LETTERA DI GIOVANNI PAOLO II
AI SACERDOTI IN OCCASIONE DEL GIOVEDÌ SANTO 1987
I. Tra il Cenacolo e il Getsemani
1. «E dopo aver cantato l'inno, uscirono verso il monte degli Ulivi» (Mc 14, 26).
Permettetemi, cari fratelli nel sacerdozio, di iniziare la mia Lettera per il Giovedì Santo di quest'anno con queste parole, che ci riportano al momento in cui, dopo l'Ultima Cena, Gesù Cristo uscì per andare al monte degli Ulivi.
Tutti noi che, mediante il sacramento dell'ordine, godiamo di una partecipazione speciale, ministeriale al sacerdozio di Cristo, il Giovedì Santo ci raccogliamo interiormente nel ricordo dell'istituzione dell'Eucaristia, poiché questo evento segna l'inizio e la fonte di tutto ciò che, per grazia di Dio, noi siamo nella Chiesa e nel mondo. Il Giovedì Santo è il giorno natale del nostro sacerdozio e, perciò, è anche la nostra festa annuale.
E' questo un giorno importante e sacro non solo per noi, ma per l'intera Chiesa, per tutti coloro che Dio ha costituito per sé in Cristo «un regno di sacerdoti» (Ap 1, 6). Per noi esso è particolarmente importante e decisivo, in quanto il sacerdozio comune di tutto il Popolo di Dio è legato al servizio dei dispensatori dell'Eucaristia che è il nostro compito più santo. Perciò oggi raccogliendovi intorno ai vostri Vescovi, insieme con loro rinnovate, cari fratelli, nei vostri cuori la grazia concessavi «mediante l'imposizione delle mani» (cfr. 2 Tm 1, 6) nel sacramento del presbiterato.
In questo giorno così straordinario, desidero - come ogni anno - essere con tutti voi, così come con i vostri Vescovi, poiché tutti sentiamo un profondo bisogno di rinnovare in noi la consapevolezza della grazia di questo sacramento che ci unisce intimamente a Cristo, sacerdote e ostia.
Proprio a questo fine, con la presente Lettera desidero esprimere alcuni pensieri sull'importanza della preghiera nella nostra vita, soprattutto in rapporto alla nostra vocazione e alla nostra missione.
2. Dopo l'Ultima Cena, Gesù si avvia insieme con gli apostoli al monte degli Ulivi. Nella successione degli eventi salvifici della Settimana Santa, la Cena costituisce per Cristo l'inizio della «sua ora». Proprio durante la Cena ha inizio l'attuazione definitiva di tutto ciò che deve costituire quest'«ora».
Nel Cenacolo Gesù istituisce il sacramento, il segno di una realtà che deve ancora verificarsi nella successione degli eventi. Perciò dice: «Questo è il mio corpo, che è dato per voi» (Lc 22, 19); «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi» (Lc 22, 20). Nasce così il sacramento del corpo e del sangue del Redentore, a cui è intimamente congiunto il sacramento del sacerdozio, in virtù del mandato affidato agli apostoli: «Fate questo in memoria di me» (Lc 22, 19).
Le parole che istituiscono l'Eucaristia non solo anticipano ciò che verrà realizzato nel giorno successivo, ma anche sottolineano espressamente che tale realizzazione ormai vicina possiede il senso e la portata del sacrificio. Infatti, «il corpo è dato . . ., e il sangue viene versato per voi».
In tal modo Gesù, durante l'Ultima Cena, pone nelle mani degli apostoli e della Chiesa il vero sacrificio. Ciò che al momento dell'istituzione rappresenta ancora un annuncio, sia pure definitivo, ma è anche l'effettiva anticipazione della realtà sacrificale del Calvario, diverrà poi, mediante il ministero dei sacerdoti, «il memoriale» che perpetua in modo sacramentale la stessa realtà redentrice. Una realtà centrale nell'ordine di tutta l'economia divina della salvezza.
3. Uscendo insieme con gli apostoli e dirigendosi verso il monte degli Ulivi, Gesù avanza proprio verso la realtà della «sua ora», che è il tempo del compimento pasquale del disegno di Dio e di tutti gli annunci, lontani e vicini, contenuti nelle «Scritture» a questo riguardo (cfr. Lc 24, 27).
