VISITA PASTORALE A BOLOGNA E IN EMILIA ROMAGNA
SANTA MESSA IN PIAZZA VIII AGOSTO
OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II
Bologna, 8 aprile 1982
1. “Questa è la vittoria che ha sconfitto il mondo: la nostra fede” (1 Gv 5, 4).
Nella liturgia della odierna ottava di Pasqua ci parla soprattutto l’evangelista Giovanni, apostolo e testimone. Testimone oculare del Risorto.
E sue sono le parole pronunziate all’inizio, concernenti la fede come vittoria che sconfigge il mondo.
Riflettendo attentamente sull’insieme dei testi liturgici di questa domenica, possiamo ritrovarvi come una “genealogia” di queste parole, forti e determinanti.
2. Ecco, Giovanni, al pari di tutti gli Apostoli, partecipa agli avvenimenti pasquali che ebbero luogo a Gerusalemme tra il Giovedì Santo e il giorno “dopo il sabato”. Egli è testimone oculare della morte di Cristo: l’unico tra gli apostoli a trovarsi a fianco della Madre di Gesù, insieme con alcune donne della cerchia del Maestro. È testimone della morte e della sepoltura.
Egli è anche uno dei primi testimoni del sepolcro vuoto. Quando Maria Maddalena accorse per darne notizia agli apostoli, lui, con Pietro, si recò per primo alla tomba. E scrive quindi: “E vide e credette” (Gv 20, 8), aggiungendo subito: “Non avevano infatti ancora compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti” (Gv 20, 9).
Egli sa della risurrezione non solo dalla Scrittura, ma anche dalla visione diretta. Fu testimone oculare. Un giorno scriverà nella sua prima lettera di ciò che gli Apostoli, lui compreso, hanno udito, hanno veduto con i loro occhi, hanno contemplato e hanno toccato con le loro mani (1 Gv 1, 1).
3. Giovanni, poi, è testimone della prima venuta di Cristo tra gli apostoli dopo la risurrezione.
In questo modo l’immagine, che egli porta nella memoria, è completa. Facendo riferimento al Salmo dell’odierna liturgia, si potrebbero riferire a Cristo le parole:
“Mi avevano spinto con forza per farmi cadere, / ma il Signore è stato mio aiuto” (Sal 117 [118], 13).
Giovanni fu testimone oculare dell’uno e dell’altro fatto: e del momento in cui il suo Maestro è stato “spinto con forza” nell’abisso della morte, e, in seguito, del momento in cui “il Signore è stato il suo aiuto” mediante la “risurrezione dai morti”. Tutto il mistero della Pasqua si è svolto sotto gli occhi di Giovanni, apostolo ed evangelista.
Il Mistero della Pasqua si è rivelato ai suoi occhi come “la vittoria che ha sconfitto il mondo”.
Ha sconfitto il mondo con la sua obiettiva realtà.
E ha riportato la vittoria anche negli intelletti e nei cuori degli uomini. Prima, di quelli più vicini, che - come anche lui - “non avevano... compreso la Scrittura”, ossia tutto ciò che nell’Antico Testamento preannunciava la risurrezione. L’eloquenza della morte di Cristo - e per di più di quella terribile morte sulla croce - fu così schiacciante, così umanamente “convincente” e univoca, da rendere loro difficile di accettare questa nuova, inaudita realtà: prima il sepolcro vuoto, e poi Cristo tra i vivi, “inter mortuos Vivens”.
4. Giovanni fu testimone della prima venuta del Risorto nel Cenacolo “la sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato”. Fu anche testimone dell’incredulità di Tommaso. Tommaso non era con gli apostoli nel Cenacolo quella prima sera. Quando gli altri gli dissero: “Abbiamo visto il Signore!” (Gv 20, 25), reagì in modo assai significativo. Ecco le sue ben note parole: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi, e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò” (Gv 20, 25).
Otto giorni dopo, Giovanni fu testimone dell’avvenimento che è stato da lui descritto in maniera molto dettagliata. Cristo venne un’altra volta nel Cenacolo, a porte chiuse, e, dopo aver salutato gli apostoli, si rivolse direttamente a Tommaso. Si rivolse come se avesse conosciuto la sua reazione di una settimana prima e avesse sentito le parole che allora pronunciò Tommaso. “Metti qua”, disse Gesù, “il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!” (Gv 20, 27).
