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UDIENZA DI GIOVANNI PAOLO II
IN OCCASIONE DELLA PROMULGAZIONE
DEL «LIBRO DEL SINODO» DELLA DIOCESI DI ROMA

Sabato, 26 giugno 1993

 

. “Né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio” (Mt 16, 17).

Il nome di Pietro è legato alla parola “pietra” (“Petrus-petra”). Cristo aveva dato questo nome a Simone già durante il primo incontro con lui, quando Andrea, suo fratello – erano ambedue figli di Giona – glielo aveva condotto (cf. Gv 1, 42). Nei pressi di Cesarea di Filippo Gesù chiarì questo nuovo nome pronunciando le parole sopra riportate.

In esse si trova racchiuso l’intero mistero di Pietro. Pietro è colui al quale il Padre ha voluto rivelare ed esprimere la verità sul proprio Figlio. Soltanto il Padre conosce il Figlio, e soltanto il Figlio può rivelare la verità su di lui (come pure soltanto il Figlio conosce il Padre e soltanto il Figlio può rivelare la verità sulla paternità divina(cf. Mt 11, 22).

Nei pressi di Cesarea di Filippo, Dio volle esprimere per mezzo di Simon Pietro questa verità, riguardo al Figlio e nello stesso tempo anche riguardo al Padre. Su questa verità è edificata la Chiesa. Di essa rende testimonianza lo Spirito Santo che il Padre manda nel nome del Figlio (cf. Gv 14, 26). In virtù di essa rendono testimonianza anche Pietro e gli apostoli.

Ciò che aveva avuto il suo primo inizio nei pressi di Cesarea di Filippo assunse la forma di una piena testimonianza nel giorno di Pentecoste, quando Pietro parlò a nome dei Dodici (cf. At 2, 14-36). In conseguenza della sua parola apostolica è emersa nella storia la Chiesa, come comunità del nuovo popolo di Dio nel quale sin dal primo giorno entrano i rappresentanti delle varie nazioni che sono sotto il cielo (cf. At 2, 5).

Questa Chiesa è il nuovo Israele (cf. Lumen gentium, 9; Ad gentes, 5): il suo destino è di estendere i confini del regno al di fuori del popolo dell’antica alleanza. Il primo passo su questo cammino spetterà a Pietro, al quale lo Spirito Santo ordina di recarsi nella casa di Cornelio (cf. At 10, 1-48). Nello stesso tempo, però, Cristo stesso prepara l’uomo che – fra gli apostoli – doveva diventare uno “strumento eletto” (cf. At 9, 15) dell’evangelizzazione “inter gentes”: Paolo di Tarso.

2. “Né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio”. Ciò che è opera di Dio nell’uomo, ciò che a sua volta diventa la parte dell’uomo, la sua missione fino all’effusione del sangue, è stato manifestato nella figura di Pietro in modo particolarmente chiaro. Forse nessuno tra i Dodici possiede una così precisa caratterizzazione come uomo quanto Simone figlio di Giona. Vediamo chiaramente che colui che è chiamato a divenire un particolare ministro “delle grandi opere di Dio” (cf. At 2, 11), come uomo è debole e instabile. Accade anche che venga tentato sul terreno di questa sua debolezza umana. Satana vuole “vagliare come il grano” (cf. Lc 22, 31) tutti coloro che sono stati chiamati da Cristo, specialmente nell’ora della passione e della croce: in modo particolare ciò riguarda Pietro. Forse che lo stesso Pietro, poco dopo aver udito a Cesarea di Filippo di dover essere la pietra della Chiesa (cf. Mt 16, 18), non viene ammonito molto severamente? Cristo gli dice: Lungi da me, satana! Perché non sai distinguere ciò che è umano e ciò che è divino (cf. Mt 16, 23).

Non sa distinguere! Poco prima, infatti, è stato detto di lui: Beato te... il Padre mio te l’ha rivelato (cf. Mt 16, 17) e ha parlato per tuo tramite. Egli ha pronunciato la verità sul Figlio: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16, 16). Però in seguito ha prevalso ciò che veniva “dalla carne e dal sangue”, ciò che umanamente parlando sembrava essere perfino nobile. Non si nascondeva forse proprio questo nelle parole di Pietro: “Questo non ti accadrà mai, Signore” (Mt 16, 22), quando Cristo annunciava la sua passione, la sua morte in croce? Le parole di Pietro non erano forse dettate “dall’amore umano”?