Quest'«ora» segna anche il tempo, nel quale il sacerdozio viene riempito di un contenuto nuovo e definitivo come vocazione e servizio, sulla base della rivelazione e dell'istituzione divina. Potremo trovare una più ampia esposizione di questa verità soprattutto nella Lettera agli Ebrei, un testo fondamentale per la conoscenza del sacerdozio di Cristo e del nostro sacerdozio.
Ma nel quadro delle presenti considerazioni appare essenziale il fatto che verso il compimento della realtà, culminante nella «sua ora», Gesù avanza mediante la preghiera.
4. La preghiera del Getsemani si comprende non solo in riferimento a tutto ciò che le fa seguito durante gli eventi del Venerdì Santo - cioè la passione e la morte in croce -, ma anche, e non meno intimamente, in riferimento all'Ultima Cena.
Durante la Cena d'addio Gesù diede compimento a ciò che era l'eterna volontà del Padre a suo riguardo ed era anche la sua volontà, la sua volontà di figlio: «Per questo sono giunto a quest'ora!» (Gv 12, 27). Le parole che istituiscono il sacramento della nuova ed eterna alleanza, l'Eucaristia, costituiscono in un certo modo il sigillo sacramentale di quell'eterna volontà del Padre e del Figlio, che ormai è giunta all'«ora» del definitivo compimento.
Nel Getsemani il nome «Abbà», che sulle labbra di Gesù possiede sempre una profondità trinitaria - è infatti il nome di cui egli si serve nel parlare al Padre e del Padre, e specialmente nella preghiera -, riverbera sui dolori della passione il senso delle parole dell'istituzione dell'Eucaristia. Gesù, invero, viene nel Getsemani per rivelare ancora un aspetto della verità su di sé, figlio, e lo fa specialmente mediante la parola: Abbà. E questa verità, questa inaudita verità su Gesù Cristo consiste nel fatto che egli, «essendo uguale al Padre», come Figlio consustanziale al Padre, è al tempo stesso vero uomo. E infatti frequentemente denomina se stesso «il Figlio dell'uomo». Mai come nel Getsemani si manifesta la realtà del Figlio di Dio, che «assume la condizione di servo» (cfr. Fil 2, 7) secondo la profezia di Isaia (cfr. Is 53).
La preghiera del Getsemani, come e più di ogni altra preghiera di Gesù, rivela la verità circa l'identità, la vocazione e la missione del Figlio, che è venuto nel mondo per compiere la volontà paterna di Dio fino all'ultimo, quando dirà che «tutto è compiuto» (Gv 19, 30).
Ciò è importante per tutti coloro che entrano a far parte della «scuola d'orazione» di Cristo: è particolarmente importante per noi sacerdoti.
5. Dunque Gesù Cristo, il Figlio consustanziale, si presenta al Padre e dice «Abbà». Ed ecco, manifestando in un modo che potremmo dire radicale la sua condizione di vero uomo, «Figlio dell'uomo», egli chiede l'allontanamento dell'amaro calice: «Padre mio, se è possibile, passi da me questo calice» (Mt 26, 39; cfr. Mc 14, 36; Lc 22, 42).
Gesù sa che ciò «non è possibile», che «il calice» gli è dato, perché lo «beva» fino in fondo. Tuttavia dice proprio così: «Se è possibile, passi da me». Lo dice proprio nel momento in cui quel «calice», da lui desiderato ardentemente (cfr. Lc 22, 15), è ormai diventato il sigillo sacramentale della nuova ed eterna alleanza nel sangue dell'Agnello. Quando tutto ciò che è stato «stabilito» dall'eternità, è ormai «istituito» sacramentalmente nel tempo: introdotto in tutto il futuro della Chiesa.
Gesù, che nel Cenacolo ha operato questa istituzione, non può certo voler revocare la realtà designata dal sacramento dell'Ultima Cena. Anzi, con tutto il cuore ne desidera il compimento. Se, malgrado tutto, egli prega perché «passi da lui questo calice», manifesta in tal modo davanti a Dio e agli uomini tutto il peso del compito che deve assumersi: sostituirsi a noi tutti nell'espiazione del peccato.Egli manifesta anche l'immensità della sofferenza che riempie il suo cuore umano. In questo modo il Figlio dell'uomo si rivela solidale con tutti i suoi fratelli e sorelle che fan parte della grande famiglia umana, dall'inizio alla fine dei tempi. La sofferenza è per l'uomo il male - Gesù Cristo al Getsemani la sente con tutto il suo peso, quello che corrisponde alla nostra comune esperienza, al nostro spontaneo atteggiamento interiore. Davanti al Padre egli rimane in tutta la verità della sua umanità, la verità di un cuore umano oppresso dalla sofferenza, che sta per raggiungere il suo culmine drammatico: «La mia anima è triste fino alla morte» (Mc 14, 34). Tuttavia, di questa sofferenza di uomo nessuno è in grado di esprimere la misura adeguata servendosi dei soli criteri umani. Al Getsemani, infatti, chi prega il Padre è un uomo, che simultaneamente è Dio, consustanziale al Padre.
