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CELEBRAZIONE DEI PRIMI VESPRI DELLA XXVI DOMENICA «PER ANNUM»

OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II

Chiesa dei Santi Andrea e Gregorio al Celio - Sabato, 30 settembre 1989

 

“Grazia a voi e pace da Dio, nostro Padre” (Col 1, 2).

Abbiamo ascoltato le parole dell’Apostolo alla comunità di Colossi, cioè la lettura prescritta per la vigilia della ventiseiesima domenica dell’anno. Sono le medesime parole che rivolgo a voi questa sera. Innanzitutto saluto mio fratello in Cristo, l’Arcivescovo di Canterbury al quale do di cuore il benvenuto assieme agli altri rappresentanti della comunione anglicana che lo accompagnano. Vi do il benvenuto a Roma, nella città bagnata dal sangue degli apostoli Pietro e Paolo; vi do il benvenuto in questa chiesa di san Gregorio, dalla quale mille e quattrocento anni fa, il mio predecessore Papa san Gregorio Magno, invio sant’Agostino a predicare “la parola di verità” (cf. Col 1, 5) alle genti d’Inghilterra. Agostino era priore del monastero di sant’Andrea sulla collina del Celio, monastero che sorgeva esattamente dove noi siamo raccolti questa sera, unendoci a quella successione ininterrotta di preghiera e di lode innalzata a Dio da questo luogo durante i secoli. Rivolgo il mio saluto ai rappresentanti della stessa vigorosa tradizione monastica con i quali condividiamo la nostra preghiera. Come non ricordare, a questo proposito, l’importante ruolo sempre avuto dalla vita monastica - e non meno in Inghilterra - per far sì che la “parola di verità” (cf. Col 1, 5) fosse ricevuta, vissuta e tramandata?

Inviando sant’Agostino a predicare tra il popolo anglosassone, san Gregorio metteva in atto la responsabilità pastorale e missionaria propria al ministero del Vescovo di Roma. Nei suoi scritti, scopriamo una ricca e profonda valutazione del primato universale affidato al Vescovo che occupa la Sede di Pietro. Fu lui a chiamare il Vescovo di Roma “caput fidei” e a descrivere colui che deteneva tale ministero come il “servus servorum Dei” (Epist. XIII, 39).

2. E come Vescovo di Roma mi sono recato in Inghilterra sette anni fa, per far visita ai cattolici di quella Nazione. Il mio viaggio mi ha portato da un capo all’altro del paese, e mi ha portato anche a Canterbury, nella chiesa cattedrale di sant’Agostino. Recandomi in pellegrinaggio alla tomba del martire san Tommaso Becket, pensavo di contribuire a rimarginare le ferite terribili inferte al Corpo di Cristo nel XVI secolo. Noi, vostra grazia, pregammo insieme in quel luogo per quella integrità, quella pienezza di vita in Cristo che è il dono d’unità di Dio.

Il mio pellegrinaggio a Canterbury era dettato dall’obbedienza alla volontà di nostro Signore Gesù Cristo, il quale nella notte che precedette la sua morte pregò “che tutti siano una cosa sola” (Gv 17, 21). Nella nostra epoca le divisioni tra i cristiani impongono che il primato del Vescovo di Roma dovrebbe essere anche un primato nell’azione o nell’iniziativa a favore di quell’unità per la quale Cristo ha così ardentemente pregato. Considero questa nostra preghiera della sera insieme come un ulteriore momento di quel pellegrinaggio ecumenico che cattolici ed anglicani, assieme agli altri cristiani, sono chiamati ad intraprendere. La nostra mèta è riscoprire ancora una volta, insieme, quella comune eredità di fede che condividevamo prima della tragica sequela di eventi che divisero quattro secoli orsono i cristiani dell’Europa. Dobbiamo trovare le nostre radici comuni in quei mille anni durante i quali i cristiani d’Inghilterra erano uniti nella fede seminata in quella terra da sant’Agostino.

Nella dichiarazione comune che firmammo insieme a Canterbury, abbiamo stabilito di costituire la seconda commissione internazionale cattolica-anglicana (Anglican-Roman Catholic International Commission, ARCIC-II), perché essa potesse studiare le differenze dottrinali che permangono tra di noi e che ancora ci separano. In questo nostro incontro, tuttavia, non possiamo non riconoscere che degli avvenimenti sopraggiunti negli ultimi anni hanno seriamente acuito le differenze esistenti tra noi, rendendo più arduo il lavoro della commissione. La commissione ha il compito di studiare le radici e le origini di queste differenze. Oggi, è mio desiderio sostenere i suoi membri nel loro arduo compito di studiare le radici e le origini di queste differenze. Possano essi essere animati dalla speranza e dal coraggio nel loro sforzo di raccogliere questa sfida.

3. L’integrità della fede apostolica così come essa è stata trasmessa ai credenti una volta per tutte nella Tradizione apostolica (cf. Gd 3), deve essere integralmente preservata se vogliamo che la nostra unità sia l’unità per la quale Cristo ha pregato.

