DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
AI VESCOVI DEL BRASILE
IN VISITA «AD LIMINA APOSTOLORUM»
Sabato, 10 febbraio 1990
Cari fratelli nell’episcopato.
1. Dopo il breve colloquio con ognuno di voi, è arrivato il gradito momento di incontrarci tutti insieme: i vescovi della regione “Sul-Três”, della Conferenza Nazionale dei vescovi del Brasile che qui si trovano in visita “ad limina Apostolorum” e il successore di Pietro. Sentendo profondamente la “sollicitudo omnium ecclesiarum” (2 Cor 11, 28), di cuore do adesso il benvenuto a tutti voi. Voglia Dio che questa visita preparata con tanta cura possa portare a ogni singola Chiesa, di cui voi siete pastori, a quante costituiscono la regione e la provincia ecclesiastica che con essa coincide, a tutto il popolo di Dio del Brasile e di conseguenza alla Chiesa universale, i più abbondanti frutti. Frutti di grazia e pace che non si può cessare di ricercare nel compimento di questo speciale dovere che la carica episcopale impone (cann. 399 e 400). E che il Dio della pace vi renda tutti sempre più “perfetti in ogni bene, perché possiate compiere la sua volontà, operando in voi ciò che a lui è gradito, per mezzo di Gesù Cristo” (Eb 13, 20). RicevendoVi oggi, penso di accogliere tutti i cari fratelli e sorelle, vostri diocesani, per i quali spendete la maggior parte delle vostre energie, seguendo il cammino del buon pastore (Gv 10, 11), in una vita interamente dedicata al gregge affidato alle vostre cure. Nella Chiesa-Comunione, nel Corpo mistico di Cristo, oltre che a voi e ai fedeli di “Rio Grande do Sul”, queste stesse parole sono dirette anche agli altri fratelli vescovi del Brasile; così come continuerò a pensare ai pastori della Regione “Sul-Três”, nei prossimi incontri con altri gruppi, che verranno anch’essi in questo anno alla Città eterna in visita “ad limina” per venerare le tombe dei santi apostoli Pietro e Paolo.
2. Non potrei fare a meno di volgere, subito dopo l’inizio di queste parole di fraterno saluto, il mio pensiero e il mio affetto a tutta la grande Nazione brasiliana. Perdura in me il ricordo vivo della calda accoglienza che mi porse l’affettuoso popolo delle vostre terre che in modo manifesto conquistò il mio cuore nel corso della mia indimenticabile visita pastorale, ormai quasi dieci anni fa. D’altra parte non si può dimenticare che il Brasile cattolico rappresenta una considerevole parte della Chiesa, in termini di circoscrizioni ecclesiastiche, con un corrispondente episcopato: da qui deriva la sua importanza, particolarmente preponderante, soprattutto nel contesto dell’America Latina. Non ignoro le grandi ricchezze umane della gente brasiliana, frutto soprattutto della meravigliosa mescolanza di razze e di culture che lì si è verificata, grazie anche a una convergente visione cristiana dei valori umani. Questi stessi valori trovano il loro fondamento nella profonda religiosità che continua a caratterizzare ancora in modo particolare quella “Terra de Santa Cruz”, come quasi cinque secoli or sono venne denominata dai primi portoghesi che sbarcarono nel nuovo Continente. Non ignoro, d’altra parte, l’immenso numero di problemi di ogni specie che gravano sempre di più e in percentuale crescente su questo popolo tanto devoto, ma il più delle volte anche sofferente; in modo particolare nell’attuale congiuntura, caratterizzata dalla contrapposizione discriminatoria e indiscutibilmente ingiusta, di un mondo diviso in blocchi, vale a dire Nord e Sud, la qual cosa non ho potuto fare a meno di denunciare già varie volte.