6. Le parole dell'evangelista: «Cominciò a provare tristezza e angoscia» (Mt 26, 37), come pure tutto lo sviluppo della preghiera al Getsemani, sembrano indicare non solo la paura davanti alla sofferenza, ma anche il timore caratteristico dell'uomo, una specie di timore legato al senso di responsabilità. Non è l'uomo quell'essere singolare, la cui vocazione è di «superare costantemente se stesso»?
Gesù Cristo, «Figlio dell'uomo», nell'orazione con cui dà inizio alla passione esprime il tipico travaglio della responsabilità, connessa all'assunzione di compiti nei quali l'uomo deve «superare se stesso».
I Vangeli ricordano più volte che Gesù pregava, che anzi «passava le notti in orazione» (cfr. Lc 6, 12); ma nessuna di queste orazioni è stata presentata in modo così profondo e penetrante come quella del Getsemani. Ciò è comprensibile. Infatti, nessun altro momento nella vita di Gesù fu così decisivo. Nessun'altra preghiera rientrava così appieno in quella che doveva essere la «sua ora». Da nessun'altra decisione della sua vita come da questa dipendeva il compimento della volontà del Padre, il quale «ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv 3, 16).
Quando Gesù nel Getsemani dice: «Non sia fatta la mia, ma la tua volontà» (Lc 22, 42), egli rivela la verità del Padre e del suo amore salvifico per l'uomo. La «volontà del Padre» è precisamente l'amore salvifico: la salvezza del mondo deve realizzarsi mediante il sacrificio redentivo del Figlio. E' ben concepibile che il Figlio dell'uomo, assumendosi questo compito, manifesti nel suo decisivo colloquio col Padre la consapevolezza che egli ha della dimensione sovrumana di un tale compito, in cui adempie la volontà del Padre nella divina profondità dell'unione filiale con lui.
«Ho compiuto l'opera che mi hai dato da fare» (cfr. Gv 17, 4). L'evangelista dice: «In preda all'angoscia pregava più intensamente» (Lc 22, 44). E questa angoscia mortale si è manifestata pure col sudore che, come gocce di sangue, rigava il volto di Gesù (cfr. Lc 22, 44). E' l'estrema espressione di una sofferenza che si traduce in preghiera, e di una preghiera che, a sua volta, conosce il dolore, accompagnando il sacrificio anticipato sacramentalmente nel Cenacolo, vissuto profondamente nello spirito del Getsemani e che sta per essere consumato sul Calvario.
Proprio su questi momenti della preghiera sacerdotale e sacrificale di Gesù desidero attirare la vostra attenzione, cari fratelli, in relazione alla nostra preghiera e alla nostra vita.
II. La preghiera al centro dell'esistenza sacerdotale
7. Se nella nostra meditazione del Giovedì Santo quest'anno uniamo il Cenacolo col Getsemani, è per capire quanto profondamente il nostro sacerdozio debba essere legato alla preghiera: radicato nella preghiera.
L'affermazione invero non richiede dimostrazione, ma ha piuttosto bisogno di essere costantemente coltivata con la mente e col cuore, perché la verità in essa contenuta possa attuarsi sempre più profondamente nella vita.
Si tratta infatti della nostra vita, dell'esistenza sacerdotale stessa, in tutta la sua ricchezza, racchiusa anzitutto nella chiamata al sacerdozio, e manifestata poi in quel servizio della salvezza che da essa scaturisce.
Sappiamo che il sacerdozio - sacramentale e ministeriale - è una speciale partecipazione del sacerdozio di Cristo. Esso non esiste senza di lui e al di fuori di lui. Esso non si sviluppa e non porta frutti senza radicarsi in lui. «Senza di me non potete far nulla» (Gv 15, 5), disse Gesù durante l'Ultima Cena a conclusione della parabola sulla vite e i tralci.
