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INAUGURAZIONE DELLA NUOVA SEDE ROMANA
DEL CENTRO ITALIANO DI SOLIDARIETÀ

OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II

Sabato, 21 giugno 1986

 

“Se qualcuno vuol venire dietro a me . . . prenda la sua croce ogni giorno e mi segua” (Lc 9, 23).

1. Queste parole, che abbiamo ascoltato dal Vangelo di Luca in questa liturgia prefestiva della XII domenica del tempo ordinario, costituiscono il motivo ispiratore del messaggio che la Chiesa intende rivolgere al popolo di Dio, adunato attorno all’altare nel segno della fede e della comunione fraterna.

“Se qualcuno vuol venire dietro a me . . .”. La sequela del Cristo è caratterizzata dalla croce: è la via che ha percorso Gesù nel lasciarsi coinvolgere nella vicenda terrena per riscattare l’uomo dall’antica schiavitù e liberarlo dalle tiranniche suggestioni del male. La croce racchiude in sé il mistero dell’amore di Dio, che opera la salvezza attraverso l’inaudito mistero della morte e della risurrezione. Già il profeta Zaccaria (Zc 12, 10), nella prima lettura, presentandoci la figura del “trafitto”, a cui il popolo guarda con fiducia, aveva proiettato l’ombra della croce sull’intera umanità che attendeva in lacrime “lo spirito di grazia e di consolazione”. Croce, dunque, ma collegata essenzialmente con la consolazione e la gioia.

Nella seconda lettura san Paolo ci ha presentato la realizzazione di questo progetto salvifico: “Tutti voi siete diventati figli di Dio in Gesù Cristo” (Gal 3, 26), Nel battesimo, mistero di morte e di risurrezione, si celebra la croce, cioè la drammatica, ma feconda vicenda del “perdersi” per “ritrovarsi” (Lc 9, 24), del rinnegarsi per realizzare un progetto di vita secondo lo spirito del Vangelo, nel dono totale di sé, sostenuto da uno slancio di amore deciso e fedele. Così portare la croce viene a significare la sfida coraggiosa alle contraddizioni che ciascuno vive con se stesso; la rinuncia a costruirsi un proprio modello di vita per “seguire” Gesù, Colui che può dare un senso compiuto alla nostra vita presente e futura.

In una situazione come quella che vivete in questo Centro terapeutico, portare la croce significa anche uscire dall’isolamento, dall’emarginazione e dal proprio “Io” ambiguo ed egoista per aprirsi a far parte della grande famiglia dei redenti, dei riscattati, dei “battezzati in Cristo”, che esperimentano nel profondo del loro animo la gioia pasquale della risurrezione. E non è forse risurrezione l’aver saputo riportare vittoria sulla schiavitù dei sensi avvelenati da quel “mostro” che è la droga? Non è risurrezione il sapersi emancipare dai limiti mortificanti di una vita divenuta impossibile per innalzarsi alla dignità di coloro che si sono “rivestiti di Cristo” (Gal 3, 27)?

2. Ho accolto molto volentieri l’invito rivoltomi da don Mario Picchi, direttore del Centro Italiano di Solidarietà, a venire qui per celebrare l’Eucaristia con voi tutti e per inaugurare questo nuovo Centro di accoglienza, dove numerose e generose forze del volontariato già da qualche mese sono impegnate nel programma terapeutico per la riabilitazione dei tossicodipendenti.

Saluto le autorità presenti, che con la loro collaborazione hanno reso possibile questa nuova benefica realizzazione, a cui tante famiglie provate dal triste fenomeno della droga guardano con viva speranza. Esprimo il mio apprezzamento a quanti in questo Centro di carità e di servizio sostengono moralmente e materialmente gli sforzi che la comunità cristiana di Roma compie per portare avanti i vari programmi terapeutici che vanno sotto il nome di “Progetto-Uomo”.

3. Sì, l’uomo! La Chiesa non riposa finché l’uomo è minacciato nella sua dignità, nel suo sviluppo e nella realizzazione completa della sua personalità. E la droga oggi costituisce una minaccia estremamente preoccupante e un dramma angoscioso per tante famiglie colpite negli affetti più cari da questo flagello, che miete vittime soprattutto tra i giovani ignari delle sue fatali conseguenze.

Paolo VI, a cui avete intitolato questo nuovo Centro terapeutico, ebbe parole appassionate su questa nuova piaga sociale: “Non c’è chi non veda la sottile insidia di queste autosuggestioni. Basterebbe ricordare ciò che la scienza afferma intorno all’azione biochimica della droga introdotta nell’organismo. È come se il cervello venisse percosso violentemente: tutte le strutture della vita psichica restano scompaginate sotto l’urto di questi stimoli eccezionali e disordinati” (Insegnamenti di Paolo VI, X 1997 1284).

