DISCORSO DI GIOVANNI PAOLO II
AGLI OFFICIALI E AVVOCATI DEL
TRIBUNALE APOSTOLICO DELLA ROTA ROMANA
Giovedì, 26 gennaio 1989
1. Ringrazio l’Ecc.mo Decano per le parole di saluto ed esprimo i miei sentimenti di stima e di riconoscenza a quanti prestano la loro opera nel Tribunale Apostolico della Rota Romana: i Prelati Uditori, i Promotori di Giustizia, i Difensori del Vincolo, gli altri Officiali, gli Avvocati come pure i Docenti dello Studio Rotale.
Avendo presente che i discorsi pontifici alla Rota Romana, come è noto, si rivolgono di fatto a tutti gli operatori della giustizia nei tribunali ecclesiastici, intendo nell’odierno incontro annuale sottolineare l’importanza del diritto alla difesa nel giudizio canonico, specialmente nelle cause per la dichiarazione di nullità del matrimonio. Anche se non è possibile trattare in questa sede tutta la problematica al riguardo, voglio comunque insistere su alcuni punti di una certa rilevanza.
2. Il nuovo Codice di Diritto Canonico attribuisce grande importanza al diritto di difesa. Riguardo infatti agli obblighi e diritto di tutti i fedeli, recita il canone 221, § l [LE 5171]: «Christifidelibus competit ut iura quibus in Ecclesia gaudent, legitime vindicent atque defendant in foro competenti ecclesiastico ad normam iuris», ed il § 2 prosegue: «Christifidelibus ius quoque est ut, si ad iudicium ab auctoritate competenti vocentur, iudicentur servatis iuris praescriptis, cum aequitate applicandis». Il canone 1620 del medesimo Codice [LE 5171] sancisce esplicitamente la nullità insanabile della sentenza, se all’una o all’altra parte si nega il diritto alla difesa, mentre si può ricavare dal canone 1598, § 1 [LE 5171], il seguente principio, che deve guidare tutta l’attività giudiziaria della Chiesa: «Ius defensionis semper integrum maneat».
3. È doveroso subito annotare che la mancanza di una tale esplicita normativa nel Codice Pio-Benedettino certamente non significa che il diritto alla difesa sia stato disatteso nella Chiesa sotto il regime del Codice precedente. Questo dava infatti le opportune e necessarie disposizioni per garantire tale diritto nel giudizio canonico. Ed anche se il canone 1892 del suddetto Codice [LE 5165] non menzionava lo «ius defensionis denegatum» tra i casi di nullità insanabile della sentenza, si deve costatare che ciononostante sia la dottrina sia la giurisprudenza rotale propugnavano la nullità insanabile della sentenza, qualora si fosse negato all’una o all’altra parte il diritto alla difesa.
Non si può concepire un giudizio equo senza il contraddittorio, cioè senza la concreta possibilità concessa a ciascuna parte nella causa di essere ascoltata e di poter conoscere e contraddire le richieste, le prove e le deduzioni addotte dalla parte avversa o «ex officio».
4. Il Diritto alla difesa di ciascuna parte nel giudizio, cioè non soltanto della parte convenuta ma anche della parte attrice, deve ovviamente essere esercitato secondo le giuste disposizioni della legge positiva il cui compito è, non di togliere l’esercizio del diritto alla difesa, ma di regolarlo in modo che non possa degenerare in abuso od ostruzionismo, e di garantire nello stesso tempo la concreta possibilità di esercitarlo. La fedele osservanza della normativa positiva al riguardo costituisce, perciò, un grave obbligo per gli operatori della giustizia nella Chiesa.
5. Evidentemente per la validità del processo non è richiesta la difesa di fatto, purché rimanga sempre la sua concreta possibilità. Quindi le parti possono rinunziare all’esercizio del diritto di difesa nel giudizio contenzioso; nel giudizio penale, invece, non può mai mancare la difesa di fatto, anzi la difesa tecnica, perché in un tal giudizio l’accusato deve sempre avere un avvocato.