Tuttavia questo amore non bastava. Anzi, andava in senso contrario: poteva diventare rigetto dell’Amore con il quale Dio aveva amato il mondo dando il Figlio suo (cf. Gv 3, 16). Rigetto di quell’amore con il quale il Figlio amava il Padre dando se stesso per la salvezza del mondo (cf. Ef 5, 2).

Pietro doveva maturare nella partecipazione a questo amore. Maturò quando, dopo la risurrezione, alla domanda di Cristo, rispose tre volte: “Signore, tu lo sai...” (cf. Gv 21, 15-17). L’amore capace di confessare, il nuovo amore, quello a misura della vocazione apostolica a misura della missione pastorale, nacque in Pietro non “dalla carne e dal sangue”, ma dalla preghiera redentrice di Cristo stesso: “Io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli” (Lc 22, 32).

3. Nell’imminenza dell’annuale solennità dei santi apostoli Pietro e Paolo, deve essere consegnato e messo a disposizione della Chiesa che è in Roma il frutto del lavoro di sette anni del Sinodo pastorale. Occorre farlo alla presenza di quel Pietro che la divina Provvidenza – a motivo delle persecuzioni della Chiesa in Gerusalemme – guidò dapprima ad Antiochia e poi a Roma. Qui egli ha collocato la sua realtà di “pietra”, di fondamento apostolico della Chiesa: qui, nella capitale dell’Impero, al centro del mondo di allora. Umanamente parlando questo era un compito sproporzionato: la Roma dei Cesari e il pescatore di Galilea. Ora in quest’opera contano altre proporzioni.

Ecco, giungeva a Roma “Cefa”, il testimone, uno dei Dodici, e nello stesso tempo “il primo” tra loro. Dava il suo contributo alla comunità romana – già in quel tempo “Comunità della Città e del Mondo” (“Urbis et Orbis”) –, portava la sua particolare “storia della vita apostolica”, la sua vocazione e la elezione. Portava tutto ciò che in lui avevano operato il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, malgrado le debolezze umane, e in un certo senso quasi servendosi di esse.

Durante gli ultimi anni di servizio alla Chiesa in Roma insieme con Pietro c’era Paolo, “prigioniero di Cesare”. La volontà di Cristo era che ambedue imprimessero il sigillo del martirio su questa Chiesa che perfino attraverso la sua caratteristica umana unisce in sé queste due dimensioni: “Urbis et Orbis”.

Si è soliti chiamare il Vescovo di Roma, oltre che “Vicarius Christi”, anche “Vicarius Petri”. Bisogna che venga ora proclamato a nome di Pietro il documento finale del Sinodo solennemente concluso durante la celebrazione della veglia di Pentecoste. Occorre che questo documento porti il sigillo dei due apostoli – Pietro e Paolo – perché è piaciuto il Signore della Chiesa che tale sigillo venisse impresso dal loro comune martirio in Roma ai tempi di Nerone.

4. Il Sinodo della Chiesa che è in Roma possiede una particolare eloquenza sullo sfondo della consapevolezza risvegliata nelle “Chiese sorelle” dal Concilio. Ecco, la nostra Chiesa ha intrapreso durante il suo Sinodo un lavoro analogo a quello di tante altre Chiese locali, lavoro indirizzato, come in ogni altra diocesi, al rinnovamento della comunità cristiana locale. Ciò che il Concilio ha fatto per la comunità universale delle Chiese “sorelle”, ciascuno dei sinodi diocesani – anche il nostro, romano – cerca di trasferirlo nella propria dimensione: si sforza cioè di attuare in questa dimensione un adeguato “aggiornamento”. Lo fa insieme con le altre Chiese e in modo simile, nella solidarietà “fraterna” con tutte e con ciascuna di esse.

