MESSAGGIO DI GIOVANNI PAOLO II
PER LA GIORNATA MONDIALE DELLE MIGRAZIONI
Carissimi Fratelli e Sorelle!
1. Alle soglie del nuovo millennio, l’umanità è contrassegnata da fenomeni di intensa mobilità, mentre negli animi si va sempre più affermando la consapevolezza di appartenere ad una sola famiglia. Le migrazioni, volontarie o forzate, moltiplicano le occasioni di scambio tra persone di culture, di religioni, di razze e di popoli diversi. I moderni mezzi di trasporto collegano sempre più rapidamente il pianeta da un punto all’altro e ogni giorno le frontiere vengono oltrepassate da migliaia di migranti, di rifugiati, di nomadi, di turisti.
La complessa realtà delle umane migrazioni ha motivi immediati molto diversi; nel profondo, tuttavia, essa rivela il germe di un’aspirazione ad un orizzonte trascendente di giustizia, di libertà, di pace. In definitiva, essa testimonia un’inquietudine che rimanda, se pur in modo indiretto, a Dio, nel quale soltanto l’uomo può trovare l’appagamento pieno di ogni sua attesa.
È notevole lo sforzo che molti Paesi compiono per accogliere gli immigrati, molti dei quali, superate le difficoltà inerenti alla fase di adattamento, ben si inseriscono nelle comunità di approdo. Tuttavia, le incomprensioni che si registrano talora nei confronti degli stranieri manifestano l’urgenza di una trasformazione delle strutture e di un cambiamento di mentalità, a cui il Grande Giubileo del 2000 invita i cristiani ed ogni uomo di buona volontà.
Il Giubileo, tempo di pellegrinaggio e di incontro
2. La Chiesa celebra con il Grande Giubileo la nascita di Cristo. Per vivere a fondo questo tempo di grazia, numerosi fedeli si recheranno in pellegrinaggio ai santuari della Terra Santa, di Roma e del mondo intero, ove apprenderanno ad aprire il cuore a tutti e in particolare a chi è diverso: l’ospite, lo straniero, l’immigrato, il rifugiato, colui che professa un’altra religione, il non credente.
Pur rivestendo nelle varie epoche espressioni culturali diverse, il pellegrinaggio è sempre stato un momento significativo nella vita dei credenti, poiché “esso evoca il cammino personale del credente sulle orme del Redentore: è esercizio di ascesi operosa, di pentimento per le umane debolezze, di costante vigilanza sulla propria fragilità, di preparazione interiore alla riforma del cuore” (Incarnationis mysterium, 7).
Per numerosi pellegrini, questa esperienza di cammino interiore si accompagna alla ricchezza di molteplici incontri con altri credenti diversi per origine, cultura e storia. Il pellegrinaggio diventa allora un’occasione privilegiata d’incontro con l’altro. Chi ha fatto prima lo sforzo di lasciare, come Abramo, il suo paese, la sua patria e la casa di suo padre (cfr Gn 12, 1), diventa per ciò stesso più disponibile ad aprirsi a colui che è differente.
Un processo analogo si verifica nelle migrazioni che, obbligando ad “uscire da se stessi”, possono diventare un cammino verso l’altro, verso altri contesti sociali, nei quali inserirsi grazie alla creazione delle condizioni necessarie per vivere pacificamente insieme.
La Chiesa “sacramento di unità”
3. La Buona Novella è annuncio dell’Amore infinito del Padre manifestatosi in Gesù Cristo, che è venuto nel mondo “per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi” (Gv 11, 52) e radunarli nell’unica famiglia, nella quale Dio ha posto la sua dimora fra gli uomini (cfr Ap 21, 3). Per questo il Papa Paolo VI, parlando della Chiesa, ha ricordato che “nessuno è estraneo al suo cuore. Nessuno è indifferente per il suo ministero. Nessuno le è nemico, che non voglia egli stesso esserlo. Non indarno si dice cattolica; non indarno è incaricata di promuovere nel mondo l’unità, l'amore e la pace” (Ecclesiam suam, 94).
Facendo eco a queste parole, il Concilio Vaticano II ha affermato che “il popolo messianico, pur non comprendendo in atto tutti gli uomini, e apparendo talora come un piccolo gregge, costituisce per tutta l’umanità un germe validissimo di unità, di speranza e di salvezza” (Lumen gentium, 9). La Chiesa è consapevole di questa sua missione. Essa sa che Cristo l’ha voluta quale segno d’unità nel cuore del mondo. In quest’ottica essa guarda anche al fenomeno migratorio, che oggi si pone entro il contesto della globalizzazione con i suoi molteplici aspetti positivi e negativi (cfr Ecclesia in America, 20-22).