3. Di conseguenza si può ben stimare quanto deve pesare nei vostri cuori di pastori questa serie di problemi di un Brasile che sta certo attraversando sotto vari aspetti uno dei momenti difficili della sua storia, sebbene voi rappresentiate uno degli Stati ancora privilegiati grazie al suo dinamismo nel superamento dei problemi nazionali comuni che in altri Stati raggiungono dimensioni fino a pochi anni fa impensabili. È quindi comprensibile la preoccupazione dei pastori riguardo la promozione dell’uomo. Tuttavia sarebbe doloroso e persino dannoso se essa diventasse tanto coinvolgente e a volte persino vincolata a scelte ideologiche estranee al messaggio evangelico, al punto da alterare del tutto il fine principale della Chiesa.
Certamente la Chiesa, nella ricerca del suo fine principale, e cioè la “salus animarum” nel reale senso dell’espressione, non si oppone alla realizzazione terrena dell’uomo, né se ne dimentica. È da tutti riconosciuto quanto l’umanità sia debitrice alla Chiesa riguardo la difesa dei diritti umani e del progresso, così come per ciò che concerne lo sviluppo e la promozione delle persone. Tuttavia questa promozione dell’uomo sempre è stata e sempre deve essere per la Chiesa risultato della ricerca del suo fine specifico. È con gli occhi su di esso che la Chiesa si preoccupa della formazione e dell’esperienza religiosa dei cittadini di qualsiasi Stato, con una speciale impostazione della sua etica sociale basata sul fine ultimo di ogni società. Questo è il miglior contributo che la Chiesa può dare per la costruzione della società civile.
Attraverso la storia, per potere devolutivo e con carattere assolutamente straordinario e transitorio, la Chiesa, senza rinunciare alla sua dottrina sui due poteri autonomi e sovrani, dovette risolvere problemi civili in circostanze di estrema necessità. Pretendere per ciò di rivendicare per la Chiesa un potere che assolutamente non le compete è certamente servirla male, nel peggiore dei modi. Si può comprendere la facile e forte tentazione che in certe circostanze potrebbe avere un pastore di canalizzare nella direzione univoca o quasi della promozione umana tutto il suo impegno pastorale. Ma si tratta di una tentazione che egli deve superare, come la superò Cristo, il buon pastore. Nel suo esempio certamente possiamo e alcune volte dobbiamo, come Chiesa, all’interno della sua competenza e in modo sussidiario, trovare soluzioni anche per problemi di ordine temporale, soprattutto nelle situazioni in cui si vede compromessa la dignità dell’uomo e sono calpestati i suoi più elementari diritti.
4. Tuttavia, ricordiamo che il “misereor super turbas” (Mc 8, 2), che portò Gesù addirittura alla moltiplicazione dei pani, non allontanò minimamente il Maestro dalla propria missione. Le moltiplicazioni dei pani non furono fine a se stesse, e ancor meno potrebbero servire (nonostante le insistenze di coloro che avevano ricevuto la grazia, per nominarlo re, salvatore) come pretesto per far sì che il Maestro assumesse una guida politica o qualcosa di simile. Ma il modo di procedere del Maestro finì per diventare motivazione e preparazione per la grande promessa dell’Eucaristia, di quell’alimento che non perisce, del pane vivo disceso dai cieli, del pane che dà la vita eterna (Gv 6, 15. 26. 58).
È ancora il Maestro, il buon pastore, a ricordarci: “Rendete dunque a Cesare quel che è di Cesare” (Mt 22, 21). Dal Vangelo emana, trasparente, la volontà di Dio, rivelata da Cristo e in Cristo: Re sì, ma “non di questo mondo” (Gv 18, 36). Dio vuole che siano due i poteri che governano la città terrena e la città celeste: poteri distinti e autonomi, armoniosamente compenetrati. La recente sintesi conciliare di questa dottrina non meno trasparente ci ricorda con insistenza la distinzione tra la città terrena o degli uomini, che è la società civile, e la Chiesa, che è città e regno di Dio. È compito degli uomini, secondo le leggi divine, incise nella stessa natura umana, organizzare la città terrena e designare le autorità che la governano. La Chiesa, da parte sua, venne costituita direttamente per volontà di Gesù Cristo che le diede le sue leggi fondamentali, le sue finalità e le sue funzioni proprie (cf. Gaudium et spes, 76).