Si deve sottolineare questo fatto. La Chiesa manifesta l’unità universale del corpo di Cristo proprio mediante questa “fraterna” collaborazione di ciascuno e di tutti. La Chiesa che è in Roma possiede poi particolari ragioni per una tale collaborazione a favore del bene comune, nella dimensione “cattolica” e nella dimensione “ecumenica”. Una particolare testimonianza di ciò si avrà nei giorni dei santi apostoli Pietro e Paolo con la presenza di tanti metropoliti che riceveranno il pallio; e, soprattutto, con la presenza, per noi tanto importante, della delegazione del Patriarcato di Costantinopoli.

5. Il documento finale del Sinodo romano è un “Libro”. In questa forma esso si aggiunge a molti altri documenti riguardanti la Chiesa che è in Roma e, particolarmente, alla conclusione del Sinodo precedente, legato al pontificato del servo di Dio Giovanni XXIII, nell’anno 1960.

Come “Libro”, questo documento deve essere letto, interpretato, commentato, attuato nella vita. Intraprendendo il lavoro di questa molteplice esegesi, non possiamo dimenticare che tra il I e il II Sinodo romano ha avuto luogo il Concilio Vaticano II. Il presente “Libro” riflette in se stesso ciò che tale Concilio ha elaborato per contribuire alla vita della Chiesa, sul finire del secondo millennio. Si tratta in questo caso non soltanto dei contenuti dottrinali, ma anche – e più ancora – di ciò che bisognerebbe chiamare il “procedimento conciliare”, procedimento “determinato” dall’intera visione della Chiesa donataci dal Vaticano II. Nel Concilio si è manifestata la consapevolezza che la Chiesa come “cammino” e come “missio” è, nella sua totalità, il popolo messianico e che in questo popolo ogni battezzato prende parte al triplice ufficio (“munus”) di Cristo, l’ufficio profetico, sacerdotale e regale. Nel Concilio si è manifestata la coscienza che la Chiesa partecipa con umiltà alla preghiera di Cristo per l’unità di tutti i discepoli, la coscienza ecumenica. Si è manifestata infine la consapevolezza che la Chiesa, pellegrina nel mondo, sta in esso compiendo la sua missione basandosi sui “cerchi del dialogo”, come ha indicato il servo di Dio Paolo VI nell’enciclica Ecclesiam suam.

“Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre” (Eb 13, 8) Consegnando il “Libro del Sinodo” nelle mani della Chiesa che è in Roma, desidero che risuonino nuovamente attraverso di esso le parole della confessione di Pietro fatta nei pressi di Cesarea di Filippo: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente”, e che su questa confessione si edifichi la Chiesa contro cui le porte degli inferi non prevarranno (cf. Mt 16, 18); la Chiesa, che ha “le chiavi del regno dei cieli” (Mt 16, 19), in ogni tempo e in ogni millennio.

6. Affido al cardinale vicario il compito di guidare l’opera dell’attuazione del Sinodo, assicurandogli la mia costante vicinanza e sollecitudine di Pastore. Saranno al suo fianco, in questo grande impegno, il vicegerente e i vescovi ausiliari, i sacerdoti e i diaconi, i religiosi e le religiose e tutti i fratelli e le sorelle della Chiesa di Dio che è in Roma. Essi potranno contare sulla generosa collaborazione dei padri cardinali, degli altri membri della Curia e di quanti vivono a Roma per prestare il loro servizio al ministero universale del successore di Pietro.

Come nei sette anni del cammino del Sinodo, così ora, nel tempo della sua concreta realizzazione, la risorsa più preziosa a cui non ci stancheremo di fare ricorso è la preghiera: mi affido per questo in modo speciale alle Comunità di vita contemplativa, ma chiedo a ogni parrocchia, a ogni aggregazione ecclesiale, a ogni membro del popolo di Dio che è in Roma di perseverare nell’orazione insieme con Maria, la Madre del Signore.

Per sostenere e accompagnare l’opera di attuazione del Sinodo è poi opportuno dar vita a un’apposita Commissione postsinodale che, curando l’approfondimento degli indirizzi pastorali contenuti nel “Libro del Sinodo”, promuova la convergenza intorno ad essi delle molteplici componenti della diocesi e programmi, in dialogo con ciascuna di queste, la loro graduale e ordinata realizzazione. La Commissione lavorerà alle dipendenze del cardinale vicario e in costante riferimento al Consiglio episcopale e sarà coordinata da mons. Cesare Nosiglia, che già ha assolto felicemente il compito di relatore generale del Sinodo. Si provvederà poi a nominare gli altri suoi membri.