Quando più tardi, durante la sua preghiera solitaria nell'orto del Getsemani, Gesù va da Pietro, Giovanni e Giacomo e li trova immersi nel sonno, egli li desta dicendo: «Vegliate e pregate, per non cadere in tentazione» (Mt 26, 41).
La preghiera, dunque, doveva essere per gli apostoli il modo concreto ed efficace di partecipare all'«ora di Gesù», di radicarsi in lui e nel suo mistero pasquale. Così sarà sempre per noi sacerdoti. Senza la preghiera incombe il pericolo di quella «tentazione», alla quale gli apostoli hanno purtroppo ceduto nel momento in cui si sono trovati a taccia a taccia con lo «scandalo della croce» (cfr. Gal 5, 11).
8. Nella nostra vita sacerdotale la preghiera ha una varietà di forme e di significati, sia quella personale, sia quella comunitaria, sia quella liturgica (pubblica e ufficiale). Tuttavia, alla base di questa multiforme preghiera deve trovarsi sempre quel fondamento profondissimo, che corrisponde alla nostra esistenza sacerdotale in Cristo, in quanto realizzazione specifica della stessa esistenza cristiana, e anzi - a più vasto raggio - di quella umana. La preghiera, infatti,è l'espressione connaturale della consapevolezza che siamo stati creati da Dio, e più ancora - come si rileva chiaramente dalla Bibbia - che il Creatore si è manifestato all'uomo come Dio dell'alleanza.
La preghiera, che corrisponde alla nostra esistenza sacerdotale, comprende naturalmente in sé tutto ciò che deriva dal nostro essere cristiani, o anche semplicemente dall'essere uomini fatti «a immagine e somiglianza» di Dio. Essa include, inoltre, la coscienza del nostro essere uomini e cristiani come sacerdoti. E questo sembra proprio di poter scoprire più pienamente il Giovedì Santo, recandoci con Cristo, dopo l'Ultima Cena, al Getsemani. Qui, infatti, siamo testimoni dell'orazione dello stesso Gesù, che precede immediatamente il compimento supremo del suo sacerdozio per mezzo del sacrificio di se stesso sulla croce. Egli, «come sommo sacerdote dei beni futuri . . ., entrò una volta per sempre nel santuario . . . col proprio sangue» (Eb 9, 11-12). Difatti, se egli era sacerdote sin dall'inizio della sua esistenza, «divenne» tuttavia in modo pieno l'unico sacerdote della nuova ed eterna alleanza mediante il sacrificio redentivo, che ebbe inizio al Getsemani. Questo inizio avvenne in un contesto di preghiera.
9. Questa è per noi, cari fratelli, una scoperta di fondamentale importanza nel Giovedì Santo, che giustamente consideriamo come il giorno natalizio del nostro sacerdozio ministeriale in Cristo. Tra le parole dell'istituzione: «Questo è il mio corpo, che è dato per voi»; «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi» e l'effettivo compimento di ciò che tali parole esprimono, è interposta la preghiera del Getsemani. Non è forse vero che, neI corso degli eventi pasquali, è essa a condurre alla realtà anche visibile, che il sacramento significa e insieme rinnova?
Il sacerdozio, che è diventato la nostra eredità in forza di un sacramento così strettamente unito all'Eucaristia, è sempre una chiamata a partecipare alla stessa realtà divina-umana, salvifica e redentrice, che proprio mediante il nostro ministero deve portare sempre nuovi frutti nella storia della salvezza: «Perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga» (Gv 15,1 6). Il santo Curato d'Ars, di cui lo scorso anno abbiamo celebrato il secondo centenario della nascita, ci appare proprio come l'uomo di questa chiamata, ravvivandone anche in noi la consapevolezza. Nella sua eroica vita fu l'orazione il mezzo che gli permetteva di rimanere costantemente in Cristo, di «vegliare» con Cristo di fronte alla sua «ora». Quest'«ora» non cessa di decidere della salvezza di tanti uomini, affidati al servizio sacerdotale e alla cura pastorale di ogni presbitero. Nella vita di san Giovanni Maria Vianney, quest'«ora» si realizzò particolarmente col suo servizio nel confessionale.
10. La preghiera al Getsemani è come una pietra angolare, posta da Cristo alla base del servizio alla causa «affidatagli dal Padre» - alla base dell'opera della redenzione del mondo mediante il sacrificio offerto sulla Croce.