Giovanni ha visto tutto ciò con i propri occhi. Ed ha sentito con le proprie orecchie anche la risposta di Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!” (Gv 20, 28), una professione di fede nella Divinità di Cristo, che è forse ancora più risoluta e immediata di quella di Pietro a Cesarea di Filippo!
E infine le parole del Signore: “Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!” (Gv 20, 29).
Proprio in base a tali esperienze, Giovanni doveva scoprire i pensieri e le parole, scritte poi nella sua prima lettera: “Questa è la vittoria che ha sconfitto il mondo: la nostra fede”. Tale sembra essere la prima “genealogia” di queste parole di Giovanni, apostolo ed evangelista, che rileggiamo nell’odierna Liturgia.
5. “Tutto ciò che è nato da Dio vince il mondo; e questa è la vittoria che ha sconfitto il mondo: la nostra fede. E chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio?” (1 Gv 5, 4-5).
L’uomo contemporaneo può chiedersi: È veramente necessario sconfiggere il mondo? Non si tratta soltanto ed esclusivamente di “sistemare il mondo”, e di “sistemarsi nel mondo”?
Forse che l’uomo contemporaneo non si fa una tale domanda? Sì, egli pensa così. Anzi questa domanda la ritiene fondamentale e definitiva. Poniamola quindi adesso anche noi, per vedere quanto lontano arriva il suo giusto senso.
Dato che il Creatore disse all’essere umano, uomo e donna: Soggiogate la terra (cf. Gen 1, 28), allora, senza alcun dubbio, il compito dell’uomo e del cristiano è di “sistemare il mondo”.
L’insegnamento dell’ultimo Concilio è pieno di pensieri autenticamente cristiani a questo proposito.
Anche nell’odierna liturgia, la prima lettura, tratta dagli Atti degli Apostoli, fa vedere come la prima generazione dei discepoli di Cristo, già a Gerusalemme, intendeva cristianamente “sistemarsi nel mondo”:
“Nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro comune...
Nessuno infatti tra loro era bisognoso, perché quanti possedevano campi o case li vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli apostoli; e poi veniva distribuito a ciascuno secondo il bisogno” (At 4, 32.34-35).
In tal modo cercano di “sistemare il loro mondo” coloro, in mezzo ai quali gli Apostoli stessi con grande forza “rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti essi godevano di grande stima” (At 4, 33).
È noto che sin dai tempi più remoti, permane nella Chiesa la ferma convinzione circa la destinazione dei beni materiali all’“utilità comune”, circa la subordinazione di essi al bene comune: un argomento, che sempre, ma soprattutto nell’ultimo secolo, è tornato tanto vitale.
Ed è anche noto, per esempio dalle lettere di san Paolo, come era apprezzato e come veniva inteso il lavoro. La stessa cosa vale per quanto riguarda il matrimonio, la vita familiare. Sono tutte componenti umane, che potrebbero essere viste come risposta concreta alla domanda su come “sistemare il mondo” e su come “sistemare la vita umana nel mondo”.
6. In tali condizioni, prima gli apostoli e poi i loro successori, di generazione in generazione, incessantemente e “con grande forza rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù”; una testimonianza che, allo stesso tempo, non cessa di essere una sfida che accompagna la vittoria che sconfigge il mondo (cf. 1 Gv 5, 4).
Questa vittoria è qualcosa di più di un “sistemare il mondo”, cioè accettarlo come un bene uscito dalle mani del Creatore, che è stato riconfermato e di nuovo dato all’uomo da Colui che ha amato e ha “redento il mondo”.
La risurrezione di Cristo - e la fede nata da essa, come scrive meravigliosamente l’apostolo Giovanni - fu allo stesso tempo la conferma che l’uomo non può ridursi soltanto a “sistemare la sua vita nel mondo”.
L’uomo non può consegnare del tutto e definitivamente se stesso e la propria essenza al mondo, anche se ritenesse che, così facendo, egli riprende se stesso in maniera esclusiva e completa in pieno possesso. È una grande illusione del pensiero materialistico contemporaneo.
