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SANTA MESSA NELLA PARROCCHIA DI SAN MARCO
NEL QUARTIERE DELL'AGRO LAURENTINO

OMELIA DI PAOLO VI

Domenica, 8 aprile 1973

 

«Ringrazio il Signore di aver creato questo luogo di preghiera e di carità, di riunione e di scuola cristiana». Con queste parole Paolo VI esordisce all’omelia, caratterizzandola subito come un incontro tra pastore e fedeli, semplice, paterno, cordiale.

Esternando la propria commozione per l’essere insieme in quella casa del Signore, il Santo Padre assicura ai fedeli la sua preghiera e la sua sollecitudine per la comunità, sentimenti questi che ha tradotto in un saluto diretto personalmente a ciascuno dei presenti, augurando che il Signore sia con loro, che ci sia davvero questa comunione religiosa ed umana che tutti li unisce come una famiglia. «Sapete che siamo parenti», ricordando che il fatto di essere cristiani ci fa tutti fratelli e figli del Padre in quanto partecipi di questa società organizzata come il Signore l’ha voluta, che si chiama Chiesa. Da questa parentela spirituale, dal diritto-dovere di chiamarsi fratelli e figli nascono la gioia di simili incontri ed il desiderio, sottolinea il Papa, di godere degli istanti memorabili, come quello che si sta vivendo nella chiesa di San Marco. Paolo VI ricorda quindi ai fedeli presenti la semplicità dei motivi che lo hanno portato tra loro. «Conoscerci, presentarci, e, se fosse possibile, noi dovremmo fare una chiamata per nome, perché tutti avete diritto ad essere riconosciuti nella dignità di appartenere a questa comunità».

Il Papa rivolge poi un saluto al Cardinale Vicario Ugo Poletti, suo rappresentante nella diocesi di Roma, ricordando come solo da pochi giorni sia nella sua nuova alta responsabilità pastorale, ringraziandolo della sua presenza e benedicendolo. È poi la volta del parroco, Padre Benedetto, come lo chiamano i parrocchiani, della famiglia dei francescani conventuali, della provincia veneta, quella del Santuario di Sant’Antonio, ricordando quanto bene faccia questa famiglia religiosa nella Chiesa d’oggi, e sottolineando come davvero si possa vedere in loro la fotografia moderna di San Francesco e di Sant’Antonio. Il Santo Padre invia, inoltre, un benedicente saluto a tutta la comunità della zona, sia ai sacerdoti che aiutano il parroco nella cura pastorale, sia ai fratelli religiosi della stessa famiglia, ricordando la loro dedizione al bene ed all’assistenza della comunità dei fedeli, la loro sollecitudine al dialogo con i quattordicimila abitanti del quartiere.

FIORITURE DI OPERE DI APOSTOLATO

Abbiate care queste realtà, prosegue Paolo VI, ricordando quanti cristiani non hanno la fortuna di avere una chiesa che li accolga, che sia punto d’incontro per le proprie riunioni, per pregare, non abbiano dei propri ministri che guidino la preghiera, che la sostengano, che vi aggiungano la loro voce per incoraggiarla ed il carisma del loro ministero per renderla grata a Dio.

Ed ecco, nell’elenco dei saluti, le tre famiglie di suore della Divina Provvidenza, tanto amate in tutta la parrocchia; le suore di San Giuseppe, le suore Geradine, che assistono le famiglie più bisognose. Dio le benedica, proprio perché sono partecipi di questo grande gesto della Chiesa, il ministero: l’essere incaricati di avvicinare, di servire, di aiutare, di parlare del Cristo, e di accogliere il dolore, di accogliere l’ansia religiosa e spirituale che è nel cuore del popolo.

Il Santo Padre non manca di ricordare le molteplici iniziative organizzate nell’ambito della parrocchia ed in particolare quelle di assistenza ai poveri e la «Milizia dell’Immacolata» fondata dal Beato Kolbe. Il cristiano deve essere unito, per categoria, per dati compiti da assolvere, deve far sì che il tessuto della comunione sociale, della parrocchia, sia davvero forte e fecondo di questi segni di partecipazione e di comunione, non solo individuale ma collettiva. Benedico tutto questo sforzo che parte dalla vostra parrocchia per esprimersi come famiglia di Cristo. Il Papa rivolge quindi un particolare saluto benedicente a tutte le famiglie presenti e nelle case vicine, sottolineando il calore della loro accoglienza alla sua visita.

Il Santo Padre altresì ricorda come la sua venuta nella parrocchia abbia anche altri scopi, quali quello di far propria l’esperienza della solennità, della coesione, dell’unità che piace tanto al Cristo e per cui Cristo si è fatto uomo, per rendere gli uomini più puri, più uniti per questa esperienza collettiva che sorpassa tutte le altre esperienze sociali, che possono venire da altri interessi. Siate veramente uniti, siate famiglia, famiglia di Dio. Siate capaci di volervi bene, di aiutarvi gli uni gli altri, di compatirvi, di non marcare le divisioni, le differenze sociali e professionali, culturali e di origine.