Occorre subito aggiungere qualche precisazione riguardo alle cause matrimoniali. Anche se una delle parti avesse rinunziato all’esercizio della difesa, rimane per il giudice in queste cause il grave dovere di fare seri tentativi per ottenere la deposizione giudiziale di tale parte ed anche dei testimoni che essa potrebbe addurre. Il giudice deve ben valutare ogni singolo caso. Talvolta la parte convenuta non vuole presentarsi in giudizio non adducendo alcun motivo idoneo, proprio perché non capisce come mai la Chiesa potrebbe dichiarare la nullità del sacro vincolo del suo matrimonio dopo tanti anni di convivenza. La vera sensibilità pastorale ed il rispetto per la coscienza della parte impongono in tale caso al giudice il dovere di offrirle tutte le opportune informazioni riguardanti le cause di nullità matrimoniale e di cercare con pazienza la sua piena cooperazione nel processo, anche per evitare un giudizio parziale in una materia tanto grave.
Ritengo poi opportuno ricordare a tutti gli operatori della giustizia, che, secondo la sana giurisprudenza della Rota Romana, si devono notare nelle cause di nullità matrimoniali alla parte, che abbia rinunziato all’esercizio del diritto alla difesa, la formula del dubbio, ogni eventuale nuova domanda della parte avversa, nonché la sentenza definitiva.
6. Il diritto alla difesa esige di per sé la possibilità concreta di conoscere le prove addotte sia dalla parte avversa sia «ex officio». Il canone 1598, § 1 [LE 5171], dispone perciò che, acquisite le prove, il giudice deve permettere alle parti e ai loro avvocati, sotto pena di nullità, di prendere visione degli atti loro ancora sconosciuti presso la cancelleria del tribunale. Si tratta di un diritto sia delle parti sia dei loro avvocati. Il medesimo canone prevede pure una possibile eccezione: nelle cause che riguardano il bene pubblico il giudice può disporre, per evitare pericoli gravissimi, che qualche atto non sia fatto conoscere a nessuno, garantendo tuttavia sempre ed integralmente il diritto alla difesa.
Riguardo alla menzionata possibile eccezione è doveroso osservare che sarebbe uno stravolgimento della norma, nonché un grave errore d’interpretazione, se si facesse della eccezione la norma generale. Bisogna perciò attenersi fedelmente ai limiti indicati nel canone.
7. Non può destare meraviglia parlare anche, in rapporto al diritto di difesa, della necessità della pubblicazione della sentenza. Infatti, come potrebbe una delle parti difendersi in grado d’appello contro la sentenza del tribunale inferiore, se venisse privata del diritto di conoscerne la motivazione sia in iure che in facto? Il Codice esige quindi che alla parte dispositiva della sentenza siano premesse le ragioni sulle quali essa si regge, e ciò non soltanto per rendere più facile l’obbedienza ad essa, qualora sia diventata esecutiva, ma anche per garantire il diritto alla difesa in un’eventuale ulteriore istanza. Il canone 1614 dispone conseguentemente che la sentenza non ha alcuna efficacia prima della sua pubblicazione, anche se la parte dispositiva, permettendolo il giudice, fu resa nota alle parti. Non si capisce perciò come essa potrebbe venir confermata in grado d’appello senza la dovuta pubblicazione.
Per garantire ancora di più il diritto alla difesa, è fatto l’obbligo al tribunale di indicare alle parti i modi secondo i quali la sentenza può essere impugnata. Sembra opportuno ricordare che il tribunale di prima istanza, nell’adempimento di questo compito, deve anche indicare la possibilità di adire la Rota Romana già per la seconda istanza. È doveroso inoltre, in questo contesto, tener presente che il termine per l’interposizione d’appello decorre soltanto dalla notizia della pubblicazione della sentenza, mentre il canone 1634, § 2, dispone: «Quod si pars exemplar impugnatae sententiae intra utile tempus a tribunali a quo obtinere nequeat, interim termini non decurrunt, et impedimentum significandum est iudici appellationis, qui iudicem a quo praecepto obstringat officio sue quam primum satisfaciendi» [LE 5171].