Infatti il mondo, in definitiva, tradisce l’uomo. Non esiste alla fine un’altra parola per l’essere umano, se non soltanto la parola “morte” - la realtà della morte.
La realtà della morte è un grande tema dell’esistenza umana. È uno di quei temi-chiave, con i quali bisogna aprire l’enigma dell’essenza dell’uomo. Alcuni orientamenti del pensiero contemporaneo, non necessariamente cristiani, ritrovano di nuovo questa chiave.
E anche ognuno di noi la ritrova quotidianamente e sempre di nuovo, anche se non sempre sa che questa è anche la chiave della sapienza: la chiave della domanda sull’uomo, sull’essenza stessa dell’uomo e della sua dignità.
A volte la morte viene a noi come un grande sconquasso. Così, per esempio, avvenne in questa città, quasi due anni or sono, quando mani assassine fecero saltare in aria un’ala della stazione ferroviaria e, precedentemente, causarono la strage del treno “Italicus”, per non dire di quella più lontana di Marzabotto. In tali casi siamo sconvolti, parliamo di una catastrofe, di un grande dramma . . . e giustamente. È così. L’elemento essenziale della drammaticità dell’esistenza umana nel mondo è la morte.
In questo caso, o in altro modo, il mondo cessa di essere la dimensione adeguata dell’esistenza umana. L’uomo si separa da essa. Il mondo, il mondo visibile, lo butta giù dalla sua superficie. Si potrebbe dire: “riporta su di lui, sull’uomo, la sua vittoria”. Se è vero che l’essere umano appartiene completamente al mondo, in tal caso il mondo, mediante la morte, lo sottomette completamente a sé, riporta su di lui la propria vittoria.
Può trattarsi, dunque, soltanto del fatto che l’uomo si “sistemi nel mondo”?
7. Quando l’apostolo ed evangelista Giovanni scrive: “La vittoria che ha sconfitto il mondo: la nostra fede” (1 Gv 5, 4), afferma con queste parole che l’essere umano non appartiene completamente al mondo: appartiene a Dio. La risurrezione di Gesù Cristo ha riconfermato questa fondamentale verità sull’uomo. Erano necessarie la morte e la risurrezione di Gesù perché l’uomo riconoscesse il senso definitivo della sua trascendenza. Perché capisse che deve “sistemare il mondo” e può anche (e deve) “sistemarsi nel mondo”, senza però consegnargli completamente la propria essenza. Senza abbandonargli se stesso. L’uomo può affidare se stesso soltanto a Dio.
Come ha fatto Gesù Cristo.
La morte e la risurrezione di Cristo sono un’incessante sfida all’uomo nella sua essenza umana, nella sua umanità. E nel suo rapporto col mondo, nel suo stile di vita.
Come vivete voi, cari fratelli e sorelle? Come viviamo noi tutti? L’orizzonte della nostra vita non si racchiude soltanto nel desiderio di “sistemarsi nel mondo”? Non diamo forse completamente a questo mondo la nostra essenza umana?
La morte di ogni uomo è una sfida per gli altri. La morte violenta di tanti nostri fratelli, che sono morti per la deflagrazione nella stazione di Bologna, fu una sfida per tutta la città, per la società italiana, per gli altri . . .
E la morte di Cristo, insieme con la sua risurrezione, è una sfida e insieme una chiamata.
Ecco, la “vittoria che sconfigge il mondo”.
8. Il cristianesimo non è un “insieme da museo”. Non può essere considerato come una tradizione tollerabile in tanto in quanto non impedisce di “sistemarsi in questo mondo”. Non lo è. Non lo è affatto!
È invece una grande realtà: è la realtà di Gesù Cristo per ogni uomo. È la realtà che tocca sempre e continuamente il problema dell’uomo. Lo tocca proprio nel punto, che molti invece schivano. I sistemi di pensiero e le ideologie lo eludono in modo sistematico, asserendo allo stesso tempo di rappresentare il progresso.
E Gesù Cristo, incessantemente - mediante la sua morte e risurrezione -, pone dinanzi all’uomo e all’umanità il problema della “vittoria che sconfigge il mondo”. E l’uomo deve scegliere: o esistere in questo mondo come colui che sarà in definitiva vincitore, oppure come colui che sarà in definitiva vinto dal mondo.