5. Per il cristiano c’è la “compenetrazione della città terrena e di quella celeste” e a lui spetta di compiere i doveri corrispondenti all’una e all’altra all’interno delle rispettive leggi. Ma “la missione propria che Cristo ha affidato alla sua Chiesa non è d’ordine politico, economico o sociale: il fine, infatti, che le ha prefisso è d’ordine religioso”. Pertanto, solo gli aspetti religiosi, spirituali e morali della città terrena fanno parte della missione propria della Chiesa. Riguardo alle attività economico-sociali, “i cristiani che partecipano attivamente allo sviluppo economico-sociale contemporaneo e alla lotta per la giustizia e la carità, siano convinti di poter contribuire molto alla prosperità del genere umano e alla pace del mondo”.
È di grande importanza, tuttavia, soprattutto in una società pluralistica, che si abbia una giusta visione dei rapporti tra la comunità politica e la Chiesa. È necessario fare una chiara distinzione tra le azioni che i fedeli, individualmente o in gruppo, compiono in nome proprio, come cittadini, guidati dalla loro coscienza cristiana, e le azioni che realizzano in comunione con i loro pastori, in nome della Chiesa. “La Chiesa che, in ragione del suo ufficio e della sua competenza, in nessuna maniera si confonde con la comunità politica e non è legata ad alcun sistema politico, è insieme il segno e la salvaguardia del carattere trascendente della persona umana” (Gaudium et spes, 42. 72. 76).
Tutto quello che la Chiesa, come popolo di Dio in pellegrinaggio nella realtà contingente del mondo presente, ha fatto e non potrà mai smettere di fare in favore della realizzazione terrena dell’uomo, in armonia con la sua realizzazione cristiana, è in quanto Chiesa che sempre dovrà farlo, rispettando i principi sopra ricordati. Il suo coinvolgimento nei problemi socio-economici e nella vita della comunità politica, deve essere sempre e soltanto conseguenza o corollario della sua missione principale; questa è, come si sa, l’annuncio e la testimonianza di Gesù Cristo, Vangelo del Padre, seguendo l’unico spirito della verità. Pensare, parlare e agire in senso diverso sarebbe ovviamente svilire completamente la natura della Chiesa stessa, quale la fondò nostro Signore Gesù; oltre ad essere una forma di clericalismo che appare oggi più che mai anacronistica.
6. Non possiamo mai scordare che la Chiesa nella stessa enciclica Gaudium et spes (nn. 1-5), riferendosi al mondo contemporaneo, con “le sue gioie e speranze, tristezze e angosce”, e dirigendosi ad esso, si proclama apertamente: “comunità di uomini i quali, riuniti insieme nel Cristo, sono guidati dallo Spirito Santo nel loro pellegrinaggio verso il regno del Padre”; oltre a questo presenta apertamente il “Cristo crocifisso e risorto come la sua unica redenzione e salvezza”. La grande riflessione conciliare sulla Chiesa, dalla quale risultò l’Enciclica dogmatica, Lumen gentium non ha lasciato nessun dubbio rispetto la natura e finalità della Chiesa stessa. E si definì: “in Cristo, sacramento, ossia il segno e lo strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano”. In essa si attua il piano di salvezza universale del Padre, il regno rivelato e inaugurato da Cristo, Figlio di Dio incarnato nello Spirito Santo. La Chiesa, manifestazione visibile del Cristo invisibile, popolo sacerdotale, profetico e regale, continua a fare la proclamazione e l’instaurazione crescente di quel regno di Dio, “in pellegrinaggio tra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio”. La “salus animarum” è il suo fine essenziale e la sua legge suprema. La santificazione è l’apice e l’obiettivo ultimo di tutto il suo impegno di salvezza, secondo la vocazione di tutti alla santità (Lumen gentium, 1. 6-8. 39).