Voglia il Signore, principio e fonte di ogni bene, concedere a questa diletta Chiesa di Roma la grazia di crescere, attraverso l’impegno di attuare il Sinodo, nella fedeltà a Cristo, il Figlio del Dio vivente, come pure nella comunione e nella concreta collaborazione, in vista della nuova evangelizzazione di questa Città e del mondo intero, alle soglie del terzo millennio cristiano.

7. Con tali auspici, accompagnati dall’assicurazione della mia costante preghiera, saluto cordialmente tutti voi qui presenti. In particolare, rivolgo il mio grato pensiero al card. vicario Camillo Ruini e ai vescovi ausiliari, al card. Ugo Poletti che ha guidato una parte dei lavori del Sinodo, ai membri sinodali e a quanti hanno attivamente collaborato allo svolgimento di quest’importante assemblea diocesana.

Saluto i capi dei Dicasteri e il Personale della Curia Romana, del vicariato di Roma, del Governatorato dello Stato Città del Vaticano, qui convenuti con i propri familiari. Vada il mio deferente ringraziamento alle rappresentanze degli Ordini e delle Congregazioni religiose, dei Movimenti e dei Gruppi ecclesiali, come pure a tutti i fedeli della diocesi, che hanno voluto con la loro presenza rendere l’odierno incontro solenne e familiare.

8. Pentecoste, veglia di preghiera e giorno della chiusura del Sinodo romano: ci sono singolari tratti di rassomiglianza con il Concilio Vaticano II. Tale Concilio è diventato come “un nuovo invio” degli apostoli, nella potenza dello Spirito Santo, alle soglie del terzo millennio. La Chiesa esce dal Cenacolo diventando sempre più se stessa per rinnovare, con la forza che le è data dallo Spirito, “la faccia della terra”. La Lumen gentium e la “Gaudium et spes”, sono come i due assi portanti del compito che, oggi, il nostro Sinodo riceve dal Concilio per questa Chiesa che è in Roma.

La vocazione dell’uomo assume, nelle indicazioni della costituzione pastorale, un significato centrale e fondamentale. Nello stesso tempo, questa vocazione si realizza mediante la molteplicità dei doni che servono per il bene di tutti. Per questo le suddette costituzioni del Concilio pongono in nuova evidenza come questa vocazione dell’uomo sia importante dal punto di vista della comunità matrimoniale e familiare, come sia importante dal punto di vista della vita sociale, economica e internazionale.

Il Concilio ricorda anche ciò che è importante dal punto di vista della comunità politica. La chiusura del Sinodo romano coincide con le tappe di rilevanti trasformazioni sociali, il cui contesto le rende particolarmente significative per la Chiesa di Roma, città che è, nello stesso tempo, capitale dell’intera comunità politica italiana. L’unità dell’Italia contemporanea ha un legame molto stretto proprio con Roma.

Per questa ragione un’attenta rilettura del messaggio conciliare e di quello sinodale sul tema della comunità politica può e deve aiutare in questo momento di ricerca e trasformazione. La sana critica si esprime in modo da non rompere con le esperienze del passato. Non c’è bisogno di cominciare da capo. È necessario infatti un risanamento e un rinnovamento a favore dell’unità non soltanto dei cattolici, ma di tutti i cittadini. La ragione della comunità politica è sempre il bene comune come garanzia del bene di ciascuno nella società democratica.

Insieme con i miei confratelli nell’Episcopato in Roma e anche in tutta Italia non cesso di raccomandare a Dio questo rilevante problema invocando l’intercessione della Madre di Dio e quella dei santi patroni che accompagnano tutti noi sulle vie del pellegrinaggio terreno.

Sinodo” significa “unità delle vie”. Supplichiamo Dio affinché l’impegno per simile unità sia fatto proprio da tutti coloro ai quali è cara l’Italia come comunità di cultura e di storia. Sia fatto proprio soprattutto da quanti, figli e figlie di questa Patria. sono, al tempo stesso, seguaci di Cristo e apostoli del suo Vangelo.

 

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