Questa è la scelta più importante per il futuro dell’uomo. Anche per la pace e la guerra. Anche per la giustizia sociale. E, soprattutto, è la scelta fondamentale per la morale, per la cultura e per la dignità dell’uomo.
9. “Chiunque crede che Gesù è il Cristo, è nato da Dio” (1 Gv 5, 1). L’uomo ha una sua grande genealogia, che Cristo ha riconfermato con il Vangelo e sigillato con la morte e risurrezione.
L’uomo ha la sua grande genealogia, nel nome della quale non può consegnare al mondo tutta la sua essenza. Non può affidare alla sola “materia cosmica” questa immagine e somiglianza con Dio, che porta in sé.
L’uomo ha la sua grande genealogia che festeggiamo ogni anno, particolarmente quando celebriamo il mistero pasquale di Cristo.
Nel nome di questa genealogia - chiunque “ama colui che ha generato, ama anche chi da lui è stato generato” (1 Gv 5, 1).
È veramente così? Amiamo chiunque è stato generato da Dio? Ciascuno che è stato concepito nel seno della madre?
10. Oggi, nella liturgia, parla soprattutto Giovanni; testimone del Cristo risorto. Ecco le altre sue parole: “Da questo conosciamo di amare i figli di Dio: se amiamo Dio e ne osserviamo i comandamenti, perché in questo consiste l’amore di Dio, nell’osservare i suoi comandamenti; e i suoi comandamenti non sono gravosi” (1 Gv 5, 2-3).
Così scrive Giovanni, testimone della risurrezione di Cristo. La risurrezione rende testimonianza all’amore – la testimonianza della risurrezione si compie mediante l’amore: l’amore di Dio e dell’uomo.
La vittoria che vince il mondo si ottiene, in definitiva, mediante l’amore. La fede, infatti, conduce all’amore e vive grazie all’amore. Grazie all’amore, essa respira con l’alito dello Spirito. “È lo Spirito che rende testimonianza, perché lo Spirito è la verità” (1 Gv 5, 6).
L’amore costituisce pure l’insostituibile forza della costruzione di una cultura nella costruzione del mondo, in cui l’uomo vive a misura della sua vera dignità. Così, dunque, quella “vittoria che sconfigge il mondo” riguarda contemporaneamente il mondo: un mondo sempre “migliore”, in cui la vita umana è pure più umana.
Di ciò sapevano Dante Alighieri e Nicolò Copernico, i cui volti ci guardano dal vestibolo dell’antichissima Università di Bologna.
A ciò pensava Paolo VI, quando proclamava la “civiltà dell’amore” come programma per il mondo contemporaneo.
11. Cari fratelli e sorelle! Figli e figlie di questa venerabile città, per la quale sono passati, oltre a Dante ed a Copernico, i santi Vitale e Agricola, Petronio e Domenico, e molti Papi, tra i quali ricordo soprattutto Benedetto XIV.
Oggi il successore di Pietro celebra insieme a voi l’Ottava della Pasqua.
Oggi pure, insieme col Salmista, cantiamo le parole: “La pietra scartata dai costruttori / è divenuta testata d’angolo. / Questo è il giorno fatto dal Signore / rallegriamoci ed esultiamo in esso” (Sal 117 [118], 22.24).
La testata d’angolo è Cristo: crocifisso e risorto, “Pascha nostrum”!
E perciò, poniamoci la domanda. Si chieda ciascuno di voi, che qui “sistemate il mondo” e “sistemate la vostra vita umana in questo mondo”: costruiamo noi su questa testata d’angolo?
Oppure scartiamo noi questa testata d’angolo?
Una volta, in una sera simile a quella di oggi, nell’Ottava del giorno pasquale, venne Cristo di nuovo nel Cenacolo, dove erano riuniti gli apostoli, e disse a Tommaso:
“Noli esse incredulus, sed fidelis”.
Rispose Tommaso: “Mio Signore e mio Dio” (Gv 20, 28).
Da allora Cristo è divenuto la testata d’angolo per la sua vita.
Che su ognuno di noi si compiano le parole dette da Cristo a Tommaso: “Beati quelli che, pur non avendo visto, crederanno” (Gv 20, 29).
Che tutti voi, “credendo, abbiate la vita nel suo nome” (Gv 20, 21).
Amen.
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