Da una parte, la globalizzazione accelera i flussi di capitali e lo scambio di merci e di servizi tra gli uomini, influendo inevitabilmente anche sugli spostamenti umani. Ogni grande avvenimento, che si verifica in un punto determinato del mondo, tende a ripercuotersi sull’intero pianeta, mentre cresce il sentimento di una comunanza di destino tra tutte le nazioni. Le nuove generazioni avanzano nella convinzione che il pianeta sia ormai un “villaggio globale” e allacciano relazioni di amicizia che superano le diversità di lingua o di cultura. Vivere insieme diventa per molti una realtà quotidiana.
Al tempo stesso, però, la globalizzazione produce nuove fratture. Nel quadro di un liberalismo senza freni adeguati, si approfondisce nel mondo il divario tra Paesi “emergenti” e Paesi “perdenti”. I primi dispongono di capitali e tecnologie che consentono loro di godere a piacimento delle risorse del pianeta, facoltà di cui s’avvalgono non sempre con spirito di solidarietà e di condivisione. I secondi, invece, non hanno facile accesso alle risorse necessarie per uno sviluppo umano adeguato e, anzi, mancano talvolta addirittura dei mezzi di sussistenza; schiacciati dai debiti e lacerati da divisioni interne, non di rado finiscono per dissipare le poche ricchezze nella guerra (cfr Centesimus annus, 33). Come ho ricordato nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace del 1998, la sfida del nostro tempo è quella di assicurare una globalizzazione nella solidarietà, una globalizzazione senza marginalizzazioni (cfr n. 3).
Le migrazioni della disperazione
4. In molte regioni del mondo si vivono oggi situazioni di drammatica instabilità ed insicurezza. Non desta meraviglia che in simili contesti si faccia strada nei poveri e nei derelitti il progetto di fuggire alla ricerca di una nuova terra che possa offrire loro pane, dignità e pace. È la migrazione dei disperati: uomini e donne, spesso giovani, a cui non resta altra scelta che quella di lasciare il proprio Paese per avventurarsi verso l’ignoto. Ogni giorno migliaia di persone affrontano rischi anche drammatici per tentare di sfuggire ad una vita senza avvenire. Purtroppo, la realtà che trovano nelle nazioni d’approdo è spesso fonte di ulteriori delusioni.
Allo stesso tempo, gli Stati che dispongono di una relativa abbondanza tendono a rendere più strette le frontiere, sotto la pressione di un’opinione pubblica frastornata dagli inconvenienti che il fenomeno dell’immigrazione porta con sé. La società si ritrova a dover fare i conti con i “clandestini”, uomini e donne in situazione irregolare, privi di diritti in un Paese che rifiuta di accoglierli, vittime della criminalità organizzata o di imprenditori senza scrupoli.
Alle soglie del Grande Giubileo dell’anno 2000, mentre la Chiesa assume rinnovata consapevolezza della sua missione al servizio della famiglia umana, questa situazione pone anche ad essa gravi interrogativi. Il processo di globalizzazione può costituire un’opportunità, se le differenze culturali vengono accolte come occasione di incontro e di dialogo, e se la ripartizione disuguale delle risorse mondiali provoca una nuova coscienza della necessaria solidarietà che deve unire la famiglia umana. Se, al contrario, si aggravano le disuguaglianze, le popolazioni povere sono costrette all’esilio della disperazione, mentre i Paesi ricchi si ritrovano prigionieri della insaziabile smania di concentrare nelle proprie mani le risorse disponibili.
“Con lo sguardo fisso al mistero dell'Incarnazione”
5. Cosciente dei drammi ma anche delle opportunità insiti nel fenomeno delle migrazioni, “con lo sguardo fisso al mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio, la Chiesa s’appresta a varcare la soglia del terzo millennio” (Incarnationis mysterium, 1). Nell’evento dell’Incarnazione, la Chiesa riconosce l’iniziativa di Dio, che “ci ha fatto conoscere il mistero della sua volontà, secondo quanto, nella sua benevolenza, aveva in lui prestabilito, per realizzarlo nella pienezza dei tempi: il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra” (Ef 1, 9-10). L’impegno dei cristiani trae forza dall’amore di Cristo, che è la Buona Novella per tutti gli uomini.
Alla luce di questa Rivelazione, la Chiesa, Madre e Maestra, opera affinché la dignità di ogni persona sia rispettata, l’immigrato venga accolto come fratello e tutta l’umanità formi una famiglia unita, che sa valorizzare con discernimento le diverse culture che la compongono. In Gesù, Dio è venuto a chiedere ospitalità agli uomini. Per questo, Egli pone come virtù caratteristica del credente la disposizione ad accogliere l’altro nell’amore. Egli ha voluto nascere in una famiglia che non ha trovato alloggio a Betlemme (cfr Lc 2, 7) e ha vissuto l’esperienza dell’esilio in Egitto (cfr Mt 2, 14). Gesù, che “non aveva dove posare il capo” (Mt 8, 20), ha chiesto ospitalità a coloro che incontrava. A Zaccheo ha detto: “Oggi devo fermarmi a casa tua” (Lc 19, 5). È arrivato ad assimilarsi allo straniero bisognoso di riparo: “Ero forestiero e mi avete ospitato” (Mt 25, 35). Inviando i suoi discepoli in missione, egli fa dell’ospitalità, di cui essi beneficeranno, un gesto che lo riguarda personalmente: “Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie Colui che mi ha mandato” (Mt 10, 40).