La responsabilità di discernere l’insegnamento e la pratica, che sono parte di quanto Paolo definisce il deposito che ci è stato affidato e che noi dobbiamo custodire (cf. 1 Tm 6, 20) incombe all’autorità magisteriale della Chiesa. Secondo le parole del Concilio, “l’ufficio di interpretare la Parola di Dio scritta o trasmessa è affidato al solo magistero vivo della Chiesa” (Dei Verbum, 10). La funzione specifica dei Vescovi, che deve essere esercitata in comunione con la Sede di Pietro per assicurare la unità e la continuità della fede, è vitale se noi vogliamo trasmettere la fede di Pietro, di Gregorio e di Agostino; se dobbiamo evangelizzare ancora una volta i popoli dell’Europa e predicare il Vangelo a tutti i popoli della terra.

San Gregorio era un uomo di vasta esperienza. Quale rappresentante della Chiesa di Roma presso la Chiesa di Costantinopoli, egli ben sapeva che poteva esistere varietà nel confessare e vivere la fede, nella sua espressione liturgica, come anche nella spiritualità, nella teologia, nella disciplina ecclesiastica, pur preservando in tutte le cose l’unità dello Spirito per mezzo del vincolo della pace (cf. Ef 4, 3). Tale era certamente la sua speranza e la sua visione per la Chiesa d’Inghilterra. Il continente di Gregorio e di Agostino ha urgente bisogno oggi di ascoltare di nuovo la “parola di verità” (cf. Col 1, 5).

L’onda della superstizione cresce, come tra i Colossesi ai tempi di san Paolo. Siamo accerchiati dalle forze di secolarizzazione che trascinano con loro l’ignoranza della Parola di Dio. I popoli del nostro continente chiedono a gran voce “la Buona Novella” e guai a noi se non la predichiamo.

4. “Grazia a voi e pace da Dio, nostro Padre”.

Quando Paolo scrisse queste parole ai Colossesi, e quando egli rese grazie a Dio per la loro “fede in Gesù Cristo” e “la carità . . . verso tutti i santi”, lo fece in uno spirito di speranza e di coraggio. Ma Paolo scrisse queste parole anche preoccupato che alcuni cristiani di Colossi vacillassero nella loro fede in Gesù Cristo, Signore e salvatore il quale con la sua morte e la sua Risurrezione ha trionfato su tutti gli altri principati e potestà, sulla terra e nel cielo. Questa preoccupazione ha ispirato a Paolo il grande inno a Cristo, generato prima di ogni creatura.

“Egli è prima di tutte le cose e tutte sussistono in lui. Egli è anche il capo del corpo, cioè della Chiesa” (Col 1, 17-18).

Cristo è il nostro capo; egli ha il primato su tutte le cose. È il nostro Signore. Il nostro principio e il nostro ultimo fine. Così come ai tempi di san Paolo, tutti i nostri sforzi per ristabilire l’unità tra i cristiani saranno vani se essi non si compiranno in tutta fedeltà alla fede in Cristo trasmessa dagli apostoli.

5. È mia ferma speranza che questo nostro incontro a Roma faciliti il cammino perché Roma e Canterbury possano pervenire a proclamare insieme la “parola di verità”, come esse facevano al tempo di Gregorio e di Agostino. Il Vangelo è predicato molto al di là del nostro continente. Anche noi possiamo affermare, con Paolo, che il Vangelo “fruttifica e si sviluppa” in tutto il mondo. Il compito missionario infonde un’urgenza nuova alla nostra azione ecumenica: abbiamo una speciale responsabilità nei confronti dei paesi in via di sviluppo, in essi infatti sono state introdotte le divisioni che hanno avuto origine in Europa.

Né possiamo dimenticare i tragici conflitti e le tragiche divisioni che deturpano il volto del nostro mondo. In modo particolare, in questi giorni, il nostro pensiero si volge al popolo del Medio Oriente, una regione che tanta parte ha nei pensieri e nelle preghiere del carissimo fratello al quale ho dato oggi il benvenuto qui. Se uomini e donne debbono conoscere la pace di Cristo, se essi debbono essere riconciliati in lui, il solo che può portare la pace al mondo, allora è necessario che i cristiani siano visti come una comunità riconciliata e, al tempo stesso, capace di riconciliare.

Come è grande la messe che noi dobbiamo raccogliere per Cristo! Nelle brillanti città del nostro mondo sono tanti gli uomini feriti, gli uomini perduti, gli uomini soli. Sono tanti gli uomini senza riparo, sono tanti gli affamati che chiedono il pane della vita e vorrebbero trovare il loro rifugio in Cristo Gesù.

Prego affinché durante questi giorni della visita a Roma dell’Arcivescovo di Canterbury, possiamo essere veramente guidati da Dio verso quell’unità che è il suo dono. Lo scopo a cui debbono tendere tutti i nostri tentativi e le nostre azioni deve essere l’unità di tutti in Cristo, nostro capo. Possa la nostra ricerca d’unità essere per il mondo un segno della pace e della gioia che sono state date in Cristo.

Carissimi fratelli e carissime sorelle in Cristo: “Grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro”.

 

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