre parlo con loro, mi dicono le cose… sono felici. Una volta ho sentito dire da una di queste coppie quello che tutti volevano dire, ma quelli sono riusciti a dirlo. [Io ho chiesto loro:] “60 anni. Chi ha avuto più pazienza?” – “Eh, tutti e due!” – dicono sempre la stessa cosa – E poi: “Avete litigato?” – “Quasi tutti i giorni. Ma non c’è problema” – “Siete contenti?”, e io mi sono commosso, perché si sono guardati negli occhi: “Padre, siamo innamorati”. Questo è grande! Dopo 60 anni, questo è grande. E questo è uno dei frutti del sacramento del matrimonio: questo lo fa la grazia. Magari tutti potessero capire questo! E c’è un’altra cosa che io vorrei dire. Che nel matrimonio si litiga, tutti lo sappiamo; a volte volano i piatti; sono cose di tutti i giorni. Ma il consiglio che io sempre do è questo: mai finire la giornata senza fare la pace, perché io ho paura della “guerra fredda” del giorno dopo. Sì, è pericolosissima! Quando tu ti arrabbi e finisci arrabbiato e non fai la pace quel giorno, diventa peggio, peggiora, peggiora. “Ma come faccio la pace, Padre? Devo fare un discorso, inginocchiarmi?” – “No, fa’ così [fa il gesto di una carezza] e basta”. E’ un gesto, è il linguaggio del gesto. E fra i gesti – per favore – non dimenticatevi di accarezzarvi: la carezza è uno dei linguaggi più sacri nel matrimonio. Le carezze: ti amo tanto… Le carezze… Sposi che sono capaci di accarezzarsi, di volersi così, ma anche con il corpo, con tutto, sempre… Le carezze… Credo che con questo si potrà mantenere quella forza del sacramento, perché anche il Signore accarezza con tanta tenerezza la sua sposa, la Chiesa. Andiamo avanti così.
Una comunità e la sua missione – Luca Monteferrante
Santo Padre,
siamo una comunità che vuole restare fedele allo speciale carisma ricevuto dal fondatore e alla missione affidatale dalla Chiesa come Associazione di fedeli laici chiamata a custodirlo, a diffonderlo e a farlo fruttificare. Sentiamo forte il desiderio di chiederLe aiuto nel discernimento sui segni del tempo presente e sulle possibili strade da percorrere insieme. Sono segni di crisi che esibiscono le fatiche e le ferite del nostro vivere ma che dischiudono, al contempo, potenzialità e semi di novità, spronandoci ad aprire strade nuove nel deserto delle nostre vite, come esercizio di una creatività di pensiero e di vita ispirata dallo Spirito. Le chiediamo dunque, in questa speciale ricorrenza, di aiutarci a comprendere il senso dell’invito di Gesù rivolto a Nicodemo a “rinascere dall’alto”, come comunità che si interroga di fronte alla svalutazione della cultura quale strumento di promozione dell’uomo; alla organizzazione del lavoro che mette in pericolo gli spazi di vita personale e familiare; al mondo delle professioni che chiede di rinunciare a quote di libertà personale per accedere a ruoli di responsabilità; alla crisi della dimensione comunitaria e del valore della fraternità causata da ritmi di vita incompatibili con la partecipazione ad esperienze condivise.
Papa Francesco:
Ma, la risposta mi viene da quella parola che ha detto san Paolo quando era in mezzo alla tempesta, prima di arrivare a Malta: “O ci salviamo tutti, o nessuno”. Questo è l’aspetto comunitario, questo siete anche voi, il vostro carisma, la vostra associazione: o si salva tutta o non si salva. O tutti, o nessuno. Non dovete permettervi divisioni tra voi. E se ci sono alcune divisioni, incontratevi, litigate, ditevi la verità, arrabbiatevi, ma da lì uscirà sempre più forte l’unità. Salvate sempre l’unità. Non abbiate paura di litigare, di discutere…, ma per salvare l’unità. Sempre dentro, sempre dentro. E questo è uno strumento importante per salvare l’unità: o ci salviamo tutti, o non si salva nessuno. I particolarismi, qui, sono brutti, brutti.
Ci sono [nella domanda] il “discernimento dei segno dei tempi”, “semi di novità”, come “rinunciare a quote di libertà per accedere a ruoli di responsabilità”… Tre cose: la prima l’ho detta, o tutti o nessuno. Seconda: formate figli, formate discepoli con questa “mistica” [atteggiamento interiore], e lasciate a loro la fiaccola, che la portino avanti. Non ci sono dirigenti eterni: l’unico eterno è l’Eterno Padre. Tutti noi dobbiamo passare la fiaccola ai figli perché la portino avanti. Fare discepoli, formare discepoli è una rinuncia, ma è una rinuncia di saggezza. Fare un passo “da parte” perché il figlio possa portare avanti le cose. Aiutarlo, custodirlo, ma non iper-proteggerlo: lasciarlo libero. E Colui che fa tutto questo lavoro di mantenere l’unità, la creatività, le nuove sfide, i nuovi figli è lo Spirito Santo. E’ la preghiera allo Spirito Santo. Bisogna chiedere a Lui, perché Lui è quello che ci consola nelle difficoltà, è Colui che è la gioia: lo Spirito Santo è la gioia della Chiesa. E’ Colui che ci aiuta, ci dà la gioia. Lo Spirito Santo è l’armonia, è Colui che delle diversità, che Lui stesso crea, fa l’armonia di tutta la Chiesa. Lo Spirito Santo è la bellezza. Ricordiamo quella volta che Paolo è andato in una comunità cristiana nuova e ha chiesto loro: “Avete ricevuto lo Spirito Santo?” – “Ma noi neppure sappiamo che ci sia uno Spirito Santo” (cfr At 19,2). E quante istituzioni finiscono male, o perdono il carisma proprio delle origini, perché hanno dimenticato lo Spirito Santo, che è consolatore nelle difficoltà, è la gioia, è l’armonia, è la bellezza?
E così, ringrazio voi per la pazienza che avete avuto nell’ascoltare questo “sermone di Quaresima”, che erano sette: come i “sermoni delle sette parole”, che in Argentina duravano tre ore! Grazie tante. Grazie per quello che fate, grazie della testimonianza. E, per favore, vi chiedo di pregare per me, perché questo lavoro non è facile. Pregate per me. Grazie.
Copyright © Dicastero per la Comunicazione - Libreria Editrice Vaticana