Ed ecco uno speciale accenno alla numerosa comunità di dalmati- giuliani. Salutandoli a parte il Santo Padre sottolinea che il suo gesto non vuole essere un atto di separazione, ma un accoglierli come fratelli, per farli sentire assimilati a quella nuova comunità, alla quale i dolori della storia vicina e la Provvidenza Divina li hanno accomunati. Il Papa augura a tutti la buona Pasqua, ricordando come il prossimo periodo pasquale debba essere per tutti un momento di pienezza spirituale, di coscienza di visione quasi di che cosa sia il nostro destino quando è segnato dal nome cristiano in questa vita.

PREDICARE CRISTO FRA LE GENTI

Il secondo scopo della visita del Supremo Pastore è quello di predicare Cristo tra le genti, seguendo la traccia sapientemente indicata dalla sacra liturgia per la preghiera collettiva della Chiesa. Del Vangelo del giorno, che presenta un tema immenso e stupendo, Paolo VI pone in risalto un pensiero centrale, inquadrandolo innanzitutto nella scena in cui i fatti si svolsero. Gesù entra in Gerusalemme. C’è stato tante volte, ma questa volta vi entra in maniera insolita, cioè a cavallo di un asinello. E questo doveva essere il suo trionfo, il suo riconoscimento ufficiale di fronte al popolo ebraico.

Erano giorni particolari. Tutta Gerusalemme era gremita di popolo, perché le feste di Pasqua avevano chiamato da tutte le regioni della! Palestina folle di fedeli che si accampavano qua e là. E c’era una grande vivacità, perché tutti avevano l’impressione che dovesse avvenire qualcosa di straordinario, cioè la rivelazione di colui che i secoli avevano aspettato. Doveva venire il Messia, il mandato da Dio. Gesù si presenta come il Messia e la gente, quasi toccata da una scintilla che fa divampare il fuoco, prende entusiasmo. «È lui, è lui, il figlio di David è qui!» - gridavano. I ragazzi andarono a strappare dagli alberi rami di ulivo e di palma gridando: «Viva, viva, osanna al figlio di David!».

È questa una delle pagine evangeliche più ricche di particolari che sembrano fotografici. Ci sono, per esempio, dei greci, dei forestieri venuti a Gerusalemme, una città che accoglieva tanta gente di passaggio che veniva per motivi di commercio o per transitare verso Paesi più interni dell’Asia. Questi greci si affacciano e, come tutti i curiosi, ripetono: «Vorremmo vedere Gesù». È una frase che ricorre due o tre volte nel Vangelo per indicare la curiosità di vederlo con gli occhi, di poterlo conoscere, di leggere nella sua fisionomia. Ma c’è sempre tanta gente intorno a Gesù. I greci non riescono ad avvicinarsi. E allora uno di essi si accosta a Filippo, uno dei discepoli. Il nome di Filippo, nome greco, ci lascia credere che in lui avessero trovato uno che parlava la loro lingua. E Filippo, che era uno degli apostoli, ma non il primo, si rivolge ad Andrea, fratello di Pietro, che era il capo riconosciuto da Cristo stesso della piccola comunità, e gli dice: «Vogliono vedere Gesù». Tutti e due si avvicinano a Gesù e gli dicono: «Ci sono dei greci che vorrebbero vederti». Non sappiamo come andò a finire, perché Gesù a questo punto comincia il suo discorso, il discorso rivelatore della sua psicologia, di quello che sentiva. È infatti una delle pagine del Vangelo da leggere con particolare intelligenza, poiché ci introduce nell’interiore psicologia di Cristo, ce l’apre davanti. Gesù non parla a quelli che gli sono vicino, ma a se stesso, alla storia, al mondo. Le mura di Gerusalemme si ergevano gigantesche e forti davanti a loro. Un altro evangelista, Luca, ci dice che Gesù, in quel momento, si mise a piangere. Anche in altre parti del Vangelo leggiamo che Gesù ha pianto.

QUAL È LA GLORIA DI CRISTO?

Per esempio, quando gli annunciarono la morte di Lazzaro. Anche questa volta piange. Piange per il destino di questa città che già vede distrutta. Queste mura così potenti le vede franare e cadere. Gesù ha davanti agli occhi due quadri: la futura caduta di Gerusalemme e il suo proprio destino: «Per questo sono giunto a quest’ora . . .». E scoppia nel dolore; sente che questo suo trionfo, che lo dichiara Messia pubblicamente e ufficialmente, gli varrà la morte. E si concede a questa passione, che dopo meno di sette giorni lo condurrà alla Croce. Sente che l’ora sua è venuta: «Padre, glorifica il tuo nome».

Avviene allora un altro fatto, uno dei tre fatti miracolosi e inesplicabili che troviamo registrati nel Vangelo, quando una voce dal Cielo risponde. Troviamo questa voce nella Trasfigurazione, la troviamo nel Battesimo di Gesù e la troviamo adesso. Dice: «Io lo glorificherò». E Gesù, allora, pensa alla sua gloria. Ma quale gloria? La Croce, che è l’ignominia, il disonore, lo spasimo, il dolore e la morte che Egli deve subire perché è entrato nel disegno di Dio e si è dichiarato mandato da Dio. La gloria di Cristo è il suo sacrificio, è la sua crocifissione, la sua morte. E qui la parola si allarga dal suo destino al nostro, a quello di quanti vogliono essere seguaci di Cristo, come dice l’odierno passo evangelico con accenti poetici. Se il grano di frumento non si dissolve nella terra e non cade, resta sterile; se invece nella terra si dissolve, e sembra morire, allora diventa fecondo, fruttifica. Questo è il disegno del cristianesimo, dice il Papa, questo è il disegno di chi lo seguirà. È la nostra grande legge del morire per vivere, del morire per amore per vivere di gloria. È il punto cardine del Vangelo e della vita cristiana.

È una predicazione difficile quella che ricorda a tutti la necessità di sacrificarsi per essere veri cristiani. Ci sono due atteggiamenti caratteristici degli uomini di fronte alla vita di questo mondo. Ci sono coloro che concepiscono la vita come un godimento. Bisogna - dicono - essere felici, avere tutto quello che serve, conseguire la pienezza dei beni di questo mondo. Molti concepiscono la vita in modo edonistico, cioè fatta di piaceri, fatta per la felicità e per i beni della terra. Non è che ci siano vietati questi beni della terra, specialmente quando sono necessari per la vita. Vediamo che il pane, la dignità, tutti i diritti umani sono anzi protetti dal Vangelo, e fatti addirittura oggetto della preghiera, della conversazione tra noi e Dio: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano». Ma quanti pensano soltanto a garantirsi questi beni per se stessi tradiscono il disegno di Dio che vuol essere invece impostato, fondato sull’amore.

IL SACRIFICIO FONTE DI VITA

Amore, è parola ambigua. C’è l’amore per sé, che si chiama egoismo. C’è l’amore per gli altri, che si chiama sacrificio, Ed è questo che il Signore ci indica col suo esempio come fonte di vita. Il Figlio di Dio venuto al mondo dà la sua vita in maniera così generosa, così pietosa, drammatica, tragica. Muore per noi tra gli spasimi del suo supplizio ignominioso sulla Croce. Muore per salvarci. Il sacrificio del Signore ci dice che dobbiamo concepire la nostra vita come un dovere. Ciascuno di noi è messo al mondo per fare qualcosa - non solo per sé, ma per gli altri - per amore, per un amore gratuito, disinteressato e generoso, costasse perfino la propria esistenza. Dobbiamo imitare Cristo che muore per noi. Dobbiamo essere anche noi come il grano di frumento che dà se stesso per trovare in se stesso le virtù superiori, la fecondità, la ricchezza che il Signore ha destinato ad ogni umana esistenza.

È una parola difficile, ma ben la possono capire la mamma di famiglia che dà la sua vita per i suoi bambini e per la sua casa, oppure l’operaio che lavora e suda per guadagnarsi il pane per la sua casa, oppure l’uomo pubblico che lavora, pensa e dispone per il bene altrui. Ciascuno di noi è chiamato a dare la sua vita per gli altri e non a chiudersi in se stesso accontentandosi della sua salvezza e della sua felicità. Dobbiamo procurare la felicità e il benessere degli altri anche a costo del dono di noi stessi. Il Signore ci insegna la grande legge del vero amore, la legge del morire per vivere.

Dobbiamo vivere per amare, spiega Paolo VI. Accoglie e vive la parola di Cristo colui che esercita la sua professione non solo per il proprio bene, ma per il bene degli altri, per il bene della società in cui viviamo in questo momento storico così turbato, così avido di godere; per far buoni, istruiti e liberi gli uomini che ci sono contemporanei e che ci sono fratelli. Il Papa reca questo annuncio drammatico perché è portatore della Parola del Vangelo. E il Vangelo ci dice che bisogna essere imitatori di Cristo. Gesù annuncia che a giorni sarà con le braccia distese, straziate, con le mani perforate dai chiodi, tutto vestito del proprio sangue e della propria angoscia: «Quando io sarò portato in alto» (e voleva dire in alto sulla Croce) «allora tutti verranno a me»: le folle, i fedeli, coloro che lo seguono, che lo imitano, che raccolgono la misteriosa virtù della Croce che rende buoni, coraggiosi e capaci di amare.

«È questo l’augurio - conclude Sua Santità - che porto a voi in questa Messa pre-pasquale. Guardate di amare Cristo crocifisso e di farne il libro della vostra esistenza, il codice della vostra imitazione, il segno della vostra felicità e della vostra immortale speranza».

                                      



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