È necessario che da parte di coloro che sono preposti alla cosa pubblica e che sono quindi solleciti dello sviluppo fisico, morale, sociale e spirituale dei cittadini sia incrementata l’informazione su questa tragedia dilagante nella nostra società così insicura e così moralmente povera pur nel suo crescente benessere materiale. Occorre predisporre tutti quegli interventi opportuni e necessari per salvaguardare i più deboli e indifesi. È necessario che i mass-media, le scuole, gli organismi umanitari e soprattutto le famiglie promuovano un’azione capillare diretta a illuminare e fortificare le persone più fragili ed esposte al pericolo. Il cuore dell’uomo è un guazzabuglio: ci sono tante tensioni e contraddizioni. Già san Paolo le ha analizzate nella Lettera ai Romani: “Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto. Ora, se faccio quello che non voglio, io conosco che la legge è buona; quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio . . . Quando voglio fare il bene, il male è accanto a me . . . Sono uno sventurato!”. San Paolo però non si ferma a questa sofferta diagnosi, offre anche la soluzione: il segreto della vittoria in questa lotta senza quartiere sta nel ricorso fiducioso al Redentore dell’uomo: “Siano rese grazie a Dio che per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore . . . mi libererà da questo corpo votato alla morte” (Rm 7, 15-25).

In un’altra situazione di conflitto, san Paolo non esita a mostrarci la soluzione indicatagli dal Signore. A lui infatti che si lamentava per “una spina che mi è stata messa nella carne”, e invocava aiuto, Gesù rispose: “Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta nella debolezza” (2 Cor 12, 9). Sì, cari fratelli e sorelle, fate ricorso all’aiuto che Dio non nega a chi lo invoca. La grazia divina però presuppone ed esige la collaborazione della natura umana per operare fruttuosamente nell’intimo delle coscienze.

4. Non si raccomanda mai abbastanza lo sforzo generoso e qualificato di quanti sono impegnati in questo campo così delicato della cura e dell’assistenza dei tossicodipendenti. Il problema della droga non può essere affrontato soltanto con l’uso dei farmaci, perché la tossicodipendenza più che malattia del corpo è malattia dello spirito. Qui non si tratta di sostituire un veleno più dannoso con un altro meno pericoloso, ma di cambiare la qualità della vita stessa; compito questo che esige l’impegno di ciascuno di voi, come uomini ai quali stanno a cuore i veri valori che albergano nel cuore di ogni creatura, fatta a immagine e somiglianza di Dio. Il “Progetto-Uomo” che voi intendete realizzare in questo Centro mira anzitutto ad aiutare il tossicodipendente affinché possa conoscere e affrontare i propri problemi nell’ambito di un’esperienza comunitaria prolungata ed efficace, in cui egli può ricuperarsi e tornare alla vita sociale come persona attiva e finalmente libera.

Questo tipo di programma, nato dalla collaborazione tra ex tossicomani e studiosi di discipline sociali e psicologiche, pone l’accento sulla responsabilità personale del consumatore di droghe, perché, in ultima analisi, è lui che ha scelto la via di tali esperienze ed è lui perciò che per primo deve prendere la decisione di smettere, accettando che altri lo aiutino a ricuperare se stesso. È lui che deve lasciarsi coinvolgere in prima persona per uscire dalla sua terribile vicenda e diventare protagonista responsabile del proprio destino. Nessun altro potrà dargli una mano, se egli non vuole, non accetta e non sceglie di stringere tale mano con tutta la forza di chi stando per annegare, vuol trarsi in salvo. Quello delle vostre comunità terapeutiche è un ambiente che giova a chi vuole veramente tirarsi fuori da una tale sfortunata situazione: esso infatti offre la possibilità ai giovani di riguadagnare il rispetto di sé, il controllo dei propri sentimenti e di offrire a se stessi, ai propri cari e a quanti sono preoccupati del bene della società una consolante testimonianza che in questo campo, come del resto in altri, la buona volontà fa miracoli.

A voi animatori del “Progetto-Uomo” che avete scelto come espressione di carità cristiana e di umana solidarietà questo campo specifico, e a tutti coloro che direttamente o indirettamente in esso s’impegnano mediante lo studio, le proposte di legge e altre iniziative destinate a debellare questo drammatico fenomeno, vada il mio vivo apprezzamento per questa fattiva dedizione alla causa dell’uomo, dell’uomo che soffre e che attende che passi accanto a lui il buon samaritano e ne curi le ferite con l’olio del suo paziente amore e col vino della sua generosa disponibilità (cf. Lc 10, 33 ss.).

5. Solo così saremo veramente “figli di Dio in Gesù Cristo”, e in lui saranno abolite tutte le discriminazioni e le barriere che ostacolano la comprensione e la solidarietà: “Non c’è più giudeo, né greco; non c’è più schiavo, né libero; non c’è più uomo, né donna, poiché voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3, 28). Se sarete tutti uniti nel Cristo - secondo l’esortazione di Paolo - la vostra opera in questo Centro non mancherà di portare presto i frutti sperati e scompariranno gli egoismi, le emarginazioni, le solitudini, i conflitti e le tensioni, perché soltanto il Cristo potrà farvi realizzare pienamente i vostri desideri e ottenervi la vera liberazione: lui, che accettando la crocifissione, è risorto a nuova vita, e questa vita comunica a quanti credono in lui e lo accolgono con totalità di amore.

 

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