Verso la salvezza e la santificazione si devono quindi orientare gli sforzi di evangelizzazione con tutti i mezzi, e con tutti gli operai. Conviene però chiarire che, nella evangelizzazione in campo sociale, che è un aspetto della funzione profetica della Chiesa, l’annuncio è sempre più importante della denuncia, e questa non può prescindere da quello (cf. Sollicitudo rei socialis, 41). Verso la salvezza e la santificazione deve orientarsi ogni esercizio del sacerdozio comune del popolo di Dio, più ancora del sacerdozio ministeriale, secondo la riflessione del più recente Sinodo dei vescovi, presente nell’esortazione apostolica “Christifideles laici” (n. 41). E tale esercizio deve essere sempre guidato dalla carità. Questa, paradossalmente, “si fa più necessaria quanto più le istituzioni, diventando complesse nell’organizzazione e pretendendo di gestire ogni spazio disponibile, finiscono per essere rovinate dal funzionalismo impersonale, dalla esagerata burocrazia, dagli ingiusti interessi privati, dal disimpegno facile e generalizzato”.
7. Cari fratelli nell’episcopato, so bene quanto voi siete coscienti delle responsabilità strettamente ecclesiastiche che vi competono, che esse accompagnino sempre ognuno di voi nella sua singola Chiesa, nella Regione e nel Brasile. È grande il compito che grava sulle vostre spalle, ma la certezza che deriva dalla fede in Cristo incoraggia tutti noi. Basti pensare all’impegno fondamentale dell’evangelizzazione del Brasile che è prossimo a celebrare i suoi cinque secoli d’evangelizzazione, tale impegno attinge proporzioni veramente impressionanti, come lo dimostrano i programmi pastorali consapevolmente elaborati dalla Conferenza Nazionale, dalle Province ecclesiastiche e dalle Regioni, così come da ogni singola Chiesa. Il “prodigarsi” e il “superprodigarsi” dell’Apostolo (2 Cor 12, 15) non può cessare di essere la ragione di vita per ognuno di voi, per i padri e gli altri consacrati, così come per ogni fedele cosciente della sua dignità e responsabilità, in relazione al servizio del Regno, che è Regno di amore e di pace.
Solo una Chiesa unita, come la vuole Gesù, il buon pastore, “una sola cosa con lui e con il Padre” (cf. Gv 17, 21-23), potrà portare avanti la meravigliosa ma tanto impegnativa missione che egli le ha affidato. E soprattutto non si può permettere, per le ragioni sopra ricordate che, a causa di una promozione umana mal interpretata, vi sia una spaccatura della sua unità, nella verità e nella carità. Tale comunione è la più grande grazia che Gesù chiese insistentemente al Padre, quando ci fece il dono supremo dell’Eucaristia: “ut omnes unum sint” (Gv 17, 21).
8. Che Maria Immacolata, “Nossa Senhora Aparecida”, patrona del Brasile, vegliando su tutti i suoi figli della Patria brasiliana ad ella consacrata, conservi sempre nell’unità la Chiesa pellegrina in questa “Terra de Santa Cruz”.
Concludo, pieno di speranza, augurandomi che l’unione delle singole Chiese che si trovano a “Rio Grande do Sul”, riunite nella Provincia ecclesiastica che ha le sue radici nell’antica diocesi dedicata a san Pietro, continui a splendere nell’unità della Chiesa universale che qui oggi celebriamo. È questo che chiedo insistentemente al buon pastore, salutando per tramite vostro i suoi presbiteri, le comunità di consacrati, le parrocchie, le famiglie, i giovani e i bambini, gli anziani e tutti quelli che soffrono, infine, tutti i cari “gauchos”, diocesani vostri. Portate loro la certezza del mio affetto e il mio incoraggiamento a vivere la propria vocazione cristiana, cercando prima di tutto l’unico regno di Dio e la sua giustizia, con la piena benedizione apostolica che io do loro di tutto cuore.
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