8. Talvolta si asserisce che l’obbligo di osservare la normativa canonica al riguardo, specialmente circa la pubblicazione degli atti e della sentenza, potrebbe ostacolare la ricerca della verità a causa del rifiuto dei testimoni a cooperare al processo in tali circostanze.
Innanzitutto deve essere ben chiaro che la «pubblicità» del processo canonico verso le parti non intacca la sua natura riservata verso tutti gli altri. Occorre inoltre notare che la legge canonica esime dal dovere di rispondere in giudizio tutti coloro che sono tenuti al segreto d’ufficio, per quanto riguarda gli affari soggetti a questo segreto, ed anche coloro che dalla propria testimonianza temano per sé o per il coniuge o per i consanguinei o gli affini più vicini infamia, pericolosi maltrattamenti o altri gravi mali e che, anche riguardo alla produzione di documenti in giudizio, esiste una norma simile. Non può sfuggire, poi, che nella sentenza è sufficiente l’esposizione delle ragioni in diritto ed in fatto, sulla quale essa si regge, senza dover riferire ogni singola testimonianza.
Fatte queste premesse, non posso non rilevare che il pieno rispetto per il diritto alla difesa ha una sua particolare importanza nelle cause per la dichiarazione di nullità del matrimonio, sia perché esse riguardano così profondamente ed intimamente la persona delle parti in causa, sia perché trattano dell’esistenza o meno del sacro vincolo matrimoniale. Tali cause esigono, perciò, una ricerca della verità particolarmente diligente.
È evidente che si dovrà spiegare ai testimoni il senso genuino della normativa al riguardo, ed è anche necessario ribadire che un fedele, legittimamente convocato dal giudice competente, è tenuto ad obbedirgli e a dire la verità, a meno che non sia esente a norma del diritto.
D’altronde una persona deve avere il coraggio di prendere la propria responsabilità per ciò che dice, e non può aver paura, se ha davvero detto la verità.
9. Ho detto che la «pubblicità del giudizio canonico verso le parti in causa non intacca la sua natura riservata verso tutti gli altri. I giudici infatti e gli aiutanti del tribunale sono tenuti a mantenere il segreto d’ufficio, nel giudizio penale sempre, e nel contenzioso se dalla rivelazione di qualche atto processuale possa derivare pregiudizio alle parti; anzi ogni qual volta la causa o le prove siano di tal natura che dalla divulgazione degli atti o delle prove sia messa in pericolo la fama altrui, o si dia occasione di dissidi, o sorga scandalo o altri simili inconvenienti, il giudice può vincolare con il giuramento di mantenere il segreto i testi, i periti, e i loro avvocati o procuratori. Esiste anche il divieto ai notai e al cancelliere di rilasciare copia degli atti giudiziari e dei documenti acquisiti al processo senza il mandato del giudice. Inoltre, il giudice può essere punito dalla competente autorità ecclesiastica per la violazione della legge del segreto.
I fedeli, infatti, si rivolgono ordinariamente al tribunale ecclesiastico per risolvere il loro problema di coscienza. In tale ordine dicono spesso certe caso che altrimenti non direbbero. Anche i testimoni rendono spesso la loro testimonianza sotto la condizione, almeno tacita, che essa serva soltanto per il processo ecclesiastico. Il tribunale - per cui è essenziale la ricerca della verità oggettiva - non può tradire la loro fiducia, rivelando ad estranei ciò che deve rimanere riservato.
10. Dieci anni fa, nel mio primo discorso a codesto tribunale, ebbi a dire: «.. . il compito della Chiesa, e il merito storico di essa, di proclamare e difendere in ogni luogo e in ogni tempo i diritti fondamentali dell’uomo, non la esime, anzi la obbliga ad essere davanti al mondo speculum iustitiae».
Invito tutti gli operatori della giustizia a tutelare in questa prospettiva il diritto alla difesa. Mentre vi ringrazio sentitamente per la grande sensibilità del vostro tribunale a tale diritto, vi imparto di cuore la mia Apostolica Benedizione.
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