Partecipi del sacerdozio di Cristo, che è inscindibilmente connesso col suo sacrificio, anche noi dobbiamo porre alla base della nostra esistenza sacerdotale la pietra angolare della preghiera. Essa ci permetterà di sintonizzare la nostra esistenza col servizio sacerdotale, conservando intatta l'identità e l'autenticità di questa vocazione, che è divenuta la nostra speciale eredità nella Chiesa, come comunità del Popolo di Dio.
La preghiera sacerdotale, in particolare quella della Liturgia delle Ore e dell'adorazione eucaristica, ci aiuterà prima di tutto a conservare la profonda consapevolezza che, come «servi di Cristo», siamo in modo speciale ed eccezionale «amministratori dei misteri di Dio» (1 Cor 4, 1). Qualunque sia il nostro compito concreto, qualunque sia il tipo di impegno in cui svolgiamo il servizio pastorale, la preghiera ci assicurerà la consapevolezza di quei misteri di Dio, dei quali siamo «amministratori», e la porterà ad esprimersi in tutte le nostre opere.
Anche in questo modo saremo per gli uomini un segno leggibile di Cristo e del suo Vangelo.
Carissimi fratelli! Abbiamo bisogno di preghiera, di preghiera profonda e, in un certo senso, «organica», per poter essere un tale segno. «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13, 35). Sì! In definitiva questa è una questione di amore, di amore «per gli altri»; infatti l'«essere», come sacerdoti, «amministratori dei misteri di Dio», significa mettersi a disposizione degli altri e, in questo modo, rendere testimonianza di quell'amore supremo che è in Cristo, di quell'amore che è Dio stesso.
11. Se la preghiera sacerdotale ravviva una tale consapevolezza e un tale atteggiamento nella vita di ciascuno di noi, nello stesso tempo, secondo l'intima «logica» dell'essere amministratori dei misteri di Dio, essa deve costantemente ampliarsi ed estenderli a tutti coloro che «il Padre ci ha dato» (cfr. Gv 17, 6).
E' ciò che risalta chiaramente nella preghiera sacerdotale di Gesù nel Cenacolo: «Ho fatto conoscere il tuo nome agli uomini, che mi hai dato dal mondo. Erano tuoi e li hai dati a me, ed essi hanno osservato la tua parola» (Gv 17, 6).
Sull'esempio di Gesù, il sacerdote, «amministratore dei misteri di Dio», è se stesso, quando è «per gli altri». La preghiera gli dà una particolare sensibilità verso questi «altri», rendendolo attento ai loro bisogni, alla loro vita ed al loro destino. La preghiera permette al sacerdote anche di riconoscere coloro «che il Padre gli ha dato». Questi sono, anzitutto, coloro che dal buon Pastore vengono posti per così dire sul cammino del suo servizio sacerdotale, della sua cura pastorale. Sono i fanciulli, gli adulti, gli anziani. Sono la gioventù, le coppie di sposi, le famiglie, ma anche le persone sole. Sono gli ammalati, i sofferenti, i morenti. Sono coloro che sono spiritualmente vicini, disposti alla collaborazione apostolica, ma anche i lontani, gli assenti, gli indifferenti, in uno stato di riflessione e di ricerca. Coloro che sono mal disposti per diverse ragioni, coloro che si trovano in mezzo a difficoltà di diversa natura, coloro che lottano contro i vizi e i peccati, coloro che lottano per la fede e per la speranza. Coloro che cercano l'aiuto del sacerdote e coloro che lo respingono.
Come essere «per» tutti costoro - e «per» ciascuno di essi - sul modello di Cristo? come essere «per» coloro, che «il Padre dà a noi», affidandoceli come un impegno? La nostra sarà sempre una prova d'amore, - una prova che dobbiamo accettare, prima di tutto, sul terreno della preghiera.