In questo anno giubilare e nel contesto di una mobilità umana ovunque accresciuta, questo invito all’ospitalità diventa attuale ed urgente. Come potranno i battezzati pretendere di accogliere Cristo, se chiudono la porta allo straniero che si presenta loro? “Se uno ha ricchezze di questo mondo e vedendo il suo fratello in necessità, gli chiude il proprio cuore, come dimora in lui l’amore di Dio?” (1 Gv 3, 17).
Il Figlio di Dio si è fatto uomo per raggiungere tutti, preferendo il più piccolo, l’escluso, lo straniero. Nell’iniziare la sua missione a Nazaret, Egli si presenta come il Messia che annuncia la Buona Novella ai poveri, porta la libertà ai prigionieri, restituisce la vista ai ciechi. Egli viene a proclamare “un anno di grazia del Signore” (cfr Lc 4, 18), che è liberazione e inizio di un tempo nuovo di fraternità e di solidarietà.
“Giubileo, cioè “un anno di grazia del Signore”, è la caratteristica dell’attività di Gesù e non soltanto la definizione cronologica di una certa ricorrenza” (Tertio millennio adveniente, 11). Quest’opera di Cristo, sempre attuale nella sua Chiesa, tende a far sì che quanti si sentono stranieri entrino in una nuova comunione fraterna; e i discepoli sono chiamati a farsi servitori di questa misericordia, affinché nessuno si perda (cfr Gv 6, 39).
Celebrare il Giubileo,
promuovendo l’unità della famiglia umana
6. Nel celebrare il Grande Giubileo dell’Anno 2000, la Chiesa non vuole dimenticare le tragedie che hanno contrassegnato il secolo che sta per terminare: le guerre sanguinose che hanno devastato il mondo, le deportazioni, i campi di sterminio, le “pulizie etniche”, l’odio che ha dilaniato e che continua ad oscurare la storia umana.
La Chiesa ascolta il grido di sofferenza di quanti sono sradicati dalla propria terra, delle famiglie forzatamente divise, di coloro che, nei rapidi mutamenti odierni, non trovano stabile dimora in nessun luogo. Essa percepisce l’angoscia di chi è senza diritti, privo di ogni sicurezza, alla mercé di ogni tipo di sfruttamento, e si fa carico della sua infelicità.
Il comparire, in tutte le società del mondo, della figura dell’esule, del rifugiato, del deportato, del clandestino, del migrante, del “popolo della strada”, conferisce alla celebrazione del Giubileo un significato molto concreto, che per i credenti diventa richiamo al cambiamento di mentalità e di vita, secondo l’appello di Cristo: “Convertitevi e credete nel Vangelo” (Mc 1, 15).
In questa conversione è certamente compreso, nella sua più alta ed esigente motivazione, l’effettivo riconoscimento dei diritti dei migranti: “È urgente che nei loro confronti si sappia superare un atteggiamento strettamente nazionalistico per creare uno statuto che riconosca un diritto alla emigrazione, favorisca la loro integrazione ... È dovere di tutti - e specialmente dei cristiani - lavorare con energia per instaurare la fraternità universale, base indispensabile di una giustizia autentica e condizione di una pace duratura” (Paolo VI, Octogesima adveniens, 17).
Lavorare per l’unità della famiglia umana vuol dire impegnarsi a rifiutare ogni discriminazione fondata sulla razza, la cultura o la religione come contraria al disegno di Dio. Significa testimoniare una vita fraterna fondata sul Vangelo, rispettosa delle diversità culturali, aperta al dialogo sincero e fiducioso. Comporta la promozione del diritto di ciascuno di poter vivere nel proprio Paese in pace, come pure l’attenta vigilanza affinché in ogni Stato la legislazione relativa all’immigrazione si basi sul riconoscimento dei diritti fondamentali della persona umana.
La Vergine Maria, che si mise in viaggio per raggiungere in fretta la cugina Elisabetta e che nell’ospitalità ricevuta trasalì di gioia in Dio suo Salvatore (cfr Lc 1, 39-47), sostenga tutti coloro che in questo anno giubilare si metteranno in cammino con cuore aperto agli altri, e li aiuti ad incontrare in essi dei fratelli, figli dello stesso Padre (cfr Mt 23, 9).
A tutti invio di cuore l’Apostolica Benedizione.
Dal Vaticano, 21 novembre 1999.
IOANNES PAULUS PP. II
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