12. Tutti, cari fratelli, sappiamo bene che questa prova «costa». Quanto costano a volte i colloqui apparentemente ordinari con le diverse persone! Quanto costa il servizio alle coscienze nel confessionale! Quanto costa la sollecitudine «per tutte le chiese» (cfr. 2 Cor 11, 28; «Sollicitudo omnium ecclesiarum»): si tratti delle «chiese domestiche» (cfr.«Lumen Gentium», 11), cioè delle famiglie specialmente nelle loro difficoltà e crisi attuali; si tratti di ogni singolo «tempio dello Spirito Santo» (1 Cor 6, 19): di qualsiasi uomo o donna nella sua dignità umana e cristiana; si tratti, infine, di una chiesa-comunità come la parrocchia, che rimane sempre la comunità fondamentale, oppure di quei gruppi, movimenti, associazioni, che servono il rinnovamento dell'uomo e della società secondo lo spirito del Vangelo, oggi fiorenti sul terreno della Chiesa e per i quali dobbiamo essere grati allo Spirito Santo, che fa sorgere tante belle iniziative. Un simile impegno ha un suo «costo», che dobbiamo sostenere con l'aiuto della preghiera.
La preghiera è indispensabile per conservare la sensibilità pastorale verso tutto ciò che viene dallo «Spirito», per «discernere» correttamente e impiegare bene quei carismi, che portano all'unione e sono legati al servizio sacerdotale nella Chiesa. Infatti, è compito dei presbiteri «radunare il Popolo di Dio», non già dividerlo. Ed essi lo adempiono soprattutto come dispensatori della santissima Eucaristia.
La preghiera, pertanto, ci permetterà, pur tra molte contrarietà, di dare quella prova d'amore che deve offrire la vita di ogni uomo - e quella del sacerdote in modo speciale. E quando sembrerà che tale prova superi le nostre forze, ricordiamo ciò che l'evangelista dice di Gesù al Getsemani: «In preda all'angoscia, pregava più intensamente» (Lc 22, 44).
13. Il Concilio Vaticano II presenta la vita della Chiesa come peregrinazione della fede (cfr. «Lumen Gentium», 48 ss.). Ciascuno di noi, cari fratelli, a motivo della sua vocazione e ordinazione sacerdotale, ha in questa peregrinazione una parte speciale. Noi siamo chiamati ad avanzare guidando gli altri, aiutandoli nel loro cammino come ministri del buon Pastore. Come amministratori dei misteri di Dio, dobbiamo, dunque, possedere una maturità di fede, adeguata alla nostra vocazione e ai nostri compiti. Infatti, «quanto si richiede negli amministratori è che ognuno risulti fedele» (1 Cor 4, 2), dal momento che il Signore gli affida il suo patrimonio.
E' bene allora che, in questa peregrinazione della fede, ciascuno di noi fissi lo sguardo dell'anima sulla Vergine Maria, Madre di Gesù Cristo, figlio di Dio. Ella infatti - come insegna il Concilio seguendo i Padri - ci «precede» in questa peregrinazione (cfr.«Lumen Gentium», 58) e ci offre un esempio sublime, che ho cercato di mettere in rilievo anche nella recente enciclica, pubblicata in vista dell'Anno Mariano, al quale ci stiamo preparando.
In lei, che è la Vergine Immacolata, noi scopriamo anche il mistero di quella soprannaturale fecondità per opera dello Spirito Santo, per cui ella è «figura» della Chiesa. La Chiesa, infatti, «diventa essa pure madre, poiché con la predicazione e il battesimo genera a una vita nuova e immortale i figlioli, concepiti per opera dello Spirito Santo e nati da Dio» («Lumen Gentium», 64), secondo la testimonianza dell'apostolo Paolo: «Figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore» (Gal 4, 19); e lo diventa soffrendo come una madre, che è «afflitta perché è giunta la sua ora; ma quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più dell'afflizione per la gioia che è venuto al mondo un uomo» (Gv 16, 21).
Questa testimonianza non tocca forse anche l'essenza della nostra speciale vocazione nella Chiesa? Tuttavia - diciamocelo concludendo -, affinché la testimonianza dell'Apostolo possa diventare anche nostra, bisogna che ritorniamo costantemente al Cenacolo e al Getsemani, e ritroviamo il centro stesso del nostro sacerdozio nella preghiera e mediante la preghiera.
Quando, insieme con Cristo, invochiamo: «Abbà, Padre», allora «lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio» (Rm 8, 15-16).«Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché noi non sappiamo nemmeno che cosa sia conveniente domandare ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili; e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito» (Rm 8, 26-27).
Accogliete, cari fratelli, il saluto pasquale e il bacio della pace in Gesù Cristo Signore nostro.
Dal Vaticano, il 13 Aprile dell'anno 1987, nono di Pontificato.
GIOVANNI